I trattamenti di integrazione salariale in applicazione del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”).

Nell’ottica sempre più attuale di tutelare e garantire non tanto il posto di lavoro strictu sensu quanto piuttosto la continuità occupazionale (c.d. employment security), il Governo ha varato il Decreto-Legge c.d. “Cura Italia” che contiene una serie di norme volte a contemperare le esigenze di datori di lavoro e lavoratori per mitigare le conseguenze che la grave emergenza sanitaria, ormai di scala mondiale, potrebbe generare.

Quanto alla disciplina degli ammortizzatori sociali, topograficamente collocata tra gli articoli 19 e 22 del D.L., il Legislatore ha individuato con chiarezza le norme speciali in materia di Cassa integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO), Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS), Cassa integrazione Guadagni in Deroga (CIGD) e Fondo di integrazione salariale (FIS). In materia di CIGO, l’articolo 19 estende “a tutte le imprese” la possibilità di accesso al trattamento salariale ordinario. In condizioni ordinarie, l’accesso alla CIGO è consentito solo ai comparti Industria ed Edilizia in caso di eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali o per situazioni temporanee di mercato e consente l’erogazione di un contributo pari all’80% della retribuzione globale; la durata del trattamento muta a seconda del settore interessato: per l’Industria il numero massimo è di 13 settimane continuative eventualmente prorogabili (per un totale di 52 settimane); per quanto riguarda invece il comparto Edilizia il numero massimo è di 13 settimane prorogabili fino ad un massimo di 52 settimane. (cfr Tab. 1, colonna 1) Le ordinarie procedure di accesso alle CIGO, inoltre, sono particolarmente complesse e composte da numerosi adempimenti (informazione, consultazione sindacale, fase amministrativa) che, se non ridotti o eliminati tout-court nel periodo attuale, vanificherebbero l’utilità della misura.

I recentissimi interventi normativi recepiscono l’emergenza sanitaria e consentono ai datori di lavoro che sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’epidemia da Covid-19, la possibilità di accedere al trattamento CIGO per un periodo massimo di 9 settimane e, comunque, entro la fine del mese di agosto 2020 a mezzo di procedure ridotte, snelle, in deroga ai termini procedimentali ex D.Lgs. 148/2015. I benefici contemplati dal Legislatore contemporaneo, inoltre, includono l’esonero dal pagamento del contributo addizionale previsto ex articolo 5 del D.Lgs. 148/2015 e la “neutralizzazione” dei periodi CIGO in costanza di COVID-19 rispetto al tetto massimo di fruizione della CIGO per ragioni ordinarie (in tal modo l’impresa “conserva” il proprio monte ore di cassa previsto ex lege che non risulterà intaccato dall’intervento dell’integrazione salariale fruita in costanza di una emergenza virale quale quella in atto). Come si deduce dagli articoli 19 – 22 del D.L., l’intervento della CIGO è previsto sia per imprese iscritte al Fondo di Integrazione Salariale (FIS) sia per quelle imprese che hanno in corso trattamenti di CIGS o assegni di solidarietà. Quanto alla CIGS, il Legislatore ha concesso alle imprese che abbiano in corso un trattamento di cassa integrazione straordinaria, la possibilità di accedere alla CIGO per il breve periodo di 9 settimane e con le stesse modalità ridotte di cui all’articolo 19 già menzionato. Anche in questo caso, il grande beneficio è che il periodo di 9 settimane eventualmente fruito in costanza di CIGS e durante l’emergenza sanitaria in atto non viene conteggiato ai fini della durata massima complessiva dei trattamenti di integrazione salariale. Ove le imprese decidessero di richiedere un intervento CIGO in costanza di CIGS, la cassa integrazione straordinaria risulterà sospesa e sostituita da nuovo trattamento e riprenderà il suo corso, verosimilmente, dopo le 9 settimane previste ex lege per la CIGO con causale COVID-19. Qualche precisazione anche in merito alla CIGD, su cui il Legislatore ha operato un massiccio intervento: tale ammortizzatore viene utilizzato in periodi di “emergenze” e tutela i datori di lavoro di imprese facenti parte del settore privato incluso il terzo settore, che non potrebbero accedere ai benefici della CIGO e della CIGS.

Anche in questo caso è stata prevista dal D.L. in esame una semplificazione procedurale che consente ai datori di lavoro di trovare un accordo con le organizzazioni sindacali in via telematica: quindi non solo con tempi più brevi del normale ma anche con l’ausilio dei propri legali che possono telematicamente gestire le incombenze, le scadenze, e le relazioni con ausiliari INPS in luogo dei loro clienti. Quanto infine alla competenza di erogazione delle misure suddette vi sono significative differenze: per la CIGO ed il FIS la gestione è INPS, quanto invece alla CIGS la gestione è di concerto tra il Ministero del Lavoro e l’INPS ed infine, per quanto riguarda la CIGD la gestione è ripartita tra Ministero del Lavoro Regioni e Province Autonome. Infine, in merito alle modalità di erogazione delle misure si fa richiamo alla circolare INPS n. 38 del 2020 che, sebbene precedente alla pubblicazione del D.L. Cura Italia, riassume e circoscrive non solo l’ambito di applicazione delle misure ma indica i canali attraverso i quali i datori di lavoro saranno in grado, anche a mezzo dei propri legali, di accedere ai trattamenti di integrazione salariale. Si attende nel breve periodo ulteriore circolare INPS di “adeguamento” al recentissimo Decreto-Legge n. 18/2020.

Le locazioni commerciali durante l’emergenza sanitaria Covid - 19: buona fede, disponibilità negoziale e collaborazione fra le parti.

La gravissima emergenza sanitaria in atto comincia purtroppo ad avere gravi conseguenze sulla stabilità dei rapporti contrattuali e, in particolare in materia di locazioni commerciali, la difficoltà seppur temporanea di regolare pagamento del canone ha dato avvio ad un possibile conflitto tra locatori di immobili ed aziende conduttrici.

Sul fronte di entrambe le parti si comincia infatti ad avvertire l’esigenza di chiarezza sui rispettivi diritti e doveri nel caso, ad esempio, di richieste di modifica dei termini e delle condizioni di pagamento o di sospensione del pagamento dei canoni.

Il tema in realtà, al di là dell’inquadramento giuridico delle eventuali contestazioni che una parte può sollevare nei confronti dell’altra, secondo noi verte principalmente sull’applicazione della buona fede intesa come principio generale che governa i rapporti negoziali e come strumento attraverso il quale ripristinare autonomamente l’equilibrio contrattuale venuto meno attraverso un dialogo costruttivo tra le parti.

Disponibilità negoziale e collaborazione reciproca fra creditore e debitore nell’attuale fase storica possono infatti rivelarsi rimedi molto più incisivi - e certamente costruttivi, oltre che economici - rispetto alla formulazione di contestazioni, diffide, lettere c.d. di messa in mora ovvero rispetto all’avvio di un autonomo giudizio in sede civile. Si pensi ad esempio all’artt. 1256 codice civile che, nel disciplinare l’impossibilità della prestazione, prevede che se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Oppure, dal lato del locatore, si pensi all’esercizio di una clausola risolutiva espressa che, ove preventivamente concordata, permette allo stesso di risolvere un contratto in caso di mancato tempestivo pagamento del canone da parte del conduttore.

Al di là di oziose disquisizioni attorno all’applicazione o meno di alcuni principi civilistici in subiecta materia (i.e. factum principis/forza maggiore/eccessiva onerosità sopravvenuta etc.) e fermo restando che il Decreto “Cura Italia” ha previsto la facoltà in capo ai conduttori esercenti attività rimaste chiuse di recuperare parzialmente l’importo relativo al canone di marzo mediante il meccanismo del credito d’imposta, in concreto il corollario delle considerazioni sopra svolte consiste nell’opportunità che le parti, invece di litigare eventualmente anche di fronte al giudice con ulteriori oneri e perdite di tempo, concordino congiuntamente una sospensione convenzionale del pagamento del canone per un certo (e congruo) periodo di tempo con l’impegno, ad esempio, a carico del conduttore di rientrare dei canoni scaduti ed insoluti entro l’anno successivo tramite un piano di rientro condiviso. Un’ulteriore opzione potrebbe essere costituita da una riduzione convenzionale del canone per un periodo di tempo determinato - in questo caso coincidente con la durata della paralisi dovuta all’epidemia in atto - che permetta però al conduttore il regolare ed effettivo pagamento dei canoni senza interruzioni.

Le parti, facendosi reciproche concessioni, in un’ottica di buon senso ed in buona fede reciproca, ristabilirebbero amichevolmente e senza ulteriori spese un equilibrato assetto dei rispettivi interessi mantenendo in vigore il contratto. Le soluzioni prospettate - che possono essere molteplici e rimesse alla “capacità creativa” delle parti - si fondano evidentemente sulla disponibilità e concreta capacità delle stesse a collaborare e ad individuare una soluzione in linea alle rispettive e reciproche esigenze.

A prescindere e ferme restando le lungaggini insite in ogni giudizio, lo scenario attuale, con la sospensione dell’attività giurisdizionale recentemente prorogata sino al 15 aprile 2020, non lascia peraltro intravedere la possibilità di ottenere una tutela tempestiva delle proprie ragioni in caso di vertenze che non siano state previamente conciliate tra le parti.

La sospensione dei termini nel processo civile a seguito del d.l. 18/2020

Come è noto, l’art. 83 D.L. 17 marzo 2020 n. 18, rubricato “Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare”, ha integrato e modificato il precedente art. 2 D.L. 8 marzo 2020 n. 11, chiarendo la disciplina applicabile alla sospensione dei termini processuali in materia civile, penale, tributaria e militare operativa dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 (salve specifiche eccezioni ed ulteriori possibili proroghe).

In base alla lettera di tale norma, sono da considerare:

  • rinviate d’ufficio le udienze già fissate fino al 15 aprile 2020 (in linea di continuità con la precedente decorrenza di rinvio dal 9 marzo 2020 disposta dal Comunicato urgente del Ministero della Giustizia del 8 marzo 2020);

  • sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto processuale fino al 15 aprile 2020 (in linea di continuità con la precedente decorrenza di sospensione dal 9 marzo 2020 disposta dal Comunicato urgente del Ministero della Giustizia del 8 marzo 2020).

È inoltre la stessa disposizione a fornire specifici chiarimenti operativi in riferimento ad alcune fattispecie di calcolo dei termini processuali, precisando che: i) ove il momento iniziale di decorrenza di un termine dovesse cadere nel lasso temporale di sospensione, lo stesso slitterà verosimilmente al primo giorno successivo alla sospensione (ovvero, ad oggi, il 16 aprile 2020) e, ii) in merito ai termini da computarsi a ritroso (e.g. il termine per il convenuto per costituirsi in giudizio), ove essi dovessero cadere in tutto o in parte nel periodo di sospensione, l’udienza o l’attività da cui decorre a ritroso il termine in questione verranno ulteriormente differiti per consentirne il rispetto.

Allo stato sembrerebbe quindi che l’istituto della sospensione - utilizzato in modo così “disinvolto” dal Governo - sia assimilabile a tutti gli effetti, anche nei meccanismi di calcolo, alla ordinaria sospensione feriale dei termini che si verifica dal 1 al 31 agosto di ogni anno.

La normativa in commento ha inoltre esplicitato l’applicabilità di tale istituto anche ai termini di natura sostanziale e per il compimento degli atti previsti nei procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie:

-        il comma 8 dell’articolo in esame prevede infatti che, nel periodo di efficacia delle misure emergenziali che precludono la presentazione della domanda giudiziale, è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e di decadenza dei diritti che possono essere esercitati solo mediante il compimento delle attività oggetto di preclusione;

-        il comma 20 sospende invece i termini per lo svolgimento di qualsiasi attività prevista nei procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita, nonché in tutti gli altri procedimenti per la risoluzione alternativa delle controversie che costituiscono condizione di procedibilità dell’azione e pendenti alla data del 9 marzo 2020.

Giova infine precisare che, ai sensi del dell’articolo 83 comma 6 D.L. 18/2020, è stato introdotto un criterio di coordinamento organizzativo relativo al periodo immediatamente successivo al 15 aprile 2020, in cui i singoli Uffici Giudiziari saranno chiamati ad adottare “le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”.

La lettera della legge sembra in definitiva - almeno in questa occasione - non prestare il fianco a creative e molteplici interpretazioni di sorta, ma si dovrà in ogni caso attendere eventuali nuove direttive da parte del Governo - relative al periodo immediatamente successivo al 15 aprile 2020 - al fine di comprendere se l’attuale regime di sospensione processuale e la successiva fase di coordinamento organizzativo verranno ulteriormente prorogati.

Un primo caso di utilizzo di Microsoft Teams per lo svolgimento delle udienze civili - Introduzione delle “udienze telematiche” a seguito del D.L. 18/2020 e dei provvedimenti della D.G.S.I.A.

Il 1 aprile 2020 ho ricevuto a mezzo PEC, quale procuratore di parte, la prima notifica di un provvedimento di fissazione udienza con la previsione dell’utilizzo di Microsoft Teams per la comparizione da remoto.

Riporto la parte dispositiva del provvedimento, emesso dal Tribunale di Parma, Sezione Fallimentare, che testualmente recita: “specifica che l’udienza si svolgerà ai sensi dell’art. 83 comma settimo lett. f) del D.L. n. 18 del 17.03.2020, attraverso l’utilizzo del programma teams e secondo le modalità operative indicate nella circolare del 12.03.2020”.

Si tratta con ogni evidenza di una tempestiva applicazione delle misure assunte di recente per consentire lo svolgimento dell’attività giurisdizionale con le dovute cautele socio- sanitarie.

E’ ormai noto che il Legislatore è intervenuto per disciplinare lo svolgimento delle udienze civili introducendo la possibilità che le stesse si tengano in via telematica, quanto meno, nell’attuale momento di emergenza sanitaria.

In particolare con il D.L. 18/2020 all’art. 83 co. 7 è stato, fra l’altro, previsto che “Per assicurare le finalità di cui al comma 6, i capi degli uffici giudiziari possono adottare le seguenti misure: f) la previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Lo svolgimento dell'udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti. Prima dell'udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. All'udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell'identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale;

La norma è di semplice lettura ma, come spesso si verifica nella più recente produzione normativa, demanda ad una fonte di rango inferiore l’adozione degli interventi esecutivi, con il rischio di una frammentazione regolamentare foriera di dubbi interpretativi e applicativi.

Infatti, l’Autorità nominata, il D.G.S.I.A (Direzione gestione sistemi informatizzati automatizzati del Ministero di Giustizia) si è affrettata a fornire le prime linee guida operative già in data 9 marzo 2020 offrendo un “vademecum” operativo, destinato perlopiù ai Magistrati che dovranno attivare le “stanze virtuali” e, successivamente, ha fornito ulteriori chiarimenti e prescrizioni con provvedimento del 20 marzo 2020.

Quest’ultimo provvedimento organizzativo prevede nello specifico che “nell’ipotesi prevista dall’art. 83, comma settimo, lett. f), del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, le udienze civili possono svolgersi mediante collegamenti da remoto organizzati dal giudice utilizzando i seguenti programmi attualmente a disposizione dell’Amministrazione e di cui alle note già trasmesse agli Uffici Giudiziari (prot. DGSIA nn. 7359.U del 27 febbraio 2020 e 8661.U del 9 marzo 2020):

Skype for Business;

Teams.

I collegamenti effettuati con i due programmi su dispositivi dell’ufficio o personali utilizzano infrastrutture di quest’amministrazione o aree di data center riservate in via esclusiva al Ministero della Giustizia.”

Un primo punto fermo della nuova procedura viene dunque fissato e consiste nell’adozione degli applicativi autorizzati per l’espletamento del rito da remoto. Skype for Business e Microsoft Teams sono infatti gli unici due software previsti e autorizzati dal Ministero di Giustizia. Nel silenzio dei provvedimenti, si ritiene che la scelta fra quale dei due tools utilizzare sia rimessa al singolo Magistrato. L’altro “pilastro” della nuova procedura è la cosiddetta “stanza virtuale” che dovrà essere creata e organizzata dal Magistrato al quale pure è demandato il delicato incombente tecnico – informativo di comunicare alle parti l’invito all’udienza.

Vista la terminologia piuttosto generica adottata dal D.G.S.I.A. nel vademecum del 9 marzo 2020, laddove si parla di invito è chiaro che, di fatto, si intenda comunicazione se non anche notificazione, posto che le norme processuali sul punto andranno, a mio avviso, scrupolosamente osservate.

Attendiamo, a questo punto l’auspicabile emanazione di ulteriori chiarimenti da parte delle Autorità preposte e segnaliamo la disponibilità dei primi corsi formativi on line (ad es. su Consolle Avvocato). Con l’avvertenza di prestare la massima attenzione all’emissione di specifiche circolari da parte degli Uffici circondariali o distrettuali.

Da ultimo, segnalo che l’art. 83 del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, al co. 7 lett h) prevede “lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice.”

Benchè, allo stato, non si abbia ancora diretta notizia della ricorrenza di questa casistica, che prevede di fatto la soppressione di talune udienze, è evidente che una simile eventualità si presta a più di un dubbio di legittimità e lascia intravedere preoccupanti scenari di limitazione del contraddittorio e compressione dei diritti di difesa.

Privacy e rapporti di lavoro durante l’emergenza Coronavirus: i controlli del datore di lavoro.

Il Garante Privacy ha recentemente emesso una nota informativa riguardo alla possibilità di raccogliere, da parte dell’azienda, all’atto della registrazione di visitatori e utenti, informazioni circa la presenza di sintomi da Coronavirus e notizie sugli ultimi spostamenti, come misura di prevenzione dal contagio.

Il Garante precisa che i datori di lavoro devono astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa.

L’accertamento e la raccolta di informazioni relative ai sintomi tipici del Coronavirus e alle informazioni sui recenti spostamenti di ogni individuo spettano agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile, che sono gli organi deputati a garantire il rispetto delle regole di sanità pubblica recentemente adottate.

Resta fermo l’obbligo del lavoratore di segnalare al datore di lavoro qualsiasi situazione di pericolo per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Nel caso in cui, nel corso dell’attività lavorativa, il dipendente venga in relazione con un caso sospetto di Coronavirus, lo stesso, anche tramite il datore di lavoro, dovrà comunicare la circostanza ai servizi sanitari competenti e ad attenersi alle indicazioni di prevenzione fornite dagli operatori sanitari interpellati.

Le autorità competenti hanno, inoltre, già previsto le misure di prevenzione generale alle quali ciascun titolare dovrà attenersi per assicurare l’accesso dei visitatori a tutti i locali aperti al pubblico nel rispetto delle disposizioni d’urgenza adottate.

Interessante la prospettiva dell’autorità privacy francese la CNIL che, sulla stessa materia, ha recentemente previsto il divieto di: • letture obbligatorie della temperatura corporea di ogni dipendente/agente/visitatore da inviare quotidianamente ai suoi superiori; • la raccolta di cartelle cliniche o questionari da tutti i dipendenti/agenti.

In questo contesto, il datore di lavoro può: • sensibilizzare e invitare i propri dipendenti a fornire un feedback individuale delle informazioni che li riguardano in relazione alla possibile esposizione, al datore di lavoro o alle autorità sanitarie competenti; • facilitare la loro trasmissione impostando, se necessario, canali dedicati; • promuovere metodi di lavoro a distanza.

In caso di segnalazione, il datore di lavoro può registrare: • la data e l'identità della persona sospettata di essere stata esposta; • le misure organizzative adottate (contenimento, telelavoro, orientamento e contatto con il medico del lavoro, ecc.) • il datore di lavoro può quindi comunicare alle autorità sanitarie, su richiesta, le informazioni relative alla natura dell'esposizione necessarie per qualsiasi assistenza sanitaria o medica della persona esposta.

E-commerce. Il vostro sito rispetta la normativa sulle vendite online?

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L’aumento esponenziale dello shopping online, in un mondo segnato dalla pandemia causata dal Covid-19 dovrebbe convincere molti operatori a valutare la conformità legale dei propri siti di e-commerce. Ciò anche alla luce del fatto che l’Agicom, il Garante della Privacy e le autorità giudiziarie sono certamente più attive nei momenti di grande espansione di Internet ed è più facile che arrivino controlli da parte delle autorità su segnalazioni di clienti o concorrenti che possono comportare l’applicazione di sanzioni spesso elevate.

Da parte nostra abbiamo individuato cinque macro aree in cui potrebbe essere utile pensare ad un “check up legale” per evitare sanzioni da parte delle autorità competenti.

1.   Condizioni generali di contratto

Nel caso in cui il titolare di un online shop intenda introdurre particolari clausole nei rapporti con i consumatori queste devono sempre essere specificate nelle condizioni generali di contatto. Le condizioni generali di contratto devono riportare i termini e le condizioni generali di vendita, così come tutte le informazioni concernenti il diritto di recesso, le modalità di restituzione della merce, tempi di consegna ed i costi della merce e della spedizione, nel pieno rispetto delle diposizioni previste dal codice del consumo.

2.   Privacy e Cookie Policy

La Privacy Policy è un documento che informa gli utenti di un sito circa il trattamento dei loro dati personali, essa è obbligatoria per legge anche in caso di tracciamento delle visite per mezzo di strumenti di web analytics.

Purtroppo, molte società dedicano ancora poca attenzione agli obblighi in materia di trattamento dei dati personali, ma se non si vuole incorrere in sanzioni pecuniarie significative da parte del Garante della privacy è importante che il vostro sito aziendale sia a norma di legge.

I decreti legislativi n. 69/2012 e 70/2012 hanno sancito l’obbligo di inserire un banner all’apertura del sito web, con il quale si richiede all’utente il consenso al trattamento dei dati, al fine di poter proseguire con la navigazione. Il consenso sarà necessario anche quando si intenda condividere i dati del proprio cliente con soggetti terzi.

Inoltre, se il sito utilizza alcune tipologie di cookie per la profilazione dell’utente, è obbligatorio inserire uno specifico banner informativo sulla natura dei cookie utilizzati.

3.   Indicazione dei dati societari

Il titolare di un e-commerce deve sempre inoltre indicare alcuni dati come: nome, sede legale, indirizzo di posta elettronica, numero di iscrizione al REA o al registro delle imprese. Per le società di capitali si deve sempre indicare il capitale sociale versato (o indicare lo stato di liquidazione).

4.   Partiva IVA e comunicazioni registro imprese

Salvo il caso di attività puramente occasionale e di guadagni inferiori ai 5.000 euro, l’apertura di un negozio online comporta l’apertura di una partita iva e l’iscrizione nel Registro delle Imprese, presso la Camera di Commercio.

5.   Diritto d’autore e privative industriali

Un sito internet (vetrine, blog, e-commerce, portali etc.) si compone di molteplici elementi che possono essere protetti sotto il profilo della proprietà industriale:

·         il nome di dominio;

·         il logo;

·         la configurazione grafica;

·         la concezione strutturale e organizzata che emerge navigando tra le vostre pagine: paragonabile alla "scenografia" del sito;

·         i testi e le immagini delle pagine.

È importate verificare che il vostro sito rispetti la normativa in materia di diritto d’autore e non violi le privative industriali di terzi.

SOS Italia. Privacy & Big Data ai tempi del Covid 19

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Il drammatico evolversi della crisi sanitaria legata al Covid-19 sul territorio italiano ha richiesto al Governo di porre in essere misure eccezionali per far fronte a questa emergenza, incluso il ricorso a nuovi strumenti tecnologici mai precedentemente impiegati dalle istituzioni nazionali.

Il 20 marzo 2020, il Ministero per l’Innovazione Tecnologica, congiuntamente al Ministero dello Sviluppo Economico e al Ministero dell’Università e della Ricerca, ha rivolto un invito a tutti gli operatori dell’ecosistema digitale italiano, affinché contribuissero a semplificare la gestione della pandemia da parte del Governo mediante lo sviluppo di piattaforme digitali e di altri sistemi per l’elaborazione di dati.

E’ così nata l’app mobile “SOS Italia”, progetto realizzato dall’Associazione Italiana Digital Revolution, in collaborazione con la software house Sielte, che si presume sarà a breve disponibile sui digital store dei sistemi operativi iOs e Android.

SOS Italia” si pone l’obiettivo di monitorare e contenere la diffusione del Covid-19 attraverso un’interfaccia user-friendly (log in tramite Google, Facebook, sms con OTP su numero di telefono e integrazione nativa con SPID) che consentirà ai cittadini di reperire facilmente le comunicazioni ufficiali rese dal Governo, le regole di condotta da adottare, i numeri da chiamare in caso di emergenza ed altre informazioni utili.

Il cittadino potrà compilare un questionario con finalità di autodiagnosi e comunicare alle autorità il proprio stato di isolamento obbligatorio o preventivo, la presenza di sintomi e la positività al virus.

Ogni utente potrà anche scegliere di digitalizzare le proprie autocertificazioni per gli spostamenti consentiti e ricevere notifiche nel caso in cui vi sia il rischio che sia incorso in un contagio. Ciò sarà possibile perché, una volta che il soggetto avrà volontariamente scaricato l’app, la funzionalità GPS rimarrà attiva anche se l’utente non sta utilizzando l’applicazione. In questo modo si potrà creare una mappatura di tutti i luoghi frequentati dal singolo individuo e costruire un registro delle persone con cui il soggetto è venuto a contatto.

Analogamente a quanto già sperimentato in Corea del Sud, anche in Italia si tenta, pertanto, una risposta tecnologica, basata sull’utilizzo di Big Data e algoritmi, per porre un freno alla curva dei contagi. Ma, se da una parte le funzionalità tecniche dell’applicazione forniscono strumenti di indiscussa rilevanza per il monitoraggio e il contenimento della pandemia, d’altra parte preoccupano le inevitabili implicazioni in materia di data protection.

Durante una crisi sanitaria su scala nazionale e globale, la protezione del primario diritto alla salute si pone potenzialmente in contrasto con una serie di altri valori meritevoli di tutela. La gestione dell’attuale emergenza comporta inevitabilmente la restrizione, da parte delle autorità, di diritti fondamentali, tra cui, la libertà personale e la tutela dei dati personali (privacy).

Esaminiamo gli aspetti privacy. Il GDPR prevede la liceità del trattamento dei dati, pure relativi a categorie particolari, anche senza l’espresso consenso dell’interessato, quando il trattamento è necessario per salvaguardare i suoi interessi vitali (o quelli di altra persona fisica), ovvero quando sia indispensabile per l’espletamento di un compito di interesse pubblico. Sulla base di questa previsione, quindi, il trattamento dei dati della persona fisica, compresi quelli relativi alla sua salute, può avvenire indipendentemente dal rilascio del consenso quando la finalità del suddetto trattamento sia quella di limitare la diffusione del Covid-19.

Per quanto riguarda il trattamento dei dati delle telecomunicazioni, come i dati relativi all'ubicazione, devono essere rispettate anche le leggi nazionali di attuazione della direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche (c.d. direttiva e-privacy). La direttiva e-privacy consente agli Stati membri di introdurre misure legislative per salvaguardare la sicurezza pubblica.

Il d.l. 14/2020, contenente disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale in relazione all’emergenza Covid-19,  prevede la possibilità che i soggetti operanti nel Servizio Nazionale di Protezione Civile, gli uffici del Ministero della Sanità e dell’Istituto Superiore di Sanità e tutti gli altri soggetti deputati a monitorare e a garantire l'esecuzione delle misure di contenimento della pandemia,  possano condividere e scambiare  tra loro dati personali dei cittadini (inclusi quelli relativi allo stato di salute) che risultino necessari all’espletamento delle loro funzioni. Tali soggetti possono anche omettere di fornire l’informativa privacy (come anche le istruzioni agli incaricati del trattamento) o fornirla solo oralmente.

Tale decreto, esplicita anche che i trattamenti di dati personali debbano essere comunque effettuati conformemente ai principi di liceità, trasparenza e correttezza previsti dall’articolo 5 del GDPR, riducendo al minimo il loro trattamento (principio di minimizzazione).

Ad oggi, però, non risulta essere chiaro come tali principi verranno puntualmente attuati e chi, tra le diverse autorità in gioco, sarà di fatto individuato quale soggetto titolare del trattamento dei dati e quali enti, pubblici e privati, saranno i responsabili del suddetto trattamento.

Uno dei temi che desta maggiore preoccupazione è quello che riguarda il trattamento dei dati relativi all’ubicazione dei cittadini e su come questi possano essere utilizzati dalle autorità.

In varie interviste, il Garante Privacy, nella persona del suo presidente, ha ribadito che il diritto alla privacy può soggiacere a talune limitazioni di fronte ad un interesse collettivo, purché venga assicurato il necessario bilanciamento tra tutela dei diritti individuali e salvaguardia dei beni giuridici collettivi, anche prevedendo che ogni eventuale legge in deroga abbia una durata definita e coincidente con il periodo di emergenza.

Una questione inevitabilmente connessa riguarda, inoltre, il tempo di conservazione dei dati, che dovrà essere anch’esso limitato al suddetto periodo di emergenza e dovrà essere chiarito prima quali saranno le operazioni di trattamento consentite al termine del periodo emergenziale e che sorte avranno i dati raccolti.

Il Garante Privacy ha chiarito che “la protezione dati può persino essere uno strumento utilissimo nell'azione di contrasto dell'epidemia, quando quest'azione sia fondata su dati e algoritmi, dei quali va garantita esattezza, qualità e revisione "umana", ove necessario, come nel caso di decisioni automatizzate errate perché fondate su bias.”. 

A questo proposito, continua il Garante Privacy, un decreto-legge potrebbe coniugare tempestività della misura e partecipazione parlamentare. Va da sé che la durata deve essere strettamente collegata al perdurare dell'emergenza.

Nella dichiarazione congiunta del Presidente della Convenzione 108 ed del Commissario per la protezione dei dati del Consiglio d’Europa vi è un interessante indicazione sull’uso di test preliminari in "sandbox", e cioè il consiglio di testare l’app in un ambiente sicuro e privato prima di rilasciarla al pubblico.

Il Garante Privacy potrà essere, se del caso, coinvolto in sede di consultazione preventiva, ma in ogni caso le logiche del trattamento e le misure di sicurezza, dovranno essere verificati da consulenti esperti in grado di elaborare corrette architetture privacy ed impostare operazioni di trattamento - by design e by default - rispettose dei nostri diritti fondamentali.

In conclusione, la privacy non è di ostacolo al trattamento massivo di dati, anche sensibili, ma tali operazioni, che incidono su nostri diritti fondamentali, debbono essere efficaci, graduali ed adeguate.

L’Antitrust detta le linee guida nei rapporti tra clienti, agenzie e microinfluencer.

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Il 15 marzo si è concluso un procedimento avviato dall’Antitrust che ha coinvolto per la prima volta 9 micro influencer che si sono occupati del lancio della crema da spalmare “Pan di Stelle”.

Da tempo oramai l’autorità antitrust si sta occupando, come del resto di sua competenza, di diverse segnalazioni per pubblicità occulta diffusa con i nuovi media, come nel recente caso Alitalia / Alberta Ferretti.

Anche in questo caso l’Antitrust non ha irrogato alcuna sanzione nei confronti dei soggetti coinvolti, accettando gli impegni che Barilla e i micro-influencer si sono resi disponibili ad assumersi.

L’Antitrust ha valutato positivamente gli impegni assunti dalle parti coinvolte nel procedimento che iniziano a delinearsi come delle vere e proprie linee guida, tanto per le società lanciano la campagna di influencer marketing quanto per gli influencer che promuovono i prodotti/servizi oggetto della campagna e per le agenzie che mediano il rapporto tra cliente ed influencer.

Le linee guida che emergono dalla decisione dell’Autorità Antitrust possono riassumersi come segue:

Quanto alle aziende:

1.       dovrebbero utilizzare nei rapporti con influencer uno standard contrattuale che contenga delle clausole sanzionatorie (quali riduzione di corrispettivi e/o penali e/o sospensione di pagamenti) nei confronti degli influencer;

2.       dovrebbero inserire nel contratto tra cliente ed agenzie delle clausole volte a responsabilizzare le agenzie stesse. Queste dovranno vigilare attentamente sull’operato degli influencer attivandosi tempestivamente, anche su segnalazione del cliente, per garantire l’osservanza delle Linee Guida.

Quanto ai micro-influencer costoro dovrebbero:

1.       inserire, nei post contenenti l’immagine o la menzione di prodotti ricevuti dai brand nei cui confronti non hanno assunto obblighi di svolgere attività di promozione, hashtag quali #suppliedbybrand o #brandgift o #fornitodabrand, o altra dicitura simile;

2.       inserire, nei post pubblicati nell’ambito di un rapporto di collaborazione con il brand, gli hashtag #pubblicitàbrand o #sponsorizzatodabrand o #advertisingbrand o #inserzioneapagamentobrand;

3.       non ripubblicare i contenuti autorizzati e selezionati dai brand committenti, a meno che il contratto non lo preveda espressamente con i relativi vincoli.

Questa decisione che traccia delle linee guida che danno maggiore certezza nei rapporti contrattuali tra imprese ed influencer.

Coronavirus (Covid-19) e ripercussioni sull'attività lavorativa.

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Nella tristemente nota situazione di emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Coronavirus, lo Stato ha adottato una serie di misure urgenti restrittive al fine di contenere la diffusione epidemiologica da Covid-2019.

In particolare il D. L. 23 febbraio 2020, n. 6, ha disposto che, per “evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni  o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione … le   autorità competenti sono tenute ad adottare  ogni  misura  di  contenimento” e “tra le misure possono essere adottate” tra le altre, la “chiusura di tutte le attività commerciali”, la “chiusura o limitazione  dell’attività  degli  uffici  pubblici”, “sospensione  delle  attività  lavorative  per  le  imprese”: in una parola, la sospensione di ogni potenziale attività lavorativa (salvo si tratti di servizi pubblici essenziali o di prima necessità) sia nelle zone rosse in cui sono stati identificati dei “focolai” sia nelle zone “gialle”, ovvero, le zone a rischio di diffusione (Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria, Trentino-Alto Adige, Friuli ed Emilia Romagna).

Tale paralisi ha fatto sorgere la necessità di ricorrere anche a forme di svolgimento di prestazioni lavorative “delocalizzate” per ridurre l’impatto dalla sospensione delle attività tanto che, con successivo DPCM del 25/2/2020, il Governo ha sancito che “la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n.  81, è applicabile in via provvisoria, fino al 15 marzo 2020, per i datori di lavoro aventi sede legale o operativa nelle Regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria, e per i lavoratori ivi residenti o domiciliati che svolgano attività lavorativa fuori da tali territori, a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti”.

Al di fuori delle prescrizioni governative, le ulteriori misure a cui ricorrere per il contenimento delle conseguenze negative derivanti dalla sospensione delle attività lavorative potrebbero consistere nel ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni o ai Fondi di Integrazione Salariale sempre che ne ricorrano i presupposti.

Altra misura a cui ricorrere potrebbe consistere nel collocare i dipendenti in ferie o nel fare smaltire ore di permessi sempre che, ovviamente, tali misure venga concordata e non imposta ai dipendenti.

Senza pretesa di esaustività, i suggerimenti sopra evidenziati costituiscono meri spunti di riflessione in attesa dell’auspicato rientro della situazione di emergenza sanitaria.



Human Feelings as Drugs. La Corte d'appello di Milano ribalta la decisione resa in primo grado.

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Recentemente la Corte di Appello ha ribaltato un giudizio reso nel settembre del 2018 dal Tribunale di Milano di cui c’eravamo occupati in questo blog - https://clovers.law/it/blog/2019/1/31/la-tutela-delle-fotografie-tra-opere-artistiche-e-semplici .

La vicenda traeva spunto dalla presunta violazione del diritto d’autore di una fotografia denominata “Human Feelings as Drugs”, consistente nella realizzazione di fotografie, stampe e poster riproducenti fialette di medicinali di svariati colori, recanti la scritta “empathy”, “hope”, “love”, “peace” e “joy” con riportate le frasi espressive del relativo sentimento o dell’emozione.

Nel progetto, l’artista Valerio Loi intendeva realizzare l’idea di assumere “sentimenti come medicine”, in modo da “permettere al paziente un istantaneo risveglio della percezione e un reintegro all’interno del flusso vitale delle emozioni”.

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 L’attore lamentava l’illecita riproduzione da parte della società convenuta, Queriot  de la Bougainville S.r.l.,  di una serie di ciondoli -abbinati a collane e braccialetti – che avrebbero riprodotto le proprie fialette, con identiche denominazioni dei sentimenti, accompagnate dalle stesse frasi illustrative. Ha dunque invocato l’inibitoria, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza.

 Il Tribunale di primo grado aveva ribadito che in materia di opere fotografiche, il carattere artistico presuppone l’esistenza di un atto creativo in quanto espressione di un’attività intellettuale preminente rispetto alla mera tecnica materiale. La modalità di riproduzione del fotografo deve trasmettere cioè un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla rappresentazione oggettiva cristallizzata, rendendo cioè una soggettiva interpretazione idonea a distinguere un’opera tra altre analoghe aventi il medesimo oggetto. Il requisito della creatività dell’opera fotografica sussiste ogniqualvolta l’autore non si sia limitato ad una riproduzione della realtà, ma abbia inserito nello scatto la propria fantasia, il proprio gusto, la propria sensibilità, così da trasmettere le proprie emozioni.

 In materia di opere fotografiche, la natura artistica della riproduzione non può desumersi dalla notorietà del soggetto o dell’oggetto che è ritratto, giacché il valore dell’opera artistica si apprezza in virtù di canoni di natura formale – che esprimano in modo assolutamente caratteristico ed individualizzante la personalità dell’autore – dovendo invece il relativo giudizio prescindere dall’oggetto o dal soggetto in sé riprodotto.

 Nel caso in esame il Tribunale aveva escluso la natura artistica delle immagini litigiose essendo impossibile ravvisarne proprio quegli aspetti di originalità e creatività che risultano indispensabili per riconoscere la piena protezione ex art. 2 l. aut. A dire del Tribunale l’attore non ha indicato precise inquadrature ovvero un'attenta selezione delle luci o ancora particolari dosaggi di toni chiari e scuri che il Collegio possa apprezzare. Non sembrano neppure qui rivenirsi quei peculiari indici che identifichino quell’impronta personale e peculiare del fotografo ovvero quella capacità di intervenire sul soggetto in modo tale da evocare suggestioni, che appunto, valgono a distinguere un’opera fotografica da una fotografia semplice.

Sulla scorta di tale decisione, Valerio Loi, al fine di vedersi dichiarare l’artisticità della sua opera ed ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti per l’abusivo sfruttamento della stessa  ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado ottenendo la totale riforma della stessa.

In merito alla sussistenza del diritto d’autore per opera fotografica in capo a Valerio Loi, i giudici della Corte d’Appello di Milano, contrariamente a quanto stabilito dal Collegio in primo grado, hanno ritenuto che: “la presenza del carattere creativo o meno nell’opera fotografica debba essere verificata, valutando unitariamente il soggetto, riprodotto nella fotografia, e le modalità fotografiche, con cui il soggetto è stato fotograficamente reso, posto che la suggestione emozionale dell’opera fotografica deriva proprio dalla stretta connessione esistente tra il soggetto fotografato, ovviamente tridimensionale, e le particolari modalità con cui lo stesso viene reso nell’immagine fotografica bidimensionale. Peraltro la creatività, idonea a conferire all’opera fotografica valore artistico, da un lato, non coincide con il concetto di creazione, originalità e novità assoluta, ma si riferisce alla personale ed individuale espressione di un'oggettività, appartenente alle categorie elencate nell’art.1 L. 633/1941, di guisa che è sufficiente la sussistenza di un atto creativo, anche minimo, dall’altro lato, non è costituita dall'idea in sè, ma dalla forma della sua espressione, cioè dal modo con cui l’idea si concretizza nel mondo esteriore [...]” e che dunque “Non vi è alcun dubbio che l’opera fotografica in questione presenti un rilevante tasso di creatività […]”.

In conclusione, dunque, la Corte ha deciso che l’opera di Valerio Loi “Human Feelings as Drugs” debba ritenersi tutelata dalla normativa sul diritto d’autore, in quanto opera dell’ingegno con carattere creativo nel particolare settore della fotografia

Come la blockchain potrà aiutare i titolari dei marchi non registrati.

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Come molti sapranno, la blockchain permette di registrare le transazioni tra le persone che le effettuano, e la tecnologia sottostante verifica che tutti gli utenti tengano dei registri corrispondenti alle transazioni effettuate.

La tecnologia blockchain può quindi garantire e documentare la prova del primo e continuo utilizzo e ciò sta aprendo molteplici forme di applicazione soprattutto nel campo della protezione dei diritti di privativa industriale.

La blockchain in quanto strumento che certifica la titolarità di un diritto di privativa industriale, potrà in futuro essere uno strumento utile per gli uffici nazionali che si occupano del processo di registrazione.

In generale, nel settore dei marchi, la tecnologia blockchain sembra avere almeno due forme di utilizzo immediatamente applicabili:

  • la creazione di registrazioni basate su blockchain come sistema di registrazione più sicuro e affidabile per dimostrare l'uso del marchio; e

  • la possibilità di dimostrare la provenienza e la legittimità dei beni in un’ottica di lotta alla contraffazione.

Tuttavia, il marchio registrato può comportare costi elevati se la domanda viene presentata in diverse giurisdizioni. Pertanto, per motivi squisitamente di budget, molte imprese preferiscono non depositare il tutti i segni distintivo avendo nel proprio portafoglio uno o più marchi non registrati.  

Come è noto, il codice della proprietà industriale riconosce i diritti sui marchi non registrati, cioè quei marchi utilizzati per distinguere prodotti e servizi, ma appunto mai registrati.

Orbene la tecnologia blockchain offre la possibilità di creare dei “timestamp” immutabili che in relazione a tutti i segni distintivi, possono fornire la prova certificata del primo uso e dell'uso continuato.

Tutto ciò potrebbe a breve portare alla creazione di un database di marchi non registrati che si potrà affiancare ai registri nazionali gestiti dai vari uffici con dei costi e dei tempi di gran lunga inferioriai marchi registrati.

Nike ottiene il primo brevetto per abbinare la Blockchain alle proprie scarpe

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Nike ha ottenuto di recente un brevetto per la creazione di versioni digitali delle sue scarpe da parte dell'USPTO.

Nike riferisce che i suoi clienti potranno ora registrare l'acquisto delle loro scarpe con un numero di identificazione unico. Una versione digitale equivalente della scarpa sarà creata attraverso un portafoglio di valuta criptata collegato con l'ID univoco dell'utente. e la Blockchain aiuterà gli utenti a verificare l'autenticità delle scarpe che i clienti stanno acquistando.

La versione digitale delle scarpe conterrà un gettone crittografico basato sulla piattaforma Ethereum. Inoltre, avrà anche informazioni sulle caratteristiche fisiche del prodotto, tra cui il colore, il materiale utilizzato, i dettagli di produzione e il loro fattore di "ecosostenibilità".

La registrazione del prodotto su blockchain permetterebbe agli utenti di "vendere o scambiare in modo sicuro" la forma tangibile delle scarpe. Si noti che i "diritti" sulle scarpe da ginnastica possono essere conservati in un portafoglio digitale insieme alla criptovaluta. Inoltre, con l'aiuto dei media digitali, Nike sarà in grado di controllare i volumi di vendita di CryptoKicks. L'azienda non ha ancora annunciato la data di lancio.

Supreme citata in giudizio per violazione di copyright.

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Pochi giorni fa ASAT Outdoors LLC, azienda di abbigliamento e moda con sede a Stevensville in Montana, ha citato in giudizio, difronte al tribunale federale di New York, la Supreme Chapter 4 Corp.  con l’accusa di aver violato il copyright della propria stampa mimetica. A tal riguardo, infatti, ASAT ha rimproverato Supreme di aver “riprodotto ed esposto al pubblico senza alcuna autorizzazione” il proprio disegno mimetico, protetto da copyright, utilizzandolo come stampa su una serie di giacche, maglioni, pantaloni cargo e cappellini messi in vendita su siti internet e presso negozi.

La società di abbigliamento con sede nel Montana, infatti, ha sostenuto di non aver mai concesso in licenza il disegno a Supreme né tantomeno di averle dato il permesso o consenso di usare o vendere il “camo” sui propri capi di abbigliamento, quali, ad esempio, giacche “da lavoro” da 218 dollari e pantaloni cargo da 145 dollari.

ASAT, inoltre, ha accusato Supreme di aver intenzionalmente e deliberatamente “violato il suo diritto esclusivo, come titolare del copyright, di riprodurre, copiare, mostrare e fare opere derivate - cioè, opere basate su o derivate da un'opera esistente protetta da copyright - della stampa mimetica protetta” in totale violazione delle leggi federali sul copyright.

A tal proposito, infatti, ASAT ha chiesto all’organo giudicante di condannare Supreme al risarcimento di tutti i danni, inclusi ma non limitati a qualsiasi profitto che Supreme stessa ha ottenuto dall'illecito uso della grafica camo o, in alternativa, a seconda di quale sia l’importo maggiore, “al risarcimento dei danni legali fino a $150.000 per ogni opera violata nel caso di violazione intenzionale del design”.

Dall’analisi del summenzionato caso, ciò che appare particolarmente interessante è che ASAT, nel tutelare il proprio diritto di proprietà intellettuale, abbia agito per rivendicare la propria titolarità sul design e non sul marchio.

Tale strategia appare curiosa in quanto la società del Montana avrebbe avuto tutti i poteri per dimostrare che i consumatori collegano la sua specifica stampa mimetica - una stampa che appare come se potesse essere in qualche modo distintiva rispetto ad altri tipi di mimetismo presenti sul mercato - con la ASAT Outdoors LLC.

Si aggiunga, inoltre, che quello tra ASAT e Supreme non è stato il primo caso che portato all’attenzione il settore delle stampe mimetiche.

Nel marzo 2018, infatti, la Jordan Outdoor Enterprises ("JOE") ha citato in giudizio difronte al tribunale federale della Georgia la Kanye West's Yeezy LLC con l’accusa di aver utilizzato, su una pluralità di capi ed accessori della Yeezy Season 5, alcune delle sue stampe mimetiche protette da copyright. Ad ogni modo, in questo caso la controversia è stata risolta nel settembre 2018 dopo che Yeezy e JOE sono giunti ad "un accordo separato per risolvere i reclami e le relative spese legali".

Come il turchese di Tiffany è diventato un marchio di colore.

Gianpaolo Todisco - Partner

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Nel corso degli anni, i tribunali di tutto il mondo hanno assistito a controversie aventi ad oggetto le più svariate rivendicazioni in materia di proprietà intellettuale. Tra le stesse rivestono e hanno rivestito particolare importanza quelle riguardanti le diverse tonalità di “colore”.

Diversi brand, come ad esempio T-Mobile (magenta) e UPS (marrone scuro), hanno registrato i propri colori a riprova della loro potenza nel fidelizzare i clienti e nel comunicare l'ethos di un'azienda.

Ad ogni modo, di tutte queste rivendicazioni cromaticamente orientate, è il gioielliere e rivenditore Tiffany & Co. che ha reso un'unica tonalità di blu sinonimo di lusso.

Nel 1837, Charles Lewis Tiffany e John B. Young aprirono il primo negozio Tiffany & Young a Lower Manhattan, proprio di fronte al City Hall Park.

Prima ancora che il marchio diventasse un importante fornitore di argento, il negozio si occupava della vendita di articoli di cancelleria ed altri prodotti di alta gamma e l'ormai iconico Blue Book, pubblicato per la prima volta nel 1845, presentava già una copertina blu che aveva una tonalità più verde rispetto a quella dell'uovo del pettirosso che oggi associamo al brand. Nel corso degli anni, fino a giungere al secolo successivo, il Blue Book variò di tonalità fino al 1966 circa, quando l'azienda adottò un colore vicino al Tiffany Blue.

E’ difficile individuare il momento esatto in cui il turchese sia iniziato ad essere associato all'azienda. Non si conosce nemmeno l’esatta ragione per cui i fondatori si siano accordati su quella particolare tonalità.

Tuttavia, si ha evidenza del fatto che già nel 1889, l'azienda avesse utilizzato il colore nell'Esposizione Universale di Parigi a dimostrazione del fatto che già a quell'epoca, anche in America, il turchese era una pietra preziosa.

Questa non è un’azione banale, anzi, la scatola blu "è molto probabilmente il contenitore di vendita al dettaglio più riconoscibile e più desiderato della storia". Charles Lewis, infatti, si è sempre rifiutato di vendere le scatole da sole sostenendo che quest’ultime fossero un vero e proprio simbolo - “non si può ricevere uno dei simboli più significativi dell'amore e dell'impegno senza la scatola di Tiffany”.

D’altronde, è con l’avvento del 1998 che Tiffany & Co. ha finalmente registrato il suo colore e il suo packaging e tre anni dopo, inoltre, il brand ha collaborato con Pantone per dare vita alla sua personale tonalità, la "1837 Blue", in memoria del suo anno di fondazione.

Uno dei punti forti di Tiffany è quello di non dover aggiornare le sue strategie di branding per mantenere il suo fascino. Come ha sottolineato Davey “Tiffany si trova in una posizione rara e invidiabile, in quanto i consumatori riconoscono il marchio semplicemente vedendo il colore, senza bisogno che vi sia un’altra brand identity”.

Nessun altro colore registrato è diventato così strettamente associato al suo marchio. Tiffany & Co. può dipingere qualsiasi cosa con il colore del suo marchio, dai sassi ai taxi alle vetrine, il suo significato risuonerà sempre!

Il Milan vince la sua partita contro il Gruppo Marriott Hotels

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Nel 2013 l’AC Milan ha depositato nell'Unione Europea per diversi prodotti e servizi, tra cui la classe 43. Tuttavia, l'applicazione in classe 43 è stata opposta da parte di AC Hotels, un avversario anomalo per il Milan.

L'elemento AC è l'elemento più dominante di AC Hotels e frequentemente il gruppo si oppone a depositi di marchi confondibili con il segno “AC Hotels”.

Tuttavia l'opposizione del gruppo alberghiero è stata respinta in quanto i marchi sono stati ritenuti sufficientemente diversi. L'unico elemento corrispondente è AC. Secondo l'EUIPO, "le lettere AC sono elementi trascurabili a causa della loro dimensione minuscolare e della loro posizione al centro delle altre lettere del segno contestato, e non sono visibili a prima vista, considerando anche che questo segno complesso ha altri elementi visivamente eccezionali e, pertanto, è molto probabile che le lettere AC vengano ignorate dal pubblico di riferimento".

Il 19 giugno 2019 il Tribunale dell'Unione Europea ha stabilito che l'EUIPO ha correttamente concesso la registrazione del segno figurativo richiesto dall'Associazione Calcio Milan SpA (AC Milan). (Causa T-28/18).

Le sorti del marchio RF di Roger Federer

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Nel luglio 2018, Federer ha sorpreso molti suoi fans passando da Nike a Uniqlo in un affare del valore di quasi 300 milioni di dollari in 10 anni.

Molti si sono interrogati sulla sorte del marchio di Federer "RF" logo "RF" che per anni è apparso sull’abbigliamento prodotto da Nike. L'atleta 37enne ha più volte affermato che il logo era suo, e ci si aspettava che Uniqlo avrebbe adottato il marchio "RF" sui propri prodotti.

In realtà il titolare del marchio è la Nike che ha registrato il logo "RF" come marchio d’impresa e non appena l’accordo con Federer era scaduto, aveva immediatamente smesso di vendere l'abbigliamento a nome di Federer nei negozi in tutto il mondo.

In questi giorni il portavoce Uniqlo ha rivelato che l'azienda di abbigliamento non ha "nessun piano" per acquisire il logo RF da Nike di fatto rinunciando al marchio logo "RF" da parte dell'otto volte campione di Wimbledon.

Cosa avrebbe potuto fare Federer per evitare il problema e quale lezione ne possono trarre gli atleti?

  1. Registrare il marchio a proprio nome - La soluzione più ovvia sarebbe stata quella di garantire che il marchio fosse registrato a suo nome (o a nome della società che gestisce i suoi diritti d’immagine). Federer avrebbe quindi potuto, come parte del suo accordo di sponsorizzazione con Nike, concedere a Nike una licenza d'uso del logo RF per la durata del contratto di sponsorizzazione. In effetti, sorprende un po' che Federer non abbia registrato il logo RF a proprio nome, dato che è il titolare registrato di diversi marchi, tra cui il marchio comunitario "Roger Federer".

  2. Utilizzare una clausola di cessione - In alternativa, se la Nike avesse insistito per il possesso del marchio RF Logo, il contratto di sponsorizzazione avrebbe potuto includere una clausola di cessione automatica in modo che, una volta risolto l'accordo di sponsorizzazione i diritti sul marchio fossero immediatamente trasferiti a Federer in quanto titolare del patronimico coincidente con le iniziali RF.

 

La Ferrari GTO è un'opera tutelata dal diritto d'autore.

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Il Tribunale di Bologna, Sezione specializzata in materia di impresa ha recentemente accodato la tutela del diritto d’autore al modello di Ferrari forse più conosciuto ed apprezzato di sempre: la 250 GTO.

Il numero, 250, sta per la cilindrata di ciascun cilindro in centimetri cubi del motore V12 3000 cc di cilindrata. GTO sta per "Gran Turismo Omologata". Tale sigla non verrà poi utilizzata per parecchi anni fino alla presentazione nel 1984 della Ferrari 288 GTO.

Per il Collegio, interpellato dalla Ferrari per difendere il modello da un tentativo di riproduzione da parte di una società di Modena, «la personalizzazione delle linee e degli elementi estetici, hanno fatto della Ferrari 250GTO un unicum nel suo genere, una vera e propria icona automobilistica». «Il suo valore artistico – prosegue l’ordinanza - ha trovato oggettivo e generalizzato riconoscimento in numerosi premi e attestazioni ufficiali», in «copiose pubblicazioni» e nella riproduzione «artistica» su monete e sotto forma di «sculture», periodicamente esposte nei musei.

Il Tribunale ha così emesso un’ordinanza che inibisce alla società specializzata in tuning di riprodurre la forma della 250GTO in rendering e in modelli di autovetture.

L’azienda resistente era infatti pronta a lanciare sul mercato una decina di repliche della 250 GTO, al prezzo circa di 1 milione di euro l’una, che riproducevano (aggiornandolo) il leggendario modello anni ’60.

Apple e Pear non sono due marchi confondibili.

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Il Tribunale UE si è recentemente pronunciato in tema di somiglianza visiva e concettuale tra marchi e, ribaltando la decisione dell’EUIPO sul punto, ha accertato che il noto marchio Apple ed il marchio Pear (raffigurati di seguito) non sono confondibili tra loro.

La vicenda prende spunto dall’opposizione presentata dalla Apple alla domanda di registrazione del marchio figurativo europeo ‘Pear’, depositata dalla Pear Technologies Ltd. In seguito all’accoglimento dell’opposizione, quest’ultima proponeva ricorso di fronte all’EUIPO, che confermava però la prima decisione. Di conseguenza, la Pear Technologies impugnava il provvedimento di fronte al Tribunale UE il quale ha negato l’esistenza di una somiglianza tra i due segni, confrontandoli sia dal punto di vista visivo che dal punto di vista concettuale.

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La commissione di ricorso EUIPO aveva ravvisato in un  primo  momento ravvisato un remoto grado di somiglianza tra i due segni, in quanto entrambi rappresentavano sagome arrotondate di un frutto con i relativi gambo/foglia in identica posizione ma il Tribunale è poi giunto ad una diversa conclusione.

Il giudice ha infatti osservato che i due segni sono visivamente molto diversi tra loro: rappresentano, infatti, due frutti distinti e l’uno (il marchio Apple) costituisce una forma solida, mentre l’altro (Pear) è un insieme di oggetti separati tra loro; inoltre, l’elemento in alto a destra rappresenta in un caso una foglia (Apple) e nell’altro un gambo (Pear); infine, non può essere sottovalutato l’elemento denominativo del marchio Pear, che ha dimensioni rilevanti rispetto alla sagoma, un colore diverso, un font particolare ed è a lettere maiuscole. In conclusione il Giudice ha stabilito che la notorietà del segno anteriore non rileva in un giudizio di somiglianza, e che i marchi in questione sono visivamente diversi.

Dal punto di vista concettuale il Tribunale ha ribaltato le conclusioni della commissione di ricorso EUIPO, sottolineando che sussiste somiglianza concettuale solo quando due segni evocano immagini aventi un contenuto semantico simile o identico.

Nel caso di specie, l’EUIPO aveva in un primo momento ritenuto che i due marchi raffigurassero due frutti distinti ma che però gli stessi erano affini per caratteristiche biologiche ma il tribunale ha ritenuto che i segni in questione evocano l’idea di un frutto determinato, mentre richiamano il concetto generale di “frutto” solo in modo indiretto.

In secondo luogo, ha ribadito che, in numerosi Stati, membri mele e pere sono utilizzate nei proverbi come esempi di cose diverse e non paragonabili, e l’eventuale somiglianza nelle dimensioni, colori o consistenza (caratteristiche che, peraltro, condividono con molti altri frutti) è comunque un elemento che può essere percepito dal pubblico solo nell’ambito di un’analisi molto dettagliata, senza considerare che non è verosimile presumere che il consumatore sia a conoscenza della loro provenienza dalla medesima famiglia di piante.

In base a queste considerazioni, dunque, il Tribunale UE ha annullato la decisione della commissione di ricorso EUIPO, riconoscendo la possibile influenza esercitata dalla notorietà del marchio anteriore.

GLI ACQUISTI SU EBAY E LA TUTELA DEI CONSUMATORI

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Per la prima volta, una sentenza del giudice di Pace di Milano stabilisce che eBay deve rimborsare gli utenti per le truffe subite quando utilizzano i servizi del negozio di e-commerce.

Circa 150 persone avevano comprato a prezzi stracciati, da un utente su eBay, cellulari che non sono mai stati consegnati.

Alcuni di loro avevano sottoscritto l’acquisto dopo che – a loro insaputa – il venditore era già stato segnalato a eBay da altri utenti.

Il giudice è stato il primo ad applicare correttamente la legge 70 del 2003, secondo cui il provider assume la responsabilità civile del danno se non interviene subito dopo esserne stato messo al corrente. eBay, in questo caso, ci ha messo tre mesi per chiudere l’account del truffatore.

In decine di casi precedenti, l’azienda è sempre stata considerata non responsabile perché si stabiliva che gli utenti avrebbero dovuto provvedere con una segnalazione formale, con raccomandata. Ma il giudice di Milano ha valutato che è sufficiente il normale strumento di segnalazione fornito sul web dalla stessa eBay.

Da parte sua, eBay ha fatto sapere che farà ricorso e sottolinea come il giudice si sia limitato a riconoscere il rimborso ma non i danni richiesti e come abbia chiarito che eBay non possa essere considerata responsabile per le attività degli utenti.

IL CASO DELLA BIRRA BREXIT

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Lo scorso 30 gennaio 2019, l’EUIPO si è recentemente confrontato con il caso della domanda del marchio "Brexit". Il caso riguarda l'ammissibilità per la registrazione del segno figurativo "BREXIT" per "bevande energetiche contenenti caffeina; birra” nella classe 32.

La domanda è stata rifiutata ufficio per mancanza di carattere distintivo e contrarietà all'ordine pubblico, in quanto è stato rilevato che il pubblico pertinente include tutti i consumatori nell'UE in quanto spesso incontrano il termine attraverso i mass media e Internet.

Riguardo alla violazione dell’ordine pubblico o al buon costume, il Grand Board ha trovato che la parola "Brexit" denota una decisione politica sovrana, che è stata presa legalmente e non ha alcuna connotazione morale negativa; non è né un incitamento al crimine, né un emblema per il terrorismo o un sinonimo di sessismo o razzismo. La sola parola non esprime un'opinione. Il fatto che parte del pubblico del Regno Unito possa essere stato turbato da una controversa decisione presa democraticamente non costituisce un reato. Il GB ha quindi concluso che il segno non può essere considerato contrario ai principi di moralità accettati, in sé e per sé, né se utilizzato come marchio per i prodotti richiesti.

 Tuttavia, il termine era, già alla sua data di deposito, così ben noto ai consumatori come il nome di un evento di natura storica e politica che non sarebbe associato, prima facie, a prodotti specifici provenienti da un commercianti specifici. Può acquisire un carattere distintivo solo se i consumatori ne sono sufficientemente esposti in un contesto commerciale. Inoltre, i colori e il carattere non sono in grado di distogliere l'attenzione del pubblico dal messaggio non distintivo trasmesso dalla parola. Lo sfondo che evoca il jack Union accentua questo messaggio. Per i motivi sopra esposti, il Grand Board ha respinto la domanda e l'appello.