Marchi

Ambush marketing e tutela degli investimenti promozionali tra passato e futuro

In vista delle prossime olimpiadi invernali, che vedranno i territori montani di Lombardia e Veneto protagonisti della scena sportiva mondiale, un importante strumento normativo tutelerà i marchi d’impresa registrati, anche dalla pubblicità parassitaria e ingannevole, realizzata nell’ambito non solo delle olimpiadi, ma di tutti gli eventi sportivi o fieristici di rilevanza nazionale o internazionale che si svolgeranno sul territorio italiano.

La nuova disciplina che contrasta la pubblicizzazione non autorizzata, è contenuta nel decreto-legge sulle 'Disposizioni urgenti per l'organizzazione e lo svolgimento dei Giochi olimpici e paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e delle finali ATP Torino 2021 - 2025, nonché in materia di divieto di pubblicizzazione parassitaria', pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.66 del 13 marzo 2020, convertito in legge 8 maggio 2020, n.31 e pubblicato nella G.U. n.121 del 12 maggio 2020 e rappresenta il primo intervento organico del legislatore italiano in questa materia, essendo stato preceduto unicamente da provvedimenti contingenti a singoli eventi sportivi.

La pubblicità non autorizzata, associata ad eventi di risonanza nazionale o internazionale “è definita nella prassi definita come “ambush marketing” e individua la condotta non autorizzata di chi associ il proprio marchio ad un evento internazionale, al solo fine sfruttarne la risonanza mediatica e senza sopportare i costi di sponsorizzazione.

L’ambush marketing da luogo non solo ad un inganno per il pubblico - che assocerà il marchio illecitamente connesso all’evento all’evento stesso - ma anche ad un agganciamento parassitario con gli effettivi sponsor della manifestazione e può costituire una violazione delle norme poste a presidio della concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) e della leale comunicazione pubblicitaria (decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 e Codice dell’Autodisciplian Pubblicitaria).

Nello specifico, la norma vieta le seguenti attività:

  1. la creazione di un collegamento indiretto tra un marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi, idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali;
  2. la falsa dichiarazione nella propria pubblicità di essere sponsor ufficiale di uno degli eventi;
  3. la promozione del proprio marchio o altro segno distintivo, tramite qualunque azione, non autorizzata dall'organizzatore, che sia idonea ad attirare l'attenzione del pubblico, posta in essere in occasione di uno degli eventi, e idonea a generare nel pubblico l'erronea impressione che l'autore della condotta sia sponsor dell'evento sportivo o fieristico medesimo;
  4. la vendita e la pubblicizzazione di prodotti o di servizi abusivamente contraddistinti, anche soltanto in parte, con il logo di un evento sportivo o fieristico, ovvero con altri segni distintivi idonei a indurre in errore circa il logo medesimo e a ingenerare l'erronea percezione di un qualsivoglia collegamento con l'evento ovvero con il suo organizzatore.

A seconda delle modalità con cui viene posto in essere, l’ambush marketing viene solitamente classificato in:  “insurgent ambush”, ovvero l’organizzazione di iniziative a sorpresa a ridosso dell’evento;  “predatory ambush”, che utilizza segni distintivi in connessione con o che richiamano anche indirettamente l’evento  “saturation ambush”, che occupa tutti gli spazi pubblicati rimasti rispetto a quelli utilizzati dagli sponsor ufficiali.

Sotto un profilo temporale, i divieti operano dal novantesimo giorno antecedente alla data ufficiale di inizio dell’evento sportivo o fieristico, fino al novantesimo giorno successivo alla sua conclusione, mentre, da un punto di vista dell’operatività, sono esclusi dalla norma i contratti di sponsorizzazione degli atleti, delle squadre e dei partecipanti agli eventi.

L’autorità preposta all’accertamento e alla repressione delle condotte di ambush marketing è l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che può applicare sanzioni pecuniarie amministrative, che variano a seconda dei casi da 100 mila euro a 2,5 milioni di euro.

Recentemente, proprio l’AGCM si è occupata di una caso di ambush marketing relativo alla coppa UEFA 2020 , arrivando a multare l’e-commerce Zalando com 100.000 euro di multa nei confronti di Zalando SE ("Zalando"), per violazione dell'articolo 10, comma 1 e 2, lettera a), del decreto legge n. 16 dell'11 marzo 2020.

La concotta censurata consisteva nell’esposizione, nella stessa piazza di Roma dove era allestita l'area ufficiale di Euro 2020, di un manifesto che domandava "Chi sarà il vincitore?" accompagnato dai segni distintivi di Zalando apposti su di una maglia da calcio affinacato dalle bandiere delle nazionali di Euro 2020.

Questa pubblicità è stata ritenuta illecita dall’AGCM in quanto il manifesto di Zalando era idoneo a far credere ai consumatori che Zalando fosse un partner accreditato dell’evento in quanto creava un’indebita connessione tra Zalando stessa e l’evento del quale non era sponsor ufficiale.

La decisione dell’Agcm è risultata attenta a valorizzare tutte le circostanze del caso e, pertanto, in vista dei prossimi giochi invernali, è di primaria importanza che le imprese valutino attentamente le proprie campagne di marketing prima di incorrere accidentalmente in profili di violazione delle norme pubblicitarie.

Marchi vinicoli tra convalidazione e tolleranza dell’uso

Con una recente ordinanza (09.02.2022) il Tribunale di Torino si è espresso in merito alla contraffazione di alcuni marchi registrati da una cantina vinicola, principalmente per prodotti vinicoli in classe 33. Nella succitata ordinanza il Tribunale torinese ha inoltre colto l’occasione per precisare la differenza tra l’istituto giuridico della convalidazione, previsto dall’art. 28 del Codice di proprietà industriale, ed il diverso, seppur rilevante, fenomeno della tolleranza rispetto all’uso di un marchio di fatto successivo da parte del titolare del marchio registrato anteriore.

I marchi oggetto di causa, riportati sulle etichette delle bottiglie, erano costituiti in particolare dalla parola “SOLO” accompagnata dal tipo di vino (pinot, prosecco, shiraz, etc…) o di bevanda alcolica (grappa). Si trattava di marchi regolarmente registrati dalla titolare a livello nazionale.

In particolare il marchio invocato nel procedimento cautelare era il seguente:

La ricorrente, una cantina vinicola di Frascati, ha contestato quindi ad una concorrente presente nel territorio piemontese, l’utilizzo del marchio di fatto “SOLO PINOT NERO” per prodotti vinicoli, invocando la contraffazione del suo marchio anteriore registrato in forza dell’art. 20 C.p.i. (usando la resistente un marchio identico o molto simile a quello della ricorrente per prodotti identici).

La difesa della resistente si fondava in primo luogo sull’eccezione, rigettata dal giudice, dell’intervenuta convalidazione ai sensi dell’art. 28 C.p.i.. Tale norma prevede che il titolare di un marchio registrato che per 5 anni consecutivi, tolleri, essendone a conoscenza, l'uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possa quindi domandarne la nullità né opporsi all'uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio è stato usato.

La ratio di tale istituto è da rinvenirsi nel contemperamento di due diversi interessi da un lato, quello del titolare del marchio posteriore a non veder vanificati gli investimenti sostenuti nel corso degli anni per l'accreditamento del proprio segno e dall'altro lato, quello del consumatore a non vedersi mutata repentinamente una situazione di fatto ormai consolidata.

La norma è chiara nel riservare quindi il beneficio della convalidazione ai soli marchi posteriori registrati e la giurisprudenza prevalente è allineata sull’interpretazione letterale della norma. Tuttavia negli anni, anche sulla scorta di alcuni spunti dottrinali, tale interpretazione letterale è parsa venire meno. Proprio nel settore vinicolo e proprio il Tribunale di Torino nel 2016 infatti aveva chiaramente lasciato intravedere la possibilità di un’interpretazione (estensione) analogica della norma sulla convalida anche ai marchi di fatto.

Con la sentenza n° 2256/16 del 22.4.16 il Tribunale di Torino infatti aveva chiaramente argomentato circa l’opportunità che il beneficio della convalida fosse esteso ai marchi di fatto: secondo il Tribunale, poiché il marchio di fatto trova tutela nelle norme sulla concorrenza sleale, norme che recepiscono “principi di tutela della ricchezza prodotta dagli investimenti e di avversione verso le iniziative parassitarie”, si deve addivenire “se non ad una applicazione analogica dell’istituto della convalidazione ai marchi non registrati – quantomeno” a negare tutela ad un marchio “rispetto a segni uguali o simili utilizzati per lungo tempo nella consapevolezza e senza l’opposizione del titolare del marchio”.

Ebbene con l’ordinanza del febbraio 2022 lo stesso tribunale di Torino sembra invece tornare sui propri passi: secondo il Tribunale “Premesso che non potrebbe comunque parlarsi di convalidazione del marchio, ex art. 28 CPI, perché tale effetto è prescritto solo con riferimento ai marchi registrati, la tolleranza dell’uso del marchio di fatto altrui, da parte del titolare del marchio registrato anteriore, potrebbe dimostrare l’assenza di un astratto pericolo di confusione circa la diversa provenienza imprenditoriale e comportare un limite alla tutelabilità del marchio anteriore”.

Pur negando quindi estensioni analogiche della norma sulla convalidazione ai marchi non registrati, il Tribunale mette in risalto la rilevanza, ai fini dell’esclusione del rischio di confusione e quindi della contraffazione, di comportamenti di tolleranza rispetto ai marchi di fatto posteriori da parte di titolari di marchi registrati anteriori. Tuttavia anche nel caso della tolleranza, il Tribunale ricorda i limiti dell’operatività della stessa: “la fattispecie della “tolleranza” non è ravvisabile laddove non sia provata una conoscenza effettiva, da parte del titolare del marchio anteriore, del successivo utilizzo, per un certo tempo, del marchio di fatto altrui”.

“Ai fini del riconoscimento di questa ”tolleranza” non è sufficiente una presunta inattività del titolare del marchio anteriore rispetto all’utilizzo del marchio posteriore, ma è necessario che il titolare del marchio registrato anteriore abbia posto in essere, pur conoscendo tale utilizzo, dei comportamenti che possano considerarsi di tolleranza di tale uso (Trib. Venezia Sez. PI, 20/10/2006).”

L’onere della prova di questa tolleranza incombe sul titolare del marchio posteriore. Il titolare del marchio posteriore deve provare, non soltanto che il titolare del marchio anteriore era a conoscenza del deposito del marchio posteriore, in modo concreto e non su base presuntiva, ma anche che il titolare del marchio anteriore si è dimostrato tollerante a tale uso per un certo periodo. E’ necessaria, dunque, la prova (o il relativo fumus) dell’effettiva conoscenza dell’utilizzo del marchio posteriore, perché in assenza di una effettiva conoscenza dell'uso dell'altrui marchio, non si può neppure parlare di tolleranza (Trib. Torino 15/1/2010).

Marchio Patronimico - La Cassazione stabilisce i criteri di liceità dell’uso

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Con la sentenza del 6 giugno scorso, la Cassazione ha posto fine alla controversia approdata in tribunale nel 2011 e relativa all’utilizzo del segno distintivo “Salini”, che ha visto opposti due rami della famiglia Salini, entrambi attivi nel settore delle costruzioni, i quali per due generazioni avevano condiviso la medesima storia imprenditoriale.

La questione posta all’attenzione della Suprema Corte riguardava la legittimità dell’uso del patronimico comune nella medesima attività economica (la realizzazione di opere edili), all’indomani della fondazione da parte di uno dei due cugini di una propria impresa autonoma di costruzioni, la Salini Locatelli S.p.A., in concorrenza diretta della Salini Costruzioni S.p.A., sino ad allora la società di famiglia.

Con il proprio ricorso per cassazione, parte ricorrente sosteneva la tesi secondo la quale la norma che disciplina le limitazioni dell’uso del marchio (art. 21 cod. prop. ind.) - che non consente al titolare della privativa di vietare ai terzi l’uso del proprio nome e indirizzo nella loro attività economica – dovesse trovare applicazione anche per tutti i segni distintivi, ovvero per tutti quegli elementi che identificano una certa attività di impresa presso il pubblico, denominazione sociale compresa.

La Cassazione, con la sentenza in commento ha stabilito che se è lecito in linea di principio inserire nella denominazione sociale successiva il patronimico del fondatore, occorre in ogni caso verificare in concreto che l’adozione del patronimico nella denominazione sociale successiva non sia idonea a generare confusione.

Con riferimento poi alle società di capitali, per le quali non trova applicazione l’obbligo previsto per la ditta e per le società di persone di indicare nella ragione sociale il cognome o la sigla dell’imprenditore (art. 2563 c.c.), la Cassazione ha posto in luce che occorre adottare un maggior rigore nel giudizio circa la conformità dell’uso del patronimico ai principi della correttezza professionale, tenendo conto tanto della confondibilità tra i due segni adottati, quanto del pericolo di associazione tra gli stessi, giudizio che non può prescindere da un riscontro in concreto del rapporto concorrenziale tra le due imprese in questione.

Nel caso di specie, le due società condividevano il medesimo “cuore” individualizzante, costituito dal segno “Salini” ed entrambe erano attive nello stesso settore delle costruzioni; in questo contesto, l’inserimento dell’elemento “Locatelli” non era sufficiente a mettere al riparo la società fondata successivamente da un pericolo di confusione o di associazione con la società preesistente.

Facendo riferimento alla propria consolidata giurisprudenza sul punto (Cass. civ., sent. 14 agosto 2019, n. 21403), la Suprema Corte ha ribadito che, nel conflitto tra due società utilizzatrici dello stesso segno identificativo, deve prevalere quella che per prima risulti iscritta nel registro delle imprese con quel segno e

ha respinto il ricorso della Salini Locatelli S.p.A., confermando la sussistenza di un concreto rischio di confusione e di associazione tra le due imprese concorrenti.

I giudici di legittimità hanno dato rilievo alla valenza pro-concorrenziale delle norme che limitano il diritto esclusivo sui segni distintivi (marchio e denominazione sociale, rispettivamente) - e potenzialmente perpetuo – nei confronti degli usi del proprio nome e cognome nell’attività imprenditoriale, ribadendo che il diritto di vietare ai terzi l’utilizzo di un segno simile o confondibile subisce una forte limitazione nel caso in cui il terzo utilizzi nella propria attività economica un segno simile o confondibile il quale, però, sia costituito dal proprio nome e cognome.

Tuttavia, la giurisprudenza è chiara nel ribadire che questa limitazione non deve tradursi in un indebito approfittamento della notorietà dell’altrui segno distintivo: sono infatti consentiti solo quegli usi del segno altrui che siano conformi ai principi della correttezza professionale. Il richiamo all’uso conforme a questi principi, significa che, se taluno usi il segno distintivo altrui - anche se facente parte del proprio nome e cognome - in modo da valorizzare indebitamente il proprio prodotto ed in modo che, configuri un’appropriazione dei pregi altrui, tale uso dovrà considerarsi illecito in quanto non conforme alla correttezza professionale.

Il nome anagrafico del concorrente potrà quindi lecitamente figurare sui prodotti ed essere impiegato nei segni distintivi dell’imprenditore, ma a condizione di escludere agganciamenti parassitari: l’uso del patronimico che riproduce un segno distintivo anteriore è consentito soltanto ai fini di individuazione dell’imprenditore e quindi in funzione descrittiva e non dintiva. Tale uso descrittivo deve, invece, escludersi qualora sussista un rischio di confusione sul mercato, in ragione della funzione concretamente svolta dal nome nell’attività commerciale svolta, onde evitare che il pubblico sia indotto in errore sull’identificazione del produttore e della provenienza dei prodotti.

Cassazione civile, sez. I, sentenza del 6 luglio 2020, n. 13921



La Corte di Cassazione riconosce il Burberry Check come marchio che gode di rinomanza.

Laura Bussoli - Senior Counsel

Con la recente sentenza n. 576/2020, la Cassazione Penale ha accolto le ragioni della casa di moda inglese Burberry nella causa per contraffazione del suo – ormai possiamo dirlo – “celebre” marchio a motivo ornamentale:

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Nella decisione impugnata i giudici della Corte di Appello di Roma avevano seguito un “bizzarro” iter argomentativo al fine di escludere il ricorrere del reato di contraffazione del sopra riportato marchio: ed infatti, se da un lato il giudice dell’appello aveva stabilito – diversamente dal giudice di prime cure – che non fosse necessaria al fine della violazione delle norme penali in materia di contraffazione, che le parole Burberry ed il relativo marchio denominativo si trovassero apposte sul motivo scozzese, d’altra parte aveva negato il ricorrere del reato di contraffazione in virtù dell’inidoneità del marchio figurativo sopra riportato a creare un collegamento univoco con la casa di moda inglese.

Con quest’ultima sentenza, la Corte di Cassazione ha, da un lato, confermato la decisione della Corte d'Appello di Roma nella parte della sentenza che esclude la necessità del ricorrere delle parole “Burberry” sul tessuto a fini contraffattivi, ritenendo che "la contraffazione del marchio si verifica anche nei casi di riproduzione parziale del marchio in cui è probabile che crei confusione con il marchio registrato anteriore".

La Corte ha tuttavia poi osservato, al fine di ribaltare la decisione di appello, che ciò è particolarmente vero nei casi in cui il marchio anteriore è un marchio che gode di rinomanza – ossia quando è "conosciuto da una larga parte del pubblico e può essere immediatamente riconosciuto come relativo ai prodotti e servizi per i quali il marchio è utilizzato".

Non paiono residuare quindi dubbi in merito al riconoscimento della notorietà del marchio a motivo ornamentale di Burberry e alla sua capacità distintiva e di origine rispetto prodotti sui quali è apposto.

Nonostante il caso si riferisca quindi ad una fattispecie penale (reato di contraffazione previsto dall’art. 473 c.p.) che tutela la fede pubblica e non attiene al effettiva confusione del pubblico, questa decisione rappresenta un importante precedente per Burberry, in quanto riconosce apertamente il carattere noto del marchio allargandone così peraltro la sfera di tutela.

Può un’opera anonima essere tutelata come marchio d’impresa?

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Secondo una recente decisione dell’EUIPO (Ufficio per la proprietà intellettuale dell’Unione Europea, 14 settembre 2020) sembrerebbe di no: a dimostrarlo è l’accoglimento da parte dell’Ufficio della richiesta di cancellazione presentata dalla società Full Colour Black Limited contro il marchio “Flower thrower” depositato nel 2014 dalla Pest Control Office Limited, società di diritto inglese sorta fra l’altro con il preciso intento di tutelare le opere dell’artista anonimo Banksi.

Il tutto ha origine quando, nel 2014, la Pest Control Office Limited decide di registrare come marchio figurativo la celebre opera “Il lanciatore di fiori” (“Flower thrower”).

La registrazione per il marchio in questione è stata richiesta per una vastissima serie di prodotti tra cui pitture, vernici, lacche; dischi, nastri; cartoleria; fotografie; manifesti; libri; pennelli; borse, valigette, portafogli, portachiavi, prodotti tessili, abbigliamento e altri ancora.

In conformità con la sua linea di azione, Banksi ha registrato l’opera presso l’EUIPO restando nell’anonimato e servendosi pertanto della società che ne cura i diritti, la Pest Control Office Limited.

Nel 2018, tuttavia la società inglese Full Colour Black Limited attiva nel settore della produzione di cartoline e altri articoli affini, propone avanti all’EUIPO una azione di nullità del citato marchio, affermando in particolare che lo stesso sarebbe stato depositato dall’artista, per mezzo della sua società, in malafede, al solo fine di poterne limitare l’utilizzo da parte di soggetti terzi e senza per contro un reale intento di usare quel marchio sui prodotti e servizi rivendicati

Con la decisione del 14 settembre 2020, l’EUIPO ha pienamente accolto tale domanda dichiarando nullo pertanto il marchio del celebre artista.

L’EUIPO secondo un iter argomentativo lineare ha solamente negato che tale immagine, quella del “Lanciatore di Fiori” che rappresenta l’opera di Banksy, possa validamente, nel caso di specie, costituire un marchio di impresa e ciò in quanto manca all’origine il fine commerciale che deve caratterizzare il marchio, la cui finalità primaria è quella di indicatore d’origine e capacità distintiva sul mercato.

In assenza di tali finalità, pertanto, deve ritenersi nulla la domanda di marchio per mala fede, il che secondo quanto stabilito dal Regolamento comunitario sui marchi di impresa, giustifica la cancellazione dal registro dei marchi depositati in tale forma.

Attenzione: ciò non significa affatto che con tale decisione vengano meno i diritti d’autore sull’opera (per quanto possa essere bizzarro parlare di diritto d’autore rispetto ad un’opera il cui autore è anonimo per sua scelta.

Marchio e diritto d’autore restano, come anche precisato dall’EUIPO in alcuni passaggi della Decisione, quanto meno in linea di principio, diritti di proprietà industriale / intellettuale distinti ed eventualmente cumulabili rispetto un determinato oggetto.





La tutela del marchio debole tra USA e Italia: i casi Booking.com e “Divani&Divani”.

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Alla fine di giugno la Suprema Corte degli Stati Uniti si è pronunciata sul caso “Booking.com” emettendo una sentenza destinata ad avere ripercussioni sulla registrazione di marchi relativi a termini generici negli Stati Uniti.

La Corte ha riconosciuto al marchio “Booking.com” - di proprietà della società Booking Holdings Inc - la possibilità di essere registrato come marchio a livello federale, nonostante la genericità del termine “booking”.

In passato, il Patent and Trademark Office non aveva concesso la registrazione del marchio Booking.com ritenendo che il marchio fosse “generico”, nonostante una qualifica specifica potesse essere dedotta dalla presenza del “.com”.

Il 30 giugno 2020 la Corte ha invece ribaltato la decisione dell’Ufficio e ha sottolineato l’importanza della percezione che i consumatori hanno del marchio e che Booking.com non è percepito dai consumatori come marchio generico.

Secondo quanto disposto dalla legge degli USA una società non può rivendicare la proprietà del nome di un’intera categoria merceologica poiché ciò costituirebbe un atto di concorrenza sleale nei confronti dei competitors e perché mancherebbe la fondamentale caratteristica della capacità distintiva.

Nel caso di Booking i giudici della Suprema Corte hanno però ravvisato la mancanza di confusione da parte dei consumatori, che nel riferirsi a Booking.com non si riferiscono ad un generico aggregatore di strutture alberghiere bensì ad uno specifico provider che identificano tramite il marchio Booking.com e che garantisce un certo livello di qualità e affidabilità.

Questa sentenza segna l’inizio di un nuovo orientamento giurisprudenziale negli USA e una vittoria per tutte le aziende che hanno investito nell’awareness di marchi deboli che utilizzano termini generici.

Per meglio comprendere la portata del dispositivo e il requisito della capacità distintiva è bene fare riferimento a due categorie di marchio che sono state elaborate in giurisprudenza: quelle marchio debole e il marchio forte.

I marchi deboli sono quelli che risultano concettualmente legati al prodotto in quanto la parola che identifica il marchio corrisponde al termine generico del prodotto o si sostanzia nelle parole generalmente utilizzate per riferirsi al prodotto in questione.

Il marchio forte, invece, non è concettualmente vincolato al prodotto e non è ad esso immediatamente riconducibile.

Il grado di tutela riconosciuto al marchio forte o al marchio debole cambia nei diversi ordinamenti ma in ogni caso al marchio debole viene garantito un livello di tutela inferiore rispetto al marchio forte.

Nel 2015 anche la Corte di Cassazione italiana si era pronunciata sulla capacità distintiva del marchio debole registrato “Divani&Divani” di proprietà della Natuzzi Spa ed era arrivata a ribaltare il precedente dispositivo emesso dalla Corte di Appello.

La Corte d’Appello nel suo giudizio non aveva considerato che, seppure il marchio “Divani&Divani” fosse un marchio debole, questo - con il passare degli anni e a seguito del suo uso commerciale – avesse acquisito una forte capacità distintiva e l’uso di un marchio omonimo da parte di una società concorrente e operante nella stessa area merceologica avrebbe inevitabilmente generato confusione tra i consumatori.

La Corte di Cassazione rilevava invece che, nonostante ”Divani&Divani” fosse un marchio che utilizza parole generiche e di uso comune, prive del carattere dell’originalità abbia acquisito un “secondary meaning” (v. Cass. n. 4294/1974, n. 2884/1985, n. 18920/2004, n. 10071/2008) e sia dotato del carattere distintivo necessario affinchè possa essere riconosciuto dai consumatori.

Queste due sentenze dimostrano come un marchio inizialmente debole e privo del carattere distintivo possa convertirsi in marchio forte a seguito sul suo intenso uso commerciale e di campagne pubblicitarie che ne fanno crescere l’awareness nel pubblico di riferimento e lo rendono distintivo e portatore di un secondary meaning.

Dior deposita la domanda di registrazione della borsa Saddle quale marchio tridimensionale.

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A 20 anni dal lancio di un modello oramai divenuto iconico, Dior ha deposiato all’Us Patent and Trademark Office domanda per la registrazione della famosa borsa ‘Saddle’ quale marchio tridimensionale.

La Saddle bag è stata riproposta a partire dalla collezione A/I 2018-19 con l’aggiunta di nuovi dettagli, stampe e materiali all’accessorio che riprende il profilo di una sella.

Si ricorda che il marchio tridimensionale è un segno costituito dalla forma tridimensionale di un prodotto o del suo aspetto ed è disciplinato da una specifica regolamentazione, sia a livello europeo che italiano, che prevede l’esclusione della registrabilità per i segni che:

a)            sono costituiti dalla forma, o altra caratteristica, imposta dalla natura stessa del prodotto;

b)           dalla forma, o altra caratteristica, del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico;

c)            dalla forma, o altra caratteristica, che dà un valore sostanziale al prodotto.

Quanto alla prima limitazione, la ratio di tale norma è quella di voler impedire che un diritto rinnovabile, potenzialmente illimitato nel tempo, come quello del marchio, possa finire con il monopolizzare delle forme che derivano dalla forma naturale del prodotto, o che in ogni caso siano prive di capacità distintiva in quanto coincidenti con una forma standard nell’opinione dei consumatori.

In riferimento al divieto di registrare una forma funzionale, la ratio della norma è quella di tutelare il mercato evitando che un soggetto possa divenire titolare di una privativa perpetua su delle soluzioni tecniche o delle caratteristiche funzionali di un prodotto le quali, al contrario, possono essere tutelate tramite dei brevetti per invenzioni.

Infine, per quanto attiene al divieto di registrare una forma sostanziale, la norma è volta ad impedire la registrazione di una forma che, da sola, sia in grado di determinare la scelta dei consumatori. Tale caratteristica, infatti, rientra nella tutela dei brevetti per modelli privativa che, contrariamente al marchio, è temporalmente limitata.

Sul punto la giurisprudenza ha statuito che il marchio tridimensionale possa essere registrato qualora le forme per le quali si richiede la tutela abbiano una valenza funzionale, o estetica, tale da non configurare un particolare carattere di ornamento o utilità. In un caso, è stata negata la registrazione come marchio tridimensionale in quanto nel medesimo era possibile cogliere l’elemento estetico come preponderante se non addirittura esclusivo e comunque con un rilievo tale da determinare la scelta del consumatore.

Qualora Dior volesse estendere la tutela del marchio tridimensionale, anche a livello comunitario, molto probabilmente sarà questo terzo requisito lo scoglio più arduo da superare per la maison francese. Del resto vale la pena ricordare che con due sentenze del 2013, il Tribunale dell’Unione Europea negò a Bottega Veneta la registrazione come marchi comunitari tridimensionali di due diverse forme di borsetta, caratterizzate l’una dalla particolare conformazione dei manici e l’altra dall’assenza di dispositivi di chiusura. Nel caso di specie, i giudici ritennero che le forme di cui Bottega Veneta chiedeva la registrazione non assolvevano alla funzione essenziale di un marchio, ovvero quella di indicatore d’origine di un prodotto.

Le sorti del marchio RF di Roger Federer

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Nel luglio 2018, Federer ha sorpreso molti suoi fans passando da Nike a Uniqlo in un affare del valore di quasi 300 milioni di dollari in 10 anni.

Molti si sono interrogati sulla sorte del marchio di Federer "RF" logo "RF" che per anni è apparso sull’abbigliamento prodotto da Nike. L'atleta 37enne ha più volte affermato che il logo era suo, e ci si aspettava che Uniqlo avrebbe adottato il marchio "RF" sui propri prodotti.

In realtà il titolare del marchio è la Nike che ha registrato il logo "RF" come marchio d’impresa e non appena l’accordo con Federer era scaduto, aveva immediatamente smesso di vendere l'abbigliamento a nome di Federer nei negozi in tutto il mondo.

In questi giorni il portavoce Uniqlo ha rivelato che l'azienda di abbigliamento non ha "nessun piano" per acquisire il logo RF da Nike di fatto rinunciando al marchio logo "RF" da parte dell'otto volte campione di Wimbledon.

Cosa avrebbe potuto fare Federer per evitare il problema e quale lezione ne possono trarre gli atleti?

  1. Registrare il marchio a proprio nome - La soluzione più ovvia sarebbe stata quella di garantire che il marchio fosse registrato a suo nome (o a nome della società che gestisce i suoi diritti d’immagine). Federer avrebbe quindi potuto, come parte del suo accordo di sponsorizzazione con Nike, concedere a Nike una licenza d'uso del logo RF per la durata del contratto di sponsorizzazione. In effetti, sorprende un po' che Federer non abbia registrato il logo RF a proprio nome, dato che è il titolare registrato di diversi marchi, tra cui il marchio comunitario "Roger Federer".

  2. Utilizzare una clausola di cessione - In alternativa, se la Nike avesse insistito per il possesso del marchio RF Logo, il contratto di sponsorizzazione avrebbe potuto includere una clausola di cessione automatica in modo che, una volta risolto l'accordo di sponsorizzazione i diritti sul marchio fossero immediatamente trasferiti a Federer in quanto titolare del patronimico coincidente con le iniziali RF.

 

Apple e Pear non sono due marchi confondibili.

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Il Tribunale UE si è recentemente pronunciato in tema di somiglianza visiva e concettuale tra marchi e, ribaltando la decisione dell’EUIPO sul punto, ha accertato che il noto marchio Apple ed il marchio Pear (raffigurati di seguito) non sono confondibili tra loro.

La vicenda prende spunto dall’opposizione presentata dalla Apple alla domanda di registrazione del marchio figurativo europeo ‘Pear’, depositata dalla Pear Technologies Ltd. In seguito all’accoglimento dell’opposizione, quest’ultima proponeva ricorso di fronte all’EUIPO, che confermava però la prima decisione. Di conseguenza, la Pear Technologies impugnava il provvedimento di fronte al Tribunale UE il quale ha negato l’esistenza di una somiglianza tra i due segni, confrontandoli sia dal punto di vista visivo che dal punto di vista concettuale.

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La commissione di ricorso EUIPO aveva ravvisato in un  primo  momento ravvisato un remoto grado di somiglianza tra i due segni, in quanto entrambi rappresentavano sagome arrotondate di un frutto con i relativi gambo/foglia in identica posizione ma il Tribunale è poi giunto ad una diversa conclusione.

Il giudice ha infatti osservato che i due segni sono visivamente molto diversi tra loro: rappresentano, infatti, due frutti distinti e l’uno (il marchio Apple) costituisce una forma solida, mentre l’altro (Pear) è un insieme di oggetti separati tra loro; inoltre, l’elemento in alto a destra rappresenta in un caso una foglia (Apple) e nell’altro un gambo (Pear); infine, non può essere sottovalutato l’elemento denominativo del marchio Pear, che ha dimensioni rilevanti rispetto alla sagoma, un colore diverso, un font particolare ed è a lettere maiuscole. In conclusione il Giudice ha stabilito che la notorietà del segno anteriore non rileva in un giudizio di somiglianza, e che i marchi in questione sono visivamente diversi.

Dal punto di vista concettuale il Tribunale ha ribaltato le conclusioni della commissione di ricorso EUIPO, sottolineando che sussiste somiglianza concettuale solo quando due segni evocano immagini aventi un contenuto semantico simile o identico.

Nel caso di specie, l’EUIPO aveva in un primo momento ritenuto che i due marchi raffigurassero due frutti distinti ma che però gli stessi erano affini per caratteristiche biologiche ma il tribunale ha ritenuto che i segni in questione evocano l’idea di un frutto determinato, mentre richiamano il concetto generale di “frutto” solo in modo indiretto.

In secondo luogo, ha ribadito che, in numerosi Stati, membri mele e pere sono utilizzate nei proverbi come esempi di cose diverse e non paragonabili, e l’eventuale somiglianza nelle dimensioni, colori o consistenza (caratteristiche che, peraltro, condividono con molti altri frutti) è comunque un elemento che può essere percepito dal pubblico solo nell’ambito di un’analisi molto dettagliata, senza considerare che non è verosimile presumere che il consumatore sia a conoscenza della loro provenienza dalla medesima famiglia di piante.

In base a queste considerazioni, dunque, il Tribunale UE ha annullato la decisione della commissione di ricorso EUIPO, riconoscendo la possibile influenza esercitata dalla notorietà del marchio anteriore.