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Il Tribunale di Torino si esprime sulla proteggibilità del segno K-way come marchio tra l’eccezione di esaurimento e tematiche di ambush marketing

Recentemente la sezione specializzata del Tribunale di Torino si è espressa in un caso molto interessante che ha riguardato l’applicazione della scriminante prevista in tema di esaurimento del marchio a fronte di una difesa che invocava il pericolo del c.d ambush marketing.

Le parti in causa sono state da un lato la Basicnet, leader nel settore della produzione di abbigliamento e titolare del marchio KWAY e dall’altro la FIFA e la Sony.

Basicnet si era accorta che, nel periodo dal 14 giugno al 15 luglio 2018, nel video ufficiale della canzone scelta come colonna sonora del campionato del mondo di calcio svoltosi in Russia, intitolata “LIVE IT UP” (FIFA World Cup 2018), il cantante Nicky Jam indossava un giubbotto K- WAY. Il marchio K-WAY, impresso dal produttore, era però dapprima offuscato nel video, e poi del tutto eliminato.

Il video è stato visibile per tutto il periodo di svolgimento del campionato mondiale ed al momento dell’introduzione della causa era raggiungibile sul sito web della UEFA e su varie piattaforme digitali tra cui il canale Youtube.

Il contesto della vicenda si inserisce nel contesto della promozione e sponsorizzazione del campionato del mondo di calcio, nell’ambito del quale Sony aveva avuto dalla FIFA l’incarico di realizzare e produrre fra l’altro, il brano musicale e il correlato video ufficiale del Campionato Mondiale di Calcio che si sarebbe svolto in Russia nel 2018, e, nell’ambito di tale incarico, aveva stabilito contrattualmente con il committente ogni dettaglio relativo alla produzione e realizzazione della colonna sonora, anche con riferimento alle esclusive che gli sponsor del Campionato Mondiale di Calcio si erano assicurate.

Una volta firmato il contratto con la FIFA, Sony girava il videoclip della canzone ufficiale della manifestazione interpretato dal cantante Nicky Jam. Il giorno delle riprese il cantante si era recato sul set indossando un giubbotto K-way molto particolare per la foggia ed i colori nonché per essere marchiato con un enorme logo K-Way oltre che dalla tradizionale cerniera colorata che contraddistingue i prodotti K-Way.

I responsabili Sony presenti rappresentavano subito al cantante che non sarebbe stato possibile inquadrare il giubbotto in quanto non vi era l’autorizzazione del produttore della giacca sfoggiata da Nicky Jam e che la stessa Basicnet avrebbe potuto essere accusata di ambush marketing da parte della autorità russe.

Più precisamente i responsabili della Sony rappresentarono al cantante che il giubbotto non avrebbe potuto essere inquadrato in ragione degli impegni contrattuali assunti dalla FIFA nel rispetto dei diritti di esclusiva degli sponsor ufficiali del mondiale di calcio tra cui non vi era la Basicnet.

Sony aveva inoltre rappresentato al cantante che l’utilizzo del marchio K-Way avrebbe potuto condurre a contestazioni da parte delle stesse autorità russe in ragione dell’illecito accostamento alla manifestazione di un marchio ad essa estraneo. A fronte, peraltro, del rifiuto del cantante a girare il video togliendosi il giubbotto Sony decise allora, come soluzione di ripiego, di oscurare il logo in fase di post produzione per cui una volta girato il video il logo K-Way venne cancellato elettronicamente dal giubbotto.

Il video così realizzato veniva anche caricato sul canale Youtube dell’artista.

Accortasi del fatto, Basicnet aveva richiesto a Sony e a FIFA l’immediato ritiro del video e il ripristino del marchio sul giubbotto asserendo che l’alterazione del marchio dell’attrice operata dalle convenute FIFA e Sony costituiva una violazione dei diritti di privativa del K-way a livello nazionale e comunitario, nonché integra una impostesi di concorrenza sleale

Secondo la difesa di Basicnet l’utilizzazione di un capo con apposto un marchio registrato doveva rispettare, anche nella fase post-vendita, la scelta del legislatore di tutelare il marchio registrato non solo contro il rischio di confusione quanto all’origine, ma anche contro l’erosione del valore promozionale incorporato nel segno, qualora di detto segno fosse stato fatto un uso a scopo di lucro.

Secondo parte attrice il comportamento in esame aveva determinato altresì un danno per l’immagine di prestigio dei prodotti e la rinomanza del marchio anche in considerazione del fatto che ogni manipolazione di un marchio è idonea a costituire fonte di lucro sia diretta che indiretta per chi la mette in atto. Sulla base di tali argomentazioni Basicnet chiedeva una inibizione della circolazione del video ed una liquidazione del danno in via equitativa.

Le difese delle parti convenute hanno da parte loro invocato il c.d. principio di esaurimento del marchio sostenendo che tale violazione non sarebbe sussistente laddove la cancellazione del logo sarebbe avvenuta su un prodotto appartenente al cantante e da questi indossato e non destinato, quindi, alla commercializzazione. Per questa ragione non avrebbero potuto trovare applicazione nella specie i principi di eccezione al principio di esaurimento del marchio, difettando in ogni caso l’elemento soggettivo della violazione in quanto la decisione di procedere alla cancellazione elettronica del logo sarebbe avvenuta a seguito della necessità di rispettare i protocolli per evitare la violazione dell’esclusiva riconosciuta agli sponsor dell’evento sportivo.

Inoltre le parti convenute argomentavano che gli organizzatori di tali eventi sono usuali bersagli del c.d. “ambush marketing”, ovvero di quelle attività promozionali promosse a danno degli sponsor ufficiali da parte di altri brand che non sono sponsor ufficiali e che, spesso approfittando dell’assenza di una specifica legislazione, tentano di “agganciarsi” alla manifestazione ed ottenere visibilità con un'azione di marketing non convenzionale.

La giurisprudenza di merito italiana ha già avuto modo di affermare che “ricorrono i "motivi legittimi perché il titolare del marchio si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti", come eccezione al c.d. "principio di esaurimento" in caso di rimozione del codice identificativo apposto sulle bottiglie di un prodotto (nella specie: un distillato). Ed invero, siffatta rimozione era idonea a ledere la reputazione del marchio e del suo titolare, se non altro per l'immagine di minor pregio che le bottiglie manipolate trasmettono ai consumatori, con ricadute negative, per il segno, anche sui prodotti commercializzati integri. Ne consegue che è irrilevante l'area, comunitaria o extracomunitaria, di immissione in commercio delle bottiglie in questione, dal momento che vi sono state alterazioni/manipolazioni della confezione e del prodotto” (Tribunale di Torino 12.5.2008).

Ancora si è affermato che “l'uso del marchio successivo alla prima immissione in commercio del prodotto incorporante il diritto non deve essere causa di detrimento alla reputazione e al prestigio collegati al segno distintivo, ciò costituendo motivo legittimo a che l'esaurimento del diritto non si verifichi” (Tribunale di Bologna 26.3.2010).

A parere della Corte, nel caso di specie la Sony, in sede di post produzione del video, ha pacificamente oscurato il logo K-Way posto sul giubbotto oggetto di causa che aveva indubbiamente una funzione particolarmente caratterizzante il prodotto in oggetto anche tenuto conto delle notevoli dimensioni di tale logo.

La Corte ha ritenuto chiaro che l’utilizzazione digtale del prodotto, oscurato del logo, costituisse una lesione del marchio stesso e, in particolare, della sua reputazione e del suo prestigio. Sotto tale profilo deve, quindi, ritenersi integrata la violazione degli artt. 5 Cpi e 13 Rmue, atteso che nessuna autorizzazione da parte dell’attrice, titolare dei marchi in oggetto, a tale oscuramento era stata concessa né espressamente né tacitamente.

A parere del Tribunale di Torino non può essere condiviso quanto sostenuto dalla convenuta in merito alla insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle citate disposizioni esimenti in quanto non vi sarebbe stata alcuna immissione in commercio del giubbotto essendo lo stesso stato acquistato dal cantante ai fini del proprio personale godimento. L’eccezione non è stata ritenuta pertinente in quanto se è vero che non risulta contestata l’appartenenza del giubbotto al cantante, vero è anche che proprio con l’utilizzo di quel giubbotto e all’alterazione del marchio che lo contraddistingue che il video è stato girato e diffuso a livello mondiale, vista la risonanza dell’evento, con tutte le conseguenti ricadute commerciali a vantaggio, anche delle convenute.

Appare evidente, quindi, a parere della Corte che nel caso di specie non vi è stata alcun esaurimento del marchio atteso che il giubbotto, pur appartenendo al cantante, non è stato utilizzato a scopo di mero godimento nell’ambito della fisiologica immissione nel circuito economico ma specificamente al fine di realizzare un video destinato alla promozione di un evento di rilevanza mondiale quale il Mondiale di calcio Russia 2018.

Realizzazione e diffusione di tale video che sono avvenute proprio ad opera delle parti convenute.

Né può trovare ancora accoglimento la tesi secondo cui gli illeciti commessi difetterebbero dell’elemento soggettivo, laddove dalla stessa narrazione dei fatti operata dalla parte convenuta emerge inequivocabilmente come la stessa fosse ben consapevole del comportamento tenuto essendo l’oscuramento stato eseguito proprio dalla Sony al fine di aggirare i divieti di utilizzo di prodotti non riferibili agli sponsor ufficiali della manifestazione. Secondo il Tribunale di Torino, la posizione della parte attrice è, pertanto, da riconoscersi meritevole di tutela non sotto il profilo di un suo diritto a vedere accostato il suo marchio alla manifestazione sportiva in oggetto, diritto peraltro neppure reclamato dalla stessa attrice, bensì sotto il profilo del diritto della stessa a non vedersi alterare il logo del proprio prodotto e, conseguentemente, a non vedersene ledere il prestigio e il valore promozionale.

Sotto tale profilo, pertanto, la condotta posta in essere dalle parti convenute è da ritenersi contrastante con i principi di cui agli artt. 5 Cpi e 13 Rmue nonché di cui allo stesso art. 20 Cpi, rappresentando l’oscuramento del logo una ipotesi di contraffazione.

Il comportamento rileva, inoltre, anche sotto il profilo della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. in quanto è pacifico che Basicnet operi anche sul mercato della promozione di video pubblicitari dei propri prodotti e la diffusione di un video contenente un prodotto Basicnet modificato senza il suo consenso in modo da alterarne la capacità distintiva rappresenta un’ipotesi di comportamento non conforme alla correttezza professionale rilevante ai sensi dell’art. 2598 co. 3 cpc.

Per l’insieme di tali ragioni, pertanto, la pretesa attorea deve essere considerata fondata.

Non vale, inoltre a parere della Corte, il richiamo alla pratica dell’ambush marketing formulato dalle parti convenute. Ricorre tale pratica “allorché una campagna di comunicazione lasci intendere contrariamente al vero che un soggetto sia sponsor di un evento” (Giurì Codice Autodisciplina Pubblicitaria 8.7.2014). La pratica dell’ambush marketing è considerata ingannevole, poiché induce in errore il consumatore medio sull’esistenza di rapporti di sponsorizzazione ovvero di affiliazione o comunque di collegamenti con i titolari di diritti di proprietà intellettuale, invece insussistenti (in tal senso Tribunale di Milano 15.12.2017) e costituisce un’ipotesi particolare di concorrenza sleale contraria alla correttezza professionale che può trovare tutela nell’alveo generale dell’art. 2598,3° comma, c.c. (Tribunale Milano 15.12.2017).

In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di specificare che “con la figura dell’ambush marketing il concorrente sleale associa abusivamente l’immagine ed il marchio di un’impresa ad un evento di particolare risonanza mediatica senza essere legato da rapporti di sponsorizzazione, licenza o simili con l’organizzazione della manifestazione. In tal guisa lo stesso si avvantaggia dell’evento senza sopportarne i costi, con conseguente indebito agganciamento all’evento ed interferenza negativa con i rapporti contrattuali tra organizzatori e soggetti autorizzati. Si tratta dunque di illecito ove i soggetti danneggiati sono l'organizzatore dell'evento, il licenziatario (o sponsor) ufficiale ed infine il pubblico.” (Tribunale Milano 15.12.2017).

Da quanto sopra esposto emerge chiaramente come nel caso di specie non possa in alcun modo ravvisarsi una pratica di ambush marketing da parte di Basicnet. Quest’ultima non ha, infatti, compiuto alcuna attività associazione del proprio marchio all’evento del Mondiale di calcio di Russia 2018 e neppure ha acconsentito a che tale associazione venisse eseguita da altri. Sono state, infatti, le convenute ad utilizzare il prodotto Basicnet alternandone il logo nel tentativo di renderlo riconoscibile al fine di evitare di incorrere nella violazione degli accordi presi con gli sponsor ufficiali e con la stessa normativa russa. Nessuna attività e conseguentemente responsabilità può essere imputata alla Basicnet in relazione all’accaduto laddove questa è venuta a conoscenza dell’accaduto solo a seguito della diffusione del video.

La Corte di Cassazione riconosce il Burberry Check come marchio che gode di rinomanza.

Laura Bussoli - Senior Counsel

Con la recente sentenza n. 576/2020, la Cassazione Penale ha accolto le ragioni della casa di moda inglese Burberry nella causa per contraffazione del suo – ormai possiamo dirlo – “celebre” marchio a motivo ornamentale:

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Nella decisione impugnata i giudici della Corte di Appello di Roma avevano seguito un “bizzarro” iter argomentativo al fine di escludere il ricorrere del reato di contraffazione del sopra riportato marchio: ed infatti, se da un lato il giudice dell’appello aveva stabilito – diversamente dal giudice di prime cure – che non fosse necessaria al fine della violazione delle norme penali in materia di contraffazione, che le parole Burberry ed il relativo marchio denominativo si trovassero apposte sul motivo scozzese, d’altra parte aveva negato il ricorrere del reato di contraffazione in virtù dell’inidoneità del marchio figurativo sopra riportato a creare un collegamento univoco con la casa di moda inglese.

Con quest’ultima sentenza, la Corte di Cassazione ha, da un lato, confermato la decisione della Corte d'Appello di Roma nella parte della sentenza che esclude la necessità del ricorrere delle parole “Burberry” sul tessuto a fini contraffattivi, ritenendo che "la contraffazione del marchio si verifica anche nei casi di riproduzione parziale del marchio in cui è probabile che crei confusione con il marchio registrato anteriore".

La Corte ha tuttavia poi osservato, al fine di ribaltare la decisione di appello, che ciò è particolarmente vero nei casi in cui il marchio anteriore è un marchio che gode di rinomanza – ossia quando è "conosciuto da una larga parte del pubblico e può essere immediatamente riconosciuto come relativo ai prodotti e servizi per i quali il marchio è utilizzato".

Non paiono residuare quindi dubbi in merito al riconoscimento della notorietà del marchio a motivo ornamentale di Burberry e alla sua capacità distintiva e di origine rispetto prodotti sui quali è apposto.

Nonostante il caso si riferisca quindi ad una fattispecie penale (reato di contraffazione previsto dall’art. 473 c.p.) che tutela la fede pubblica e non attiene al effettiva confusione del pubblico, questa decisione rappresenta un importante precedente per Burberry, in quanto riconosce apertamente il carattere noto del marchio allargandone così peraltro la sfera di tutela.

Come il turchese di Tiffany è diventato un marchio di colore.

Gianpaolo Todisco - Partner

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Nel corso degli anni, i tribunali di tutto il mondo hanno assistito a controversie aventi ad oggetto le più svariate rivendicazioni in materia di proprietà intellettuale. Tra le stesse rivestono e hanno rivestito particolare importanza quelle riguardanti le diverse tonalità di “colore”.

Diversi brand, come ad esempio T-Mobile (magenta) e UPS (marrone scuro), hanno registrato i propri colori a riprova della loro potenza nel fidelizzare i clienti e nel comunicare l'ethos di un'azienda.

Ad ogni modo, di tutte queste rivendicazioni cromaticamente orientate, è il gioielliere e rivenditore Tiffany & Co. che ha reso un'unica tonalità di blu sinonimo di lusso.

Nel 1837, Charles Lewis Tiffany e John B. Young aprirono il primo negozio Tiffany & Young a Lower Manhattan, proprio di fronte al City Hall Park.

Prima ancora che il marchio diventasse un importante fornitore di argento, il negozio si occupava della vendita di articoli di cancelleria ed altri prodotti di alta gamma e l'ormai iconico Blue Book, pubblicato per la prima volta nel 1845, presentava già una copertina blu che aveva una tonalità più verde rispetto a quella dell'uovo del pettirosso che oggi associamo al brand. Nel corso degli anni, fino a giungere al secolo successivo, il Blue Book variò di tonalità fino al 1966 circa, quando l'azienda adottò un colore vicino al Tiffany Blue.

E’ difficile individuare il momento esatto in cui il turchese sia iniziato ad essere associato all'azienda. Non si conosce nemmeno l’esatta ragione per cui i fondatori si siano accordati su quella particolare tonalità.

Tuttavia, si ha evidenza del fatto che già nel 1889, l'azienda avesse utilizzato il colore nell'Esposizione Universale di Parigi a dimostrazione del fatto che già a quell'epoca, anche in America, il turchese era una pietra preziosa.

Questa non è un’azione banale, anzi, la scatola blu "è molto probabilmente il contenitore di vendita al dettaglio più riconoscibile e più desiderato della storia". Charles Lewis, infatti, si è sempre rifiutato di vendere le scatole da sole sostenendo che quest’ultime fossero un vero e proprio simbolo - “non si può ricevere uno dei simboli più significativi dell'amore e dell'impegno senza la scatola di Tiffany”.

D’altronde, è con l’avvento del 1998 che Tiffany & Co. ha finalmente registrato il suo colore e il suo packaging e tre anni dopo, inoltre, il brand ha collaborato con Pantone per dare vita alla sua personale tonalità, la "1837 Blue", in memoria del suo anno di fondazione.

Uno dei punti forti di Tiffany è quello di non dover aggiornare le sue strategie di branding per mantenere il suo fascino. Come ha sottolineato Davey “Tiffany si trova in una posizione rara e invidiabile, in quanto i consumatori riconoscono il marchio semplicemente vedendo il colore, senza bisogno che vi sia un’altra brand identity”.

Nessun altro colore registrato è diventato così strettamente associato al suo marchio. Tiffany & Co. può dipingere qualsiasi cosa con il colore del suo marchio, dai sassi ai taxi alle vetrine, il suo significato risuonerà sempre!

IL FENOMENO DELLA VOLGARIZZAZIONE DEL MARCHIO OSCAR.

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Con l’avvicinarsi della cerimonia che attribuisce l’Academy Award meglio noto come “l’Oscar” può sembrare utile ricordare le vicende legate al marchio che porta il nome del noto premio cinematografico.

L’Oscar è stato assegnato per la prima volta il 16 maggio 1929 ed i suo nomignolo sarebbe stato attribuito da Margaret Herrick, impiegata all’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che vedendo la statuetta disse: “Assomiglia proprio a mio zio Oscar!”

L’Oscar è un marchio registrato di titolarità della Academy of Motion Picture Arts and Sciences ed alcuni anni orsono ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma l’Associazione italiana dei Sommelier colpevole di aver istituito “l’Oscar del Vino”.

Orbene nel 2016 la corte di Cassazione ha da un lato confermato la validità del marchio Oscar con riferimento al settore dell’industria cinematografica, attribuendo di conseguenza al titolare, l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences (AMPAS), pieni diritti al suo utilizzo esclusivo.

Dall’altro, ha dichiarato il marchio Oscar decaduto per volgarizzazione in relazione a servizi di diversa natura, nella fattispecie i servizi relativi all’istruzione ed allo spettacolo nella classe 41 della Classificazione di Nizza.

Il fenomeno della volgarizzazione si verifica quando un marchio non è più utilizzato per individuare i prodotti di un imprenditore da quelli di un altro imprenditore ma, semplicemente, per individuare il prodotto (indipendentemente da chi lo produce).

La Cassazione ha stabilito che il discrimine per determinare la volgarizzazione del marchio Oscar è il contesto in cui viene usato.

Se usato per identificare la cerimonia di premiazione il marchio Oscar è pienamente valido. Ma, usato in altri contesti, il termine assurge a parola comune che identifica un premio o un evento legato all’eccellenza. 

 

La battaglia legale tedesca intorno al marchio Black Friday.

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Dal 1952, il Black Friday, generalmente conosciuto come il giorno successivo al Giorno del Ringraziamento, viene considerato l'inizio della stagione dello shopping natalizio negli Stati Uniti. Oggi i rivenditori di diversi paesi in tutto il mondo offrono vendite promozionali durante il fine settimana del Black Friday. In Germania, Apple è stata la prima azienda a gestire una speciale campagna per il Black Friday per il mercato tedesco fin dal 2006.

Sull’onda della accresciuta notorietà del Black Friday, nel  2013 è stata presentata in Germania una domanda per la protezione del marchio Black Friday dalla Super Union Holdings Ltd. Co. Società con sede ad Hong Kong, che ha concesso in licenza il marchio "Black Friday" alla Black Friday GmbH, una società con sede a Vienna.

Dal 2016, la Super Union Holdings Ltd. ha iniziato ad attaccare le società che utilizzano il termine Black Friday inviando avvertimenti, come ad esempio il mercato statunitense del commercio elettronico Groupon nel 2016, nonché ai titolari della piattaforma black-friday.de, che presenta offerte del Black Friday.

Nel 2017, Super Union Holdings Ltd. ha citato in giudizio Amazon per l'uso del segno "Black Friday" in Germania avanzando, tra l'altro, richieste di danni.

Certo, alcune aziende, colpite dagli attacchi di Super Union Holdings Ltd., hanno iniziato a reagire e ad oggi sono pendenti più di dodici azioni di cancellazione pendenti contro il marchio tedesco Black Friday.

Di recente il tribunale di Dusseldorf ha emesso un’ordinanza in cui negato il diritto di privativa al titolare del marchio Black Friday.

In Germania vige, come in tanti altri paesi, il principio secondo cui un marchio può essere cancellato se il segno è descrittivo ed il cuore della battaglia legale sembra proprio ruotare intorno a tale principio.

A breve si avranno nuovi sviluppi.

Il pericolo di usare il proprio nome come marchio.

Circa un anno dopo che Thaddeus O'Neil ha lanciato una linea di abbigliamento maschile ispirata alla cultura surf tipica della zona di Eastern Long Island in cui lui stesso è cresciuto, l’indipendente designer ha ricevuto una lettera di diffida da uno studio legale che rappresenta Sisco Textiles, titolare del famoso marchio di abbigliamento sportivo "O’Neill ".

Questo è stato l'inizio della controversia legale tra il marchio d’abbigliamento per surfisti, O’Neil, fondato nel 1952, e il designer di New York che sta guadagnando sempre più popolarità dopo aver vinto diversi concorsi di moda.

Nella loro controversia con il fashion designer di New York, la società O'Neill sostiene che il suo brand stia usando questo nome fin dagli anni '50 e che i marchi di Thaddeus O'Neil sono "simili in maniera confusionaria". Secondo O'Neill questo potrebbe ingannare i consumatori e condurli a pensare che le aziende siano correlate.

Le controversie sul marchio che coinvolgono patronimici (cioè in cui il marchio sia equivalente al nome del fondatore) sono piuttosto comuni nella moda. Nel 2012, Tod's - che, a quel tempo, utilizzava il marchio “Roger Vivier” in virtù di un contratto di licenza - ha condotto in giudizio la designer di borse di Los Angeles, Clare Vivier, per violazione del marchio. Alla fine, Clare Vivier ha ribattezzato il proprio marchio in “Claire V.”. Nel 2016, in Italia, Elio Fiorucci ha perso la causa che coinvolgeva l'utilizzo del marchio "Love Therapy by Elio Fiorucci" contro i nuovi proprietari del marchio che aveva fondato.

Ma qual è la posizione dei tribunali italiani quando l'uso di patronimici potrebbe generare confusione con altri marchi? Alla fine degli anni '80 la Corte di Cassazione ha affermato che l'uso di un patronimico come marchio è legittimo, seppur in conflitto con un marchio registrato precedentemente, fintanto che il marchio precedente non diventa un marchio famoso.

Questo principio è stato ribadito dalla Corte Suprema nel 2016 nel citato caso Fiorucci vs. Elio Fiorucci.

Il nostro consiglio? Eseguire una ricerca preliminare sui marchi già registrati prima di lanciare un brand con il proprio nome.

Hendrix vs Hendrix

Experience Hendrix, società controllata da Janie Handrix, la quale detiene i diritti sull’intero patrimonio del più famoso fratello chitarrista Jimi, ha citato in giudizio Leon Hendrix e il suo socio Pitsicalis per violazione del diritto d’autore e del marchio. Leon e Pitsicalis avrebbero, infatti, utilizzato illecitamente alcuni dei tanti marchi di proprietà di Experience (la firma e le immagini del volto e del busto di Jimi) per commerciare sigarette e bevande alcoliche. Ma le battaglie per l’utilizzo commerciale del nome di Jimi sono risalenti nel tempo. Già nel 2015 la Corte distrettuale di Washington si era pronunciata sulla questione, proibendo a Leon e Pitsicalis di utilizzare le immagini del musicista. Inoltre, lo scorso gennaio 2017 la Corte distrettuale della Georgia ha dichiarato illegittimo da parte di Leon e Pitsicalis l’utilizzo delle parole “Jimi” e “Hendrix” sui loro siti web, social media e piattaforme online. Con la causa intentata il 16 marzo 2017 di fronte al tribunale di New York, la Experience Hendrix ha chiesto che venga dichiarato illegittimo anche l’utilizzo del nome “Purple Haze” nella vendita di prodotti a base di marijuna e di magliette. Purple Haze, infatti, è una canzone scritta nel 1967 da Jimi Handrix. Experience Hendrix ha chiesto un provvedimento ingiuntivo, l’eliminazione dal mercato dei beni in violazione dei diritti sul marchio registrato e un risarcimento dei danni. D’altra parte, Thomas Osinski, avvocato di Pitsicalis e Leon Hendrix, ha dichiarato che “Experience Hendrix conosce da tempo i prodotti dei miei clienti e conduce questa causa solo per offuscare e interferire con gli affari leciti e corretti di Leon che rispetta l’'eredità di Jimi Hendrix.” Osinski, in merito al contenuto della citazione, ha dichiarato che, sebbene le sentenze precedenti hanno escluso Leon Hendrix e la sua famiglia dal catalogo musicale di Jimi Hendrix, e hanno negato la possibilità di utilizzare i marchi creati da Experience Hendrix, niente impedisce a Leon e ai suoi soci di vendere altra merce legata a Hendrix. Chissà come il Tribunale risolverà questa lite familiare questa volta.

Il Tribunale di Torino si pronuncia nuovamente sul principio di esaurimento del marchio.

Il Tribunale di Torino si è nuovamente di recente pronunciato sul principio di esaurimento del marchio  in occasione delle richieste cautelari proposte da una società attiva nel mercato della cosmesi e della profumeria, rivolte ad inibire l’utilizzo del proprio marchio e la commercializzazioni dei prodotti ad esso associati da parte di alcuni cessionari.

Come è noto il codice della proprietà industriale statuisce che i diritti di esclusiva spettanti al titolare del marchio si esauriscono in sede di prima immissione sul mercato e dunque il titolare della privativa non può opporsi ad una loro successiva commercializzazione. 

La ratio di questa disposizione, ha ricordato il giudice nelle sentenza, è quella di evitare che il titolare del marchio possa, in virtù di questa qualifica, influenzare l’andamento di mercato dei prodotti che sono contraddistinti dal segno di cui è titolare. 

Unica eccezione a questa regola è costituita dal verificarsi di pratiche commerciali scorrete da parte dei distributori, i quali possono adottare modalità di vendita che ledono il prestigio del marchio e la sua affidabilità e comportino, da ultimo, uno svantaggio in termini di attrattività e di valore economico del prodotto contrassegnato.

Al di fuori di questi casi, tutti coloro i quali abbiano diritto all’utilizzo del segno distintivo e alla distribuzione sul mercato dei relativi prodotti non devono essere ostacolati nell’esercizio della loro attività né per quanto concerne il prezzo finale né per quanto concerne il sistema di vendita. 

Sarebbero dunque indebite e ingiustificate restrizioni nei confronti dei distributori riguardanti la vendita online e l’applicazione di sconti sul prezzo, non costituendo queste di per sé pratiche screditanti.