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Thom Browne vince contro adidas nella guerra delle strisce

L’azienda dello stilista newyorkese Thom Browne (dal 2018 parte del Gruppo Ermenegildo Zegna) ha recentemente avuto la meglio in un contenzioso promosso da adidas innanzi al Tribunale del Distretto sud di New York per tutelare il proprio famoso marchio costituito dalle caratteristiche tre strisce parallele. Il tribunale americano ha infatti riconosciuto che Thom Browne, stilista conosciuto per i suoi capi di abbigliamento sartoriali di alta gamma, non ha commesso alcuna violazione dei diritti di marchio della multinazionale tedesca nell’apporre sui propri capi di abbigliamento e modelli calzature un motivo costituito da quattro strisce parallele.

In realtà, il contenzioso in materia di marchi tra le due aziende pendeva già da qualche anno. Infatti, già 2018 adidas aveva avviato innanzi all’Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) un’opposizione contro una domanda di marchio comunitario depositata da Thom Browne per tutelare un segno costituito da quattro strisce parallele. A tale opposizione ne erano poi seguite nel 2020 altre innanzi allo United States Patent and Trademark Office con cui adidas aveva contestato tre domande di marchio aventi ad oggetto strisce rosse, bianche e blu destinate a contraddistinguere le calzature prodotte dallo stilista newyorkese. adidas riteneva infatti che tutti i sopra menzionati marchi di cui Thom Browne aveva chiesto la registrazione fossero confondibili con le proprie registrazioni anteriori rivendicanti, appunto, le famose tre strisce.

Tornando all’attuale decisione della corte distrettuale di New York, nel giugno del 2021 il colosso tedesco dell'abbigliamento sportivo aveva intentato una causa contro Thom Browne sostenendo che l’utilizzo da parte di quest’ultimo di un segno costituito da strisce parallele violasse i propri diritti di marchio, oltre a costituire un’attività di concorrenza sleale confusoria nell’ambito dell’abbigliamento sportivo.

L’azienda tedesca sosteneva infatti che l’utilizzo da parte di Thom Browne di un marchio simile al proprio celebre marchio a tre strisce utilizzato da oltre cinquant’anni adidas, ingenerava confusione nei consumatori sull’origine dei prodotti stessi, o che comunque li inducesse a credere che tra le due aziende vi fosse una qualche collaborazione o affiliazione. In particolare, adidas contestava a Thom Browne l’utilizzo delle strisce in modalità similari al proprio marchio a tre strisce, creando così confusione sia nell'aspetto estetico che nell'impressione commerciale complessiva che tali prodotti fornivano. adidas sosteneva che, in particolare i prodotti nella categoria dell'abbigliamento e delle scarpe sportive fabbricati dall’azienda americana, fossero identici alle medesime categorie di prodotti da tempo contraddistinti sul mercato dal proprio marchio a tre strisce.

A parte gli evidenti elementi di similarità dei marchi dei due contendenti, l’impianto accusatorio di adidas era inoltre fortemente incentrato sull’elemento concorrenziale perché, per fondare la propria richiesta risarcitoria di circa 8 milioni di dollari, l’azienda tedesca aveva evidenziato al giudice statunitense che Thom Browne non si limitava al solo utilizzo delle quattro strisce nel proprio core business, ovvero l’abbigliamento di alta moda, ma stava invadendo in modo sempre più aggressivo il segmento dell'abbigliamento sportivo ed in genere i settori dove adidas è leader di mercato. E ciò non solo con l’ampliamento della propria gamma di abbigliamento sportivo, ma anche tramite accordi promozionali come ad esempio quello concluso da Thom Browne con il famoso club spagnolo del F.C. Barcelona.

Eccependo la totale differenza tra i rispettivi canali distributivi del luxury e dello sportswear, nonché dell’ampio divario tra i prezzi dei rispettivi prodotti, la tesi difensiva dell’azienda americana era ovviamente incentrata sull’insussistenza di qualsiasi rischio di confusione per i consumatori. Forse più interessante e meno scontato è quanto inoltre argomentato dalla difesa di Thom Browne nel rilevare come adidas abbia aspettato molto tempo prima di intraprendere un'azione legale contro il proprio utilizzo delle strisce. Come già avvenuto precedentemente in altre sedi, anche davanti alla corte newyorkese Thom Browne ha evidenziato come adidas già nel 2007 avesse immediatamente contestato l'uso di Thom Browne di tre bande orizzontali sui propri capi di abbigliamento, ma abbia poi invece tollerato per molto tempo l'uso di quattro bande orizzontali parallele sui capi di abbigliamento che successivamente Thom Browne aveva appositamente intrapreso proprio per allontanarsi quanto più possibile dai marchi dell’azienda tedesca.

In sostanza, Thom Browne ha quindi sostenuto che il ritardo di adidas nell’intervenire per impedirgli di utilizzare il proprio marchio a quattro strisce è stato irragionevolmente lungo in quanto il colosso tedesco dello sportswear sapeva, o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere, che Thom Browne utilizzava un design a quattro bande orizzontali. Per la difesa dello stilista newyorkese, ciò avrebbe peraltro anche costituito un’implicita dimostrazione che i rispettivi marchi a strisce sono di fatto coesistiti sul mercato per molto tempo senza che adidas avesse subito alcun danno. Se da una parte Thom Browne ha ovviamente accolto con favore la propria assoluzione facendo notare come da oltre vent’anni anni la propria azienda sia un brand innovativo nel segmento della moda di lusso, dove propone un design del tutto unico e distintivo che combina la sartoria classica con la sensibilità dell'abbigliamento sportivo americano. Dall’altra, adidas ha già dichiarato che impugnerà la sentenza della Corte distrettuale di Manhattan, decisione che non a caso si aggiunge ad altre negative subite dalla multinazionale tedesca in sede EUIPO e che hanno già messo in discussione il carattere distintivo del proprio marchio a tre strisce.

Bando Marchi 2022

SCADENZA: Apertura sportello dalle ore 9:30 del 25 ottobre 2022 e fino all’esaurimento delle risorse disponibili

FONDI DISPONIBILI: 2 Milioni di Euro

Una quota pari al 5% delle risorse finanziarie disponibili è destinata alla concessione delle agevolazioni ai soggetti proponenti che, al momento della presentazione della domanda di accesso alle agevolazioni, sono in possesso del rating di legalità.

BENEFICIARI e REQUISITI AMMISSIBILITA'

  • MPMI – Micro, Piccole e Medie imprese
  • con sede legale ed operativa in Italia
  • che siano regolarmente costituite, iscritte nel Registro Imprese e attive
  • che non siano in stato di liquidazione o scioglimento e sottoposte a procedure concorsuali
  • che siano titolari del marchio oggetti della domanda di partecipazione

Agevolazioni dirette a favorire la registrazione di marchi comunitari presso l'EUIPO (Ufficio dell'Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) e la registrazione di marchi internazionali presso l'OMPI (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale).

Il programma prevede due linee di intervento:

Misura A – Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi dell'Unione Europea presso l'EUIPO(Ufficio dell'Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) attraverso l'acquisto di servizi specialistici.

Misura B- Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi internazionali presso OMPI(Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale) attraverso l'acquisto di servizi specialistici.

MISURA A

Requisiti di ammissibilità:

  • aver effettuato, a decorrere dal 1° giugno 2019, il deposito della domanda di registrazione presso EUIPO del marchio oggetto dell’agevolazione e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di deposito;

NONCHE’

  • aver ottenuto la registrazione, presso EUIPO, del marchio dell’Unione europea oggetto della domanda di partecipazione. Tale registrazione deve essere avvenuta in data antecedente la presentazione della domanda di partecipazione;

Per la Misura A, le agevolazioni sono concesse nella misura del 80% delle spese ammissibili sostenute per le tasse di deposito e delle spese ammissibili sostenute per l’acquisizione dei servizi specialistici e nel rispetto degli importi massimi previsti per ciascuna tipologia e comunque entro l’importo massimo complessivo per marchio di euro 6.000,00.

MISURA B

Requisiti di ammissibilità:

Aver effettuato, a decorrere dal 1° giugno 2019, almeno una delle seguenti attività:

  • Il deposito della domanda della registrazione presso OMPI di un marchio registrato a livello nazionale presso UIBM o di un marchio dell'Unione Europea registrato presso EUIPO e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;
  • Il deposito della domanda di registrazione presso OMPI di un marchio per il quale è già stata depositata domanda di registrazione presso UIBM o presso EUIPO e avere ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;
  • il deposito della domanda di designazione successiva di un marchio registrato presso OMPI e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;

NONCHE'

  • Aver ottenuto la pubblicazione della domanda di registrazione sul registro internazionale dell'OMPI (Madrid Monitor) del marchio oggetto della domanda di partecipazione. La pubblicazione della domanda di registrazione del marchio sul registro internazionale dell'OMPI deve essere avvenuta in data antecedente la presentazione della domanda di partecipazione.

Per la Misura B, le agevolazioni sono concesse nella misura dell’90% delle spese ammissibili sostenute per l’acquisizione dei servizi specialistici e per le tasse di registrazione nel rispetto degli importi massimi previsti per ciascuna tipologia e comunque entro l’importo massimo complessivo per marchio di euro 9.000,00.

Per la misura B, per le domande di registrazione internazionale depositate dal 1° giugno 2019 per uno stesso marchio è possibile effettuare designazioni successive di ulteriori Paesi; in tal caso le agevolazioni sono cumulabili fino all’importo massimo per marchio di € 9.000,00.

Per la misura B, per le domande di registrazione internazionale depositate prima del 1° giugno 2019 è possibile richiedere agevolazioni esclusivamente per le designazioni successive effettuate dopo il 1° giugno 2019; in tal caso l’importo massimo delle agevolazioni per marchio è di € 4.000,00.

Ciascuna impresa può presentare più richieste di agevolazione, sia per la Misura A sia per la Misura B, fino al raggiungimento del valore complessivo di € 25.000,00.

Per uno stesso marchio è possibile cumulare le agevolazioni previste per le misure A e B (qualora nella misura B non si indichi l’Unione europea come Paese designato) nel rispetto degli importi massimi indicati per marchio e per impresa. Per lo stesso marchio è possibile presentare in un’unica domanda la richiesta di agevolazione sia per la Misura A sia per la Misura B.

Qualora un’impresa possa richiedere l’agevolazione per più marchi, occorre che venga presentata una domanda per ciascuno di essi, pena l’inammissibilità della domanda stessa.

Le agevolazioni di cui al presente Bando non sono cumulabili, per le stesse spese ammissibili o parte di esse, con altri aiuti di Stato o aiuti concessi in regime de minimis o agevolazioni finanziate con risorse UE (es. EUIPO – IDEAS POWERED FOR BUSINESS). Tuttavia, nel limite del 100% delle spese effettivamente sostenute, le agevolazioni sono fruibili unitamente a tutte le misure generali, anche di carattere fiscale, che non sono aiuti di Stato e non sono soggette alle regole sul cumulo.

PRESENTAZIONE DOMANDA

  • La domanda di partecipazione è compilata esclusivamente tramite la procedura informatica e secondo le modalità indicate al sito www.marchipiu2022.it.
  • La domanda di partecipazione è presentata a partire dalle ore 9:30 del 25 ottobre 2022 e fino all’esaurimento delle risorse disponibili.
  • La domanda di partecipazione, generata dalla piattaforma informatica deve essere firmata digitalmente dal legale rappresentante dell’impresa richiedente l’agevolazione ovvero dal procuratore speciale delegato sulla base di apposita procura speciale.

Clovers rimane a disposizione dei clienti per fornire tutta l’attività di consulenza necessaria.

Marchi vinicoli tra convalidazione e tolleranza dell’uso

Con una recente ordinanza (09.02.2022) il Tribunale di Torino si è espresso in merito alla contraffazione di alcuni marchi registrati da una cantina vinicola, principalmente per prodotti vinicoli in classe 33. Nella succitata ordinanza il Tribunale torinese ha inoltre colto l’occasione per precisare la differenza tra l’istituto giuridico della convalidazione, previsto dall’art. 28 del Codice di proprietà industriale, ed il diverso, seppur rilevante, fenomeno della tolleranza rispetto all’uso di un marchio di fatto successivo da parte del titolare del marchio registrato anteriore.

I marchi oggetto di causa, riportati sulle etichette delle bottiglie, erano costituiti in particolare dalla parola “SOLO” accompagnata dal tipo di vino (pinot, prosecco, shiraz, etc…) o di bevanda alcolica (grappa). Si trattava di marchi regolarmente registrati dalla titolare a livello nazionale.

In particolare il marchio invocato nel procedimento cautelare era il seguente:

La ricorrente, una cantina vinicola di Frascati, ha contestato quindi ad una concorrente presente nel territorio piemontese, l’utilizzo del marchio di fatto “SOLO PINOT NERO” per prodotti vinicoli, invocando la contraffazione del suo marchio anteriore registrato in forza dell’art. 20 C.p.i. (usando la resistente un marchio identico o molto simile a quello della ricorrente per prodotti identici).

La difesa della resistente si fondava in primo luogo sull’eccezione, rigettata dal giudice, dell’intervenuta convalidazione ai sensi dell’art. 28 C.p.i.. Tale norma prevede che il titolare di un marchio registrato che per 5 anni consecutivi, tolleri, essendone a conoscenza, l'uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possa quindi domandarne la nullità né opporsi all'uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio è stato usato.

La ratio di tale istituto è da rinvenirsi nel contemperamento di due diversi interessi da un lato, quello del titolare del marchio posteriore a non veder vanificati gli investimenti sostenuti nel corso degli anni per l'accreditamento del proprio segno e dall'altro lato, quello del consumatore a non vedersi mutata repentinamente una situazione di fatto ormai consolidata.

La norma è chiara nel riservare quindi il beneficio della convalidazione ai soli marchi posteriori registrati e la giurisprudenza prevalente è allineata sull’interpretazione letterale della norma. Tuttavia negli anni, anche sulla scorta di alcuni spunti dottrinali, tale interpretazione letterale è parsa venire meno. Proprio nel settore vinicolo e proprio il Tribunale di Torino nel 2016 infatti aveva chiaramente lasciato intravedere la possibilità di un’interpretazione (estensione) analogica della norma sulla convalida anche ai marchi di fatto.

Con la sentenza n° 2256/16 del 22.4.16 il Tribunale di Torino infatti aveva chiaramente argomentato circa l’opportunità che il beneficio della convalida fosse esteso ai marchi di fatto: secondo il Tribunale, poiché il marchio di fatto trova tutela nelle norme sulla concorrenza sleale, norme che recepiscono “principi di tutela della ricchezza prodotta dagli investimenti e di avversione verso le iniziative parassitarie”, si deve addivenire “se non ad una applicazione analogica dell’istituto della convalidazione ai marchi non registrati – quantomeno” a negare tutela ad un marchio “rispetto a segni uguali o simili utilizzati per lungo tempo nella consapevolezza e senza l’opposizione del titolare del marchio”.

Ebbene con l’ordinanza del febbraio 2022 lo stesso tribunale di Torino sembra invece tornare sui propri passi: secondo il Tribunale “Premesso che non potrebbe comunque parlarsi di convalidazione del marchio, ex art. 28 CPI, perché tale effetto è prescritto solo con riferimento ai marchi registrati, la tolleranza dell’uso del marchio di fatto altrui, da parte del titolare del marchio registrato anteriore, potrebbe dimostrare l’assenza di un astratto pericolo di confusione circa la diversa provenienza imprenditoriale e comportare un limite alla tutelabilità del marchio anteriore”.

Pur negando quindi estensioni analogiche della norma sulla convalidazione ai marchi non registrati, il Tribunale mette in risalto la rilevanza, ai fini dell’esclusione del rischio di confusione e quindi della contraffazione, di comportamenti di tolleranza rispetto ai marchi di fatto posteriori da parte di titolari di marchi registrati anteriori. Tuttavia anche nel caso della tolleranza, il Tribunale ricorda i limiti dell’operatività della stessa: “la fattispecie della “tolleranza” non è ravvisabile laddove non sia provata una conoscenza effettiva, da parte del titolare del marchio anteriore, del successivo utilizzo, per un certo tempo, del marchio di fatto altrui”.

“Ai fini del riconoscimento di questa ”tolleranza” non è sufficiente una presunta inattività del titolare del marchio anteriore rispetto all’utilizzo del marchio posteriore, ma è necessario che il titolare del marchio registrato anteriore abbia posto in essere, pur conoscendo tale utilizzo, dei comportamenti che possano considerarsi di tolleranza di tale uso (Trib. Venezia Sez. PI, 20/10/2006).”

L’onere della prova di questa tolleranza incombe sul titolare del marchio posteriore. Il titolare del marchio posteriore deve provare, non soltanto che il titolare del marchio anteriore era a conoscenza del deposito del marchio posteriore, in modo concreto e non su base presuntiva, ma anche che il titolare del marchio anteriore si è dimostrato tollerante a tale uso per un certo periodo. E’ necessaria, dunque, la prova (o il relativo fumus) dell’effettiva conoscenza dell’utilizzo del marchio posteriore, perché in assenza di una effettiva conoscenza dell'uso dell'altrui marchio, non si può neppure parlare di tolleranza (Trib. Torino 15/1/2010).

Sulla prova dell’uso del marchio nei procedimenti di nullità e opposizione

Laura Bussoli - Senior Counsel

Non a tutti è noto che una volta depositato e registrato, il marchio deve costituire oggetto d’uso effettivo da parte del suo titolare: le norme – sia nazionali che comunitarie – prevedono infatti un primo periodo di tolleranza di cinque anni dalla registrazione, scaduto il quale il titolare potrebbe essere chiamato a dare prova di un uso effettivo del suo marchio.

La prova dell’uso può essere richiesta sia nell’ambito di un procedimento di opposizione da parte del richiedente il marchio opposto all’opponente, con la conseguenza che in assenza di prove utili, l’opposizione è di diritto respinta.

Similmente la prova dell’uso del marchio potrebbe essere chiesta nell’ambito di un procedimento di decadenza per non uso previsto a livello comunitario dagli Artt. 18 e 58 Regolamento sul marchio dell’Unione europea, UE 2017/1001. Anche in questo caso le conseguenze sono tutt’altro che banali per il titolare del marchio, dato che qualora il giudice amministrativo reputasse le prove non sufficienti, il marchio verrebbe dichiarato nullo a fare data dalla domanda di decadenza e quindi cancellato dal registro.

In sostanza quindi, l’uso del marchio è fondamentale anche in tutti i casi in cui il marchio viene registrato: non è sufficiente avere registrato il marchio in una serie di classi merceologiche al fine di assicurarsi una protezione più ampia possibile, se poi a tale registrazione non corrisponde un uso genuino dello stesso nei termini di legge.

Particolarmente importante quindi sarà da parte del titolare la raccolta di prove d’uso nel tempo, specie man mano che si avvicina la scadenza del quinquennio di tolleranza.

Di grande importanza è anche sapere quali sono le prove d’uso rilevanti per il giudice amministrativo. Tra le principali prove d’uso ci sono senz’altro le fatture di vendita.

Come più volte ribadito dai giudici, tali fatture devono mostrare volumi significativi e frequenti di vendite durante il periodo rilevante (quinquennio antecedente alla domanda di nullità o, nell’ambito di un procedimento di opposizione, dal momento della pubblicazione).

Si noti che le offerte di vendita dei prodotti recanti il marchio impugnato sui siti web non sono sufficienti di per sé a dimostrare un uso effettivo, tuttalpiù possono assumere rilievo unitamente ad altri elementi quali per esempio, la produzione di documenti giustificativi, imballaggi, etichette, listini prezzi, cataloghi, fatture, fotografie, annunci sui giornali.

Sul punto si espresso anche di recente il Tribunale UE nella causa T‑1/20 del 13/10/2021 rigettando il ricorso della società Mi Indutries Inc., produttrice di cibi organici per animali domestici, confermando la decisione della Commissione dei Ricorso presso l’EUIPO che aveva ritenuto alcuni estratti del sito Internet «Amazon.co.uk» ove i prodotti recanti il marchio contestato erano messi in vendita non sufficienti a dimostrare un uso effettivo del marchio: gli stessi dimostravano semplicemente che i prodotti in questione erano stati messi in vendita, senza tuttavia dimostrare che gli stessi erano effettivamente stati venduti e senza fornire alcuna informazioni sul volume di eventuali vendite.

Secondo la giurisprudenza, l'uso effettivo di un marchio non può essere dimostrato da probabilità o presunzioni, ma deve fondarsi su elementi concreti e oggettivi che dimostrino l'uso effettivo e sufficiente del marchio nel mercato interessato.

Secondo i regolamenti di esecuzione, inoltre la prova dell'uso deve riguardare il luogo, la durata, l'estensione e la natura dell'uso che è stato fatto del marchio impugnato.

È fondamentale poi che le prove riguardino il quinquennio rilevante: ulteriori prove fuori da tale periodo saranno considerate solo secondariamente.

Inoltre, la condizione relativa all'uso effettivo del marchio richiede che esso, in quanto protetto nel territorio di riferimento, sia utilizzato pubblicamente ed esternamente. Sotto questo profilo il Tribunale ha precisato che sono rilevanti non solo le vendite ai consumatori finali, ma anche ai clienti industriali e agli utilizzatori professionali (vendite B2B).

Infine il Tribunale ha precisato che anche se non è necessario per il titolare al fine di sottrarsi alle sanzioni, dimostrare un uso costante e di portata rilevante per tutto il quinquennio di riferimento, l’assenza palese di prove per una parte importante del periodo fa sì che l’uso sia considerato non sufficiente.

Un pay-off (o slogan) è registrabile come marchio?

Molto spesso ci viene chiesto di depositare come marchio un determinato slogan (pay-off) e la risposta spesso non è così scontata.

Quando si parla di pay-off in quest’ambito si pensa subito al noto JUST DO IT di Nike – che conta oltre cento registrazioni nel mondo - o all’altrettanto noto “I’m lovin it” di Mc Donald – anch’esso depositato e registrato dalla multinazionale americana in tutto il mondo.

Non sempre però il pay-off è registrabile come marchio, anche se in realtà, sono possibili altre forme di tutela, alternative e diverse dalla registrazione.

Recentemente, per esempio il Tribunale dell’UE con sentenza del 30 giugno 2021 ha rigettato in appello la domanda di registrazione del marchio figurativo

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da parte di una società italiana produttrice di prodotti da bagno, in particolare per “cassette di scarico per WC; tazze da gabinetto [WC]; impianti di distribuzione di acqua”.

Prima di questa, anche altre decisioni a livello europeo, e non solo, avevano negato la registrabilità di alcuni slogan rilevandone l’assenza di capacità distintiva: fra queste, la sentenza del Tribunale UE 30/04/2015 (cause riunite T-707/13 e T-709/13) sul marchio denominativo “BE HAPPY” per prodotti di cartoleria, oggettistica (tazze e prodotti da cucina) e giocattoli.

Nonostante il carattere fantasioso ed originale del segno, i giudici comunitari hanno negato che quest’ultimo fosse atto a svolgere la funzione tipica e principale del marchio, vale a dire quella di indicare la fonte imprenditoriale del prodotto o servizio al quale si riferisce.

Similmente nella sentenza del 9 marzo 2017, in Puma/EUIPO, T-104/16, il Tribunale aveva negato la registrabilità del segno Forever Faster per calzature e articoli sportivi ritenendo che il marchio sarebbe stato percepito dal pubblico “come una semplice formula elogiativa o un'informazione sulle qualità desiderate e sullo scopo dei prodotti in questione”.

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Diversamente, tuttavia, si riscontrano altri precedenti che invece hanno approvato la registrazione di pay-off apparentemente non molto dissimili dagli altri appena visti. Così, la Sentenza della Corte di Giustizia UE del 21.1.2010 resa nel giudizio C-398/08 P (Audi AG) ha considerato registrabile come marchio figurativo il pay-off di Audi “vorsprung durch technik” [“Avanti grazie alla tecnologia”]

In questo caso secondo il Tribunale “anche supponendo che lo slogan «Vorsprung durch Technik» veicoli un messaggio obiettivo, secondo il quale la superiorità tecnologica permette la fabbricazione e la fornitura di prodotti e servizi migliori, tale circostanza non consente di concludere che il marchio richiesto sia del tutto privo di carattere distintivo intrinseco”. Sempre nella citata sentenza si legge: “Tutti i marchi composti da segni o da indicazioni che sono peraltro utilizzati come slogan pubblicitari, indicazioni di qualità o espressioni che incitano all’acquisto dei prodotti o dei servizi designati da tali marchi veicolano per definizione, in maggiore o minore misura, un messaggio obiettivo. Tale situazione può in particolare riscontrarsi quando questi marchi non si riducono ad un messaggio pubblicitario ordinario, ma possiedono una certa originalità o ricchezza di significato, rendono necessario un minimo sforzo interpretativo o innescano un processo cognitivo presso il pubblico di riferimento.

Come si possono distinguere quindi gli slogan registrabili da quelli non registrabili?

L’Euipo sulla base della giurisprudenza prodotta in questi anni, ha messo a disposizione una serie di linee guida (rinvenibili sul sito https://guidelines.euipo.europa.eu/1922901/1802830/direttive-di-marchi/4-slogan--valutazione-del-carattere-distintivo) utili ad individuare quando lo slogan presenta non solo un valore pubblicitario, ma anche un carattere distintivo:

“È possibile che uno slogan pubblicitario sia distintivo ogniqualvolta è considerato più di un semplice messaggio pubblicitario che esalta le qualità dei prodotti o dei servizi in questione, in quanto:

  • costituisce un gioco di parole e/o

  • introduce elementi di intrigo concettuale o sorpresa, in modo che possa essere percepito come segno fantasioso, sorprendente o inaspettato, e/o

  • ha qualche particolare originalità o risonanza e/o

  • innesca nella mente del pubblico di riferimento un processo cognitivo o richiede uno sforzo interpretativo.

Oltre a quanto sopra, le seguenti caratteristiche di uno slogan possono contribuire perché possa essere riconosciuto il suo carattere distintivo:

  • strutture sintattiche insolite
  • l’uso di artifici linguistici e stilistici, come ad esempio allitterazioni, metafore, rima, paradosso ecc

Alla luce di queste guidelines e della recente sentenza del Tribunale Comunitario sul marchio GO CLEAN il quadro sembra essere più chiaro: ferma restando la funzione di indicatore di origine che deve avere il marchio, questa può essere assolta anche attraverso uno slogan pubblicitario purché lo stesso non si riduca ad una “semplice formula elogiativa”.

Il marchio deve quindi innanzi innanzitutto indicare al pubblico la provenienza di un prodotto o servizio da una determinata fonte imprenditoriale. Secondariamente, il marchio svolge senza dubbio anche una funzione pubblicitaria.

Ma quando quindi la funzione distintiva del marchio resiste nonostante il carattere spiccatamente pubblicitario dello stesso?

Più chiara rispetto ai precedenti citati appare l’ultima decisione in commento del Tribunale secondo cui:

“41 - È infatti sufficiente, per constatare l’assenza di carattere distintivo, rilevare che il marchio contestato indica al consumatore una caratteristica del prodotto relativa al suo valore commerciale che, senza essere precisa, deriva da un’informazione a carattere promozionale o pubblicitario che il pubblico di riferimento percepirà in primis in quanto tale, piuttosto che come un’indicazione dell’origine commerciale dei prodotti.

42 - Orbene, nel caso di specie, il pubblico di riferimento non avrà bisogno di fare alcuno sforzo interpretativo per comprendere la locuzione «go clean» come un’espressione che incita all’acquisto e che enfatizza l’attrattività dei prodotti di cui trattasi, rivolgendosi direttamente ai consumatori e invitandoli ad acquistare prodotti che offrano loro una maggiore pulizia e una migliore igiene”.

Si potrebbe dire che quindi che quando lo slogan, non è banale e scontato ma impone comunque al consumatore un certo sforzo interpretativo per coglierne il significato, lo stesso si candida ad essere accettato come marchio.

È bene ricordare che un parametro fondamentale per valutare il carattere distintivo di un segno è il “pubblico di riferimento”.

Lo slogan quindi può essere registrato come marchio se dotato di sufficiente capacità distintiva e percepito dal pubblico di riferimento, come un segno che indica la provenienza imprenditoriale di un prodotto o servizio e non solo un’espressione elogiativa o semplice messaggio promozionale: “31 Un tale marchio deve essere considerato privo di carattere distintivo se è idoneo ad essere percepito dal pubblico di riferimento soltanto come una semplice formula promozionale”.

Un suggerimento potrebbe essere quello di non effettuare subito un deposito di uno slogan, ma di attendere che lo stesso abbia acquisito una certa diffusione e notorietà tra il pubblico, un cosiddetto secondary meaning insomma, che lo renda immediatamente ricollegabile ad un certo prodotto (rectius: ad una certa fonte imprenditoriale).

In questo caso infatti la funzione distintiva del marchio “è salva” in quanto garantita dal cosiddetto secondary meaning.

Può un’opera anonima essere tutelata come marchio d’impresa?

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Secondo una recente decisione dell’EUIPO (Ufficio per la proprietà intellettuale dell’Unione Europea, 14 settembre 2020) sembrerebbe di no: a dimostrarlo è l’accoglimento da parte dell’Ufficio della richiesta di cancellazione presentata dalla società Full Colour Black Limited contro il marchio “Flower thrower” depositato nel 2014 dalla Pest Control Office Limited, società di diritto inglese sorta fra l’altro con il preciso intento di tutelare le opere dell’artista anonimo Banksi.

Il tutto ha origine quando, nel 2014, la Pest Control Office Limited decide di registrare come marchio figurativo la celebre opera “Il lanciatore di fiori” (“Flower thrower”).

La registrazione per il marchio in questione è stata richiesta per una vastissima serie di prodotti tra cui pitture, vernici, lacche; dischi, nastri; cartoleria; fotografie; manifesti; libri; pennelli; borse, valigette, portafogli, portachiavi, prodotti tessili, abbigliamento e altri ancora.

In conformità con la sua linea di azione, Banksi ha registrato l’opera presso l’EUIPO restando nell’anonimato e servendosi pertanto della società che ne cura i diritti, la Pest Control Office Limited.

Nel 2018, tuttavia la società inglese Full Colour Black Limited attiva nel settore della produzione di cartoline e altri articoli affini, propone avanti all’EUIPO una azione di nullità del citato marchio, affermando in particolare che lo stesso sarebbe stato depositato dall’artista, per mezzo della sua società, in malafede, al solo fine di poterne limitare l’utilizzo da parte di soggetti terzi e senza per contro un reale intento di usare quel marchio sui prodotti e servizi rivendicati

Con la decisione del 14 settembre 2020, l’EUIPO ha pienamente accolto tale domanda dichiarando nullo pertanto il marchio del celebre artista.

L’EUIPO secondo un iter argomentativo lineare ha solamente negato che tale immagine, quella del “Lanciatore di Fiori” che rappresenta l’opera di Banksy, possa validamente, nel caso di specie, costituire un marchio di impresa e ciò in quanto manca all’origine il fine commerciale che deve caratterizzare il marchio, la cui finalità primaria è quella di indicatore d’origine e capacità distintiva sul mercato.

In assenza di tali finalità, pertanto, deve ritenersi nulla la domanda di marchio per mala fede, il che secondo quanto stabilito dal Regolamento comunitario sui marchi di impresa, giustifica la cancellazione dal registro dei marchi depositati in tale forma.

Attenzione: ciò non significa affatto che con tale decisione vengano meno i diritti d’autore sull’opera (per quanto possa essere bizzarro parlare di diritto d’autore rispetto ad un’opera il cui autore è anonimo per sua scelta.

Marchio e diritto d’autore restano, come anche precisato dall’EUIPO in alcuni passaggi della Decisione, quanto meno in linea di principio, diritti di proprietà industriale / intellettuale distinti ed eventualmente cumulabili rispetto un determinato oggetto.





La tutela del marchio debole tra USA e Italia: i casi Booking.com e “Divani&Divani”.

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Alla fine di giugno la Suprema Corte degli Stati Uniti si è pronunciata sul caso “Booking.com” emettendo una sentenza destinata ad avere ripercussioni sulla registrazione di marchi relativi a termini generici negli Stati Uniti.

La Corte ha riconosciuto al marchio “Booking.com” - di proprietà della società Booking Holdings Inc - la possibilità di essere registrato come marchio a livello federale, nonostante la genericità del termine “booking”.

In passato, il Patent and Trademark Office non aveva concesso la registrazione del marchio Booking.com ritenendo che il marchio fosse “generico”, nonostante una qualifica specifica potesse essere dedotta dalla presenza del “.com”.

Il 30 giugno 2020 la Corte ha invece ribaltato la decisione dell’Ufficio e ha sottolineato l’importanza della percezione che i consumatori hanno del marchio e che Booking.com non è percepito dai consumatori come marchio generico.

Secondo quanto disposto dalla legge degli USA una società non può rivendicare la proprietà del nome di un’intera categoria merceologica poiché ciò costituirebbe un atto di concorrenza sleale nei confronti dei competitors e perché mancherebbe la fondamentale caratteristica della capacità distintiva.

Nel caso di Booking i giudici della Suprema Corte hanno però ravvisato la mancanza di confusione da parte dei consumatori, che nel riferirsi a Booking.com non si riferiscono ad un generico aggregatore di strutture alberghiere bensì ad uno specifico provider che identificano tramite il marchio Booking.com e che garantisce un certo livello di qualità e affidabilità.

Questa sentenza segna l’inizio di un nuovo orientamento giurisprudenziale negli USA e una vittoria per tutte le aziende che hanno investito nell’awareness di marchi deboli che utilizzano termini generici.

Per meglio comprendere la portata del dispositivo e il requisito della capacità distintiva è bene fare riferimento a due categorie di marchio che sono state elaborate in giurisprudenza: quelle marchio debole e il marchio forte.

I marchi deboli sono quelli che risultano concettualmente legati al prodotto in quanto la parola che identifica il marchio corrisponde al termine generico del prodotto o si sostanzia nelle parole generalmente utilizzate per riferirsi al prodotto in questione.

Il marchio forte, invece, non è concettualmente vincolato al prodotto e non è ad esso immediatamente riconducibile.

Il grado di tutela riconosciuto al marchio forte o al marchio debole cambia nei diversi ordinamenti ma in ogni caso al marchio debole viene garantito un livello di tutela inferiore rispetto al marchio forte.

Nel 2015 anche la Corte di Cassazione italiana si era pronunciata sulla capacità distintiva del marchio debole registrato “Divani&Divani” di proprietà della Natuzzi Spa ed era arrivata a ribaltare il precedente dispositivo emesso dalla Corte di Appello.

La Corte d’Appello nel suo giudizio non aveva considerato che, seppure il marchio “Divani&Divani” fosse un marchio debole, questo - con il passare degli anni e a seguito del suo uso commerciale – avesse acquisito una forte capacità distintiva e l’uso di un marchio omonimo da parte di una società concorrente e operante nella stessa area merceologica avrebbe inevitabilmente generato confusione tra i consumatori.

La Corte di Cassazione rilevava invece che, nonostante ”Divani&Divani” fosse un marchio che utilizza parole generiche e di uso comune, prive del carattere dell’originalità abbia acquisito un “secondary meaning” (v. Cass. n. 4294/1974, n. 2884/1985, n. 18920/2004, n. 10071/2008) e sia dotato del carattere distintivo necessario affinchè possa essere riconosciuto dai consumatori.

Queste due sentenze dimostrano come un marchio inizialmente debole e privo del carattere distintivo possa convertirsi in marchio forte a seguito sul suo intenso uso commerciale e di campagne pubblicitarie che ne fanno crescere l’awareness nel pubblico di riferimento e lo rendono distintivo e portatore di un secondary meaning.

Come il turchese di Tiffany è diventato un marchio di colore.

Gianpaolo Todisco - Partner

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Nel corso degli anni, i tribunali di tutto il mondo hanno assistito a controversie aventi ad oggetto le più svariate rivendicazioni in materia di proprietà intellettuale. Tra le stesse rivestono e hanno rivestito particolare importanza quelle riguardanti le diverse tonalità di “colore”.

Diversi brand, come ad esempio T-Mobile (magenta) e UPS (marrone scuro), hanno registrato i propri colori a riprova della loro potenza nel fidelizzare i clienti e nel comunicare l'ethos di un'azienda.

Ad ogni modo, di tutte queste rivendicazioni cromaticamente orientate, è il gioielliere e rivenditore Tiffany & Co. che ha reso un'unica tonalità di blu sinonimo di lusso.

Nel 1837, Charles Lewis Tiffany e John B. Young aprirono il primo negozio Tiffany & Young a Lower Manhattan, proprio di fronte al City Hall Park.

Prima ancora che il marchio diventasse un importante fornitore di argento, il negozio si occupava della vendita di articoli di cancelleria ed altri prodotti di alta gamma e l'ormai iconico Blue Book, pubblicato per la prima volta nel 1845, presentava già una copertina blu che aveva una tonalità più verde rispetto a quella dell'uovo del pettirosso che oggi associamo al brand. Nel corso degli anni, fino a giungere al secolo successivo, il Blue Book variò di tonalità fino al 1966 circa, quando l'azienda adottò un colore vicino al Tiffany Blue.

E’ difficile individuare il momento esatto in cui il turchese sia iniziato ad essere associato all'azienda. Non si conosce nemmeno l’esatta ragione per cui i fondatori si siano accordati su quella particolare tonalità.

Tuttavia, si ha evidenza del fatto che già nel 1889, l'azienda avesse utilizzato il colore nell'Esposizione Universale di Parigi a dimostrazione del fatto che già a quell'epoca, anche in America, il turchese era una pietra preziosa.

Questa non è un’azione banale, anzi, la scatola blu "è molto probabilmente il contenitore di vendita al dettaglio più riconoscibile e più desiderato della storia". Charles Lewis, infatti, si è sempre rifiutato di vendere le scatole da sole sostenendo che quest’ultime fossero un vero e proprio simbolo - “non si può ricevere uno dei simboli più significativi dell'amore e dell'impegno senza la scatola di Tiffany”.

D’altronde, è con l’avvento del 1998 che Tiffany & Co. ha finalmente registrato il suo colore e il suo packaging e tre anni dopo, inoltre, il brand ha collaborato con Pantone per dare vita alla sua personale tonalità, la "1837 Blue", in memoria del suo anno di fondazione.

Uno dei punti forti di Tiffany è quello di non dover aggiornare le sue strategie di branding per mantenere il suo fascino. Come ha sottolineato Davey “Tiffany si trova in una posizione rara e invidiabile, in quanto i consumatori riconoscono il marchio semplicemente vedendo il colore, senza bisogno che vi sia un’altra brand identity”.

Nessun altro colore registrato è diventato così strettamente associato al suo marchio. Tiffany & Co. può dipingere qualsiasi cosa con il colore del suo marchio, dai sassi ai taxi alle vetrine, il suo significato risuonerà sempre!

IL TENTATIVO DI NIKE DI REGISTRARE IL MARCHIO “FOOTWARE”

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 Alla fine del mese scorso, la Nike ha presentato una domanda di marchio per la registrazione presso l'US Patent and Trademark Office ("USPTO") per la parola "FOOTWARE" - da utilizzare in connessione con i moduli hardware del computer specifici della sneaker per la ricezione, elaborazione e trasmissione di dati in Internet di dispositivi elettronici di cose; dispositivi elettronici e software per computer che consentono agli utenti di interagire da remoto con altri dispositivi intelligenti per il monitoraggio e il controllo di sistemi automatici ", tra gli altri prodotti e servizi hardware e software.

Sembra che Nike abbia provato ad estendere la registrazione alla classe 25 (ad esempio, la classe di marchio che copre le scarpe). Questa è una registrazione che nemmeno la Nike probabilmente otterrebbe, perché il marchio sarebbe considerato descrittivo dei prodotti che si riferiscono alle scarpe, e quindi non registrabile.

Probabilmente Nike inizierà a “brandizzare” qualsiasi tipo di scarpe intelligenti come FOOTWARE invece che FOOTWEAR. A giudicare da quanto famoso e potente siano i be noti segni"Just Do It" e la “swoosh”, il nuovo marchio potrebbe prendere piede e, in definitiva, servire a identificare le scarpe intelligenti di Nike nel loro complesso (e non solo i loro componenti tecnologici). Per quanto riguarda la domanda, essa stessa è attualmente in attesa di revisione da parte dell'USPTO.

Se Nike riuscisse nel proprio intento, sarebbe l’inizio di una nuova forma di strategia di branding piuttosto sorprendente.

HARD BREXIT E MARCHI COMUNITARI

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L'Ufficio Marchi e Brevetti del Regno Unito ha pubblicato alcuni chiarimenti su eventuali ripercussioni che si porrebbero verificare sui marchi comunitari registrati in caso di hard Brexit (uscita in assenza un accordo con l'UE).

L’ufficio ha precisato che il Regno Unito riconoscerà tutti i marchi comunitari registrati e li trasformerà automaticamente in marchi nazionali, previa indicazione del simbolo UK009 di fronte al numero di registrazione UE.

Se da un lato non vi sarà alcun costo per i titolari interessati, dall’altro l'ufficio brevetti non rilascerà ulteriori certificazioni di validità. Eventuali informazioni sui marchi di provenienza comunitaria saranno disponibili nel database dei marchi del Regno Unito.

In relazione alle domande pendenti dei marchi comunitari, i richiedenti avranno fino a 9 mesi per presentare domande identiche per il Regno Unito. In tal caso il richiedente godrà della priorità assicurata dalla domanda di marchio comunitario.

BANSKY (LO SCONOSCIUTO) E' UN MARCHIO REGISTRATO

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Il Tribunale di Milano si è recentemente espresso sulla tutela delle opere dell’artista di street art conosciuto con lo pseudonimo di Banksy, la cui identità è, come molti forse sapranno, ignota.

 Il procedimento è stato avviato dalla Pest Control Office Ltd che ha affermato di essere il soggetto che tutela dei diritti dell’artista, per il quale cura la vendita delle opere e la realizzazione delle mostre. Pest Control Office è inoltre titolare di alcuni marchi (“Banksy”) ma anche dei segni distintivi che rappresentano alcune delle sue opere più famose, come la bambina con il palloncino rosso e il lanciatore di fiori. Pest Control ha quindi agito in giudizio contro la 24 Ore Cultura s.r.l. lamentando la violazione dei propri diritti di marchio da parte del Sole 24 Ore che ha organizzato la mostra “The art of Banksy. A visual protest”.

 In primo luogo, il titolo della mostra, avrebbe violato i diritti di Basnky sul medesimo marchio registrato. Ugualmente la violazione sarebbe stata perpetrata tramite l’utilizzo delle immagini della bambina col palloncino rosso e del lanciatore di fiori nel materiale promozionale della mostra.

 Il Tribunale da un lato ha considerato come illecito l’utilizzo dei segni in questione sul merchandising della mostra, in quanto mero uso commerciale per la promozione di generici prodotti di consumo privi di attinenza con la mostra, e quindi non considerabile come uso descrittivo lecito del marchio altrui.

 Dall’altro, invece, ha considerato che l’utilizzo del segno Banksy e di quelli corrispondenti alle opere summenzionate nel materiale promozionale della mostra costituisce un uso lecito del marchio altrui, avendo fine meramente descrittivo della mostra stessa.

 Il Tribunale ha altresì rigettato la difesa della resistente basata sul fatto che i proprietari delle opere di Banksy esposte (alias dei multipli delle sue opere di street art da lui commercializzati) avevano espressamente concesso alla resistente anche il diritto di riprodurre tali opere.

Infatti in base alla legge sul diritto d’autore infatti, “la cessione di uno o più esemplari dell’opera non importa, salvo patto contrario, la trasmissione dei diritti di utilizzazione, regolati da questa legge”. In tale contesto, precisa il Giudice, “la giurisprudenza ha già da tempo chiarito che anche la riproduzione fotografica di un’opera d’arte figurativa nel catalogo di una mostra rappresenta una forma di utilizzazione economica dell’opera pittorica e rientra nel diritto esclusivo di riproduzione riservato all’autore”.

 Nonostante quanto precede, il Tribunale ha escluso che la riproduzione non autorizzata delle opere nel catalogo costituisse anche concorrenza sleale ai danni della resistente. Tale fattispecie, infatti, richiede non solo il comportamento illecito, ma anche che questo possa effettivamente causare un danno a carico del concorrente che lamenta l’illecito.

 Accertato quindi che l’unico illecito ascrivibile alla resistente è l’uso dei marchi della ricorrente su prodotti di merchandising, il Tribunale ha inibito l’ulteriore commercializzazione degli articoli di merchandising in questione, con fissazione di penale e condanna della resistente al pagamento di parte delle spese legali sostenute dalla ricorrente.

IL CASO DEL MARCHIO DELLA PIZZERIA DA MICHELE

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Recentemente la sezione specializzata delle imprese del Tribunale di Napoli si è dovuta occupare del caso degli eredi di Michele Condurro fondatore della Pizzeria da Michele e che vantavano diritti sul omonimo marchio d’impresa.

 Michele Condurro ha fondato la pizzeria che porta il suo nome ubicata nel popolare quartiere di Forcella nel lontano 1870 e negli anni la sua pizza è diventata tanto famosa tanto da essere citata anche da Julia Roberts nel film Eat Pray love.

 Recentemente gli eredi di Michele Condurro si sono confrontati sul diritto all’uso del marchio “Da Michele” che è diventato oggetto di contesa da parte di un ramo della famiglia che rivendicava il diritto di usarlo per l’apertura di diverse filiali in Italia e all’estero.

 Casi simili si sono verificati con il pizzaiolo Gino Sorbillo e sta accadendo anche con il marchio SaldeRiso, che vede il pluripremiato pasticcere Salvatore de Riso in causa con il fratello.

 Così dopo la registrazione della società e dei domini internet, è partita nel 2016 la causa per il riconoscimento e l’uso esclusivo del nome “Da Michele”.

 Il Tribunale ha infine sancito che il diritto esclusivo all’uso del nome su tutto il territorio nazionale e internazionale spetta agli eredi Condurro che gestiscono la pizzera Da Michele con sede a Forcella e ha imposto la rimozione di insegne, domini e attività social. La sentenza ha da ultimo riconosciuto che il nome svolge una specifica funzione individualizzante, che si è rafforzata nel tempo attraverso il mantenimento di un elevato standard qualitativo, dando luogo a un marchio forte e i diritti a usare tale marchio, ricadono su chi per primo lo ha adottato e usato.

IL MARCHIO DI COLORE PURPLE (RAIN).

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Pantone è una nota un'azienda statunitense che si occupa principalmente di tecnologie per la grafica, della catalogazione dei colori e della produzione del sistema di identificazione di questi ultimi.

Nell’agosto 2017 Pantone ha depositato un nuovo colore denominato “Purple One, Love Symbol #2” in omaggio allo scomparso Prince Rogers Nelson noto ai più come semplicemente “Prince” o il folletto di Minneapolis scomparso nel 2016 a soli 59 anni.

L’operazione di Pantone segue la riedizione restaurata del film Purple Rain la cui colonna sonora venne appunto composta da Prince nel 1984.

Dopo questi recenti avvenimenti, la Paisley Park Enterprises società che detiene i diritti di immagine di Prince ha depositato presso l’USPTO (l’ufficio brevetti e marchi statunitense) un marchio di colore consistente in una particolare tonalità di viola.

Forse non tutti sanno che tra i segni che possono costituire oggetto di registrazione come marchio, il Codice della Proprietà Industriale comprende anche le combinazioni o le tonalità cromatiche, ovviamente sull’imprescindibile presupposto che esse siano atte a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese.

Del resto, i colori e le combinazioni cromatiche sono, oramai, sempre più utilizzati dalle imprese per identificare i propri prodotti nel mercato; non è un caso che spesso si faccia riferimento al “blu” Tiffany o al “rosso” brillante delle suole delle calzature Louboutin.

Giurisprudenza e dottrina maggioritarie tendono ad escludere la registrabilità dei colori c.d. puri o tonalità di colori in sé; principio affermato, peraltro, già nel 2003 dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, nel caso “Libertel” relativo all’utilizzo del colore arancione per servizi di telecomunicazioni.

Più recentemente il Tribunale di Milano ha sancito che la registrazione di un marchio di colore specifico può essere ammessa solo ove la stessa non restringa indebitamente la disponibilità di colori per gli altri soggetti che offrano prodotti o servizi del medesimo genere di quelli oggetto della domanda di registrazione.

Per quanto riguarda domanda di Prince, questa verrà esaminata dall’USPTO e poi pubblicato nella nel bollettino, dando così la possibilità ad altre parti che ritengono che saranno danneggiati dalla registrazione del marchio l'opportunità di opporvisi.

 

 

 

Vogue cita in giudizia Black Vogue

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Vogue Magazine (Advance Publications Parent company di Condé Nast USA) ha recentemente citato in tribunale il brand Black Vogue per contraffazione di marchio. Advance Publications, si è rivolta al tribunale federale di New York per dare il via a una causa contro la stilista Nareasha Willis di aver riportato su alcuni dei capi da lei messi in vendita il marchio “Black Vogue” senza autorizzazione. Secondo Advance Publications, infatti, la Willis starebbe utilizzando un marchio (Black Vogue) facilmente confondibile, per nome e per grafica, con il più celebre “Vogue” di Condé Nast, rischiando così di creare un collegamento, nella realtà inesistente, tra le due realtà.

Negli scorsi mesi, la Willis avrebbe già provato a registrare il marchio, ricevendo però un rifiuto da parte dell’Us Patent and Trademark Office, in quanto confondibile con i marchi Vogue già registrati da Advance Publications.

Concessa la registrazione del marchio "Steve Jobs" per la produzione di abbigliamento.

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L'Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) ha recentemente confermato una sua precedente decisione di concedere la registrazione del marchio STEVE JOBS, a nome di due fratelli napoletani, Vincenzo e Giacomo Barbato.

La registrazione del marchio non riguardava solo la parola STEVE JOBS, ma anche una stilizzazione e una lettera molto particolare J, che probabilmente ricorda ai consumatori il logo di un'altra azienda.

Nel 2012 i due fratelli napoletani notarono che Apple aveva trascurato la registrazione del nome del suo fondatore come marchio e, pertanto depositarono domanda di registrazione di marchio come mostrato sopra prima dell'EUIPO (numero di registrazione 011041861), in International Classes 9, 18, 25 , 38 e 42.

Apple Inc. ha prontamente opposto la domanda di registrazione avanti all'EUIPO, sostenendo che la lettera J era una copia del marchio Apple di Apple Inc., con un disegno molto simile e un morso , come questo:

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Dopo anni di discussioni, l'EUIPO si è pronunciata a favore dei fratelli Barbato, sostenendo che la lettera J non è commestibile, e di conseguenza non vi è alcuna relazione tra la mela morsicata dell'azienda tecnologica e la lettera J "morsa" ideata dai fratelli italiani.

Di conseguenza, la registrazione è stata ammessa e quindi è iniziata la commercializzazione di capi di abbigliamento  con il marchio STEVE JOBS.

La domanda di marchio STEVE JOBS è stata depositata  anche negli USA davanti all'USPTO (numero di serie 79141888), ma l’ufficio ha rigettato la domanda dei due fratelli napoletani. 

La battaglia legale tedesca intorno al marchio Black Friday.

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Dal 1952, il Black Friday, generalmente conosciuto come il giorno successivo al Giorno del Ringraziamento, viene considerato l'inizio della stagione dello shopping natalizio negli Stati Uniti. Oggi i rivenditori di diversi paesi in tutto il mondo offrono vendite promozionali durante il fine settimana del Black Friday. In Germania, Apple è stata la prima azienda a gestire una speciale campagna per il Black Friday per il mercato tedesco fin dal 2006.

Sull’onda della accresciuta notorietà del Black Friday, nel  2013 è stata presentata in Germania una domanda per la protezione del marchio Black Friday dalla Super Union Holdings Ltd. Co. Società con sede ad Hong Kong, che ha concesso in licenza il marchio "Black Friday" alla Black Friday GmbH, una società con sede a Vienna.

Dal 2016, la Super Union Holdings Ltd. ha iniziato ad attaccare le società che utilizzano il termine Black Friday inviando avvertimenti, come ad esempio il mercato statunitense del commercio elettronico Groupon nel 2016, nonché ai titolari della piattaforma black-friday.de, che presenta offerte del Black Friday.

Nel 2017, Super Union Holdings Ltd. ha citato in giudizio Amazon per l'uso del segno "Black Friday" in Germania avanzando, tra l'altro, richieste di danni.

Certo, alcune aziende, colpite dagli attacchi di Super Union Holdings Ltd., hanno iniziato a reagire e ad oggi sono pendenti più di dodici azioni di cancellazione pendenti contro il marchio tedesco Black Friday.

Di recente il tribunale di Dusseldorf ha emesso un’ordinanza in cui negato il diritto di privativa al titolare del marchio Black Friday.

In Germania vige, come in tanti altri paesi, il principio secondo cui un marchio può essere cancellato se il segno è descrittivo ed il cuore della battaglia legale sembra proprio ruotare intorno a tale principio.

A breve si avranno nuovi sviluppi.

Edera Blu.

In queste settimane è in corso una curiosa battaglia legale tra due star della musica internazionale e una compagnia californiana, la  per la registrazione di un marchio: “Blue Ivy” ovvero il nome della figlia di cinque anni di Beyonce e Jay-z. I due cantanti avevano già provato, ai tempi della nascita della bambina, a registrare il suo nome come marchio ma la società di Los Angeles si era opposta, facendo valere i propri diritti sul medesimo nome, già operativo da molti anni. Oggi, Beyoncè e Jay-z hanno inoltrato una nuova richiesta di registrazione aggiungendo al nome della piccola anche il cognome del papà rapper, Mr. Carter. Questa volta, il marchio, disponibile per la visualizzazione sul database statunitense per i marchi e i brevetti, copre moltissime categorie di prodotti, dal mercato del beauty a quello dei prodotti per bambini, ma anche DVD, CD, borse, libri e anche carte da gioco e "performance musicali dal vivo". Secondo il database, la richiesta di registrazione è stata originariamente presentata nel gennaio 2016, ma è stata disponibile per l'opposizione solo il 10 gennaio di quest'anno. E infatti, la società della California si è nuovamente opposta a questo secondo tentativo di registrazione, statuendo che i due celebri genitori vorrebbero procedere con la registrazione del marchio unicamente per impedire a qualcun altro di utilizzare il nome della bambina, senza poter provare l’utilizzo che ne verrà poi effettivamente fatto sul mercato. In effetti, a differenza di quanto è previsto nel nostro ordinamento, secondo la legge sul marchio degli Stati uniti, requisito essenziale per la registrazione di un marchio è la presentazione, al momento della domanda, di un cosiddetto “statement of use” cioè di una dichiarazione che dimostri l’utilizzo del marchio sul mercato statunitense. Qualora si tratti di una società da poco aperta che non ha ancora cominciato ad operare e vendere negli Stati Uniti, la domanda di registrazione del marchio viene accolta in via temporanea. Entro sei mesi la registrazione viene eventualmente confermata a seguito della prova d'uso in commercio negli Stati Uniti.

La prova d'uso si concretizza con la prova della vendita di un prodotto, oppure con la stampa di cataloghi per il mercato americano, con annunci pubblicitari, ecc. In italia, invece, l’utilizzo del marchio non è requisito essenziale per la sua registrazione, ma condizione per il mantenimento della sua validità. Il legislatore, all’articolo 24 del Codice della Proprietà Industriale, ha espressamente disciplinato il caso della decadenza del marchio per “non uso” se il titolare di un marchio registrato in una determinata classe, non lo utilizza per 5 anni di seguito sui prodotti e i servizi previsti per quella classe. In entrambi i casi, la ratio della norma è quella di impedire ad un soggetto di far proprio un segno distintivo senza utilizzarlo in maniera effettiva, sottraendolo al mercato ed impedendo ad altri di farne uso.

Cavalli vs Cavalli

Il Tribunale di Catania, sezione delle imprese, ha condannato Roberto Cavalli al pagamento delle spese processuali, nel procedimento contro la Signora Luciana Cavalli, artigiana siciliana, produttrice di scarpe.

Il noto stilista fiorentino, ormai sei anni fa, aveva convenuto in giudizio l’omonima signora per uso improprio del marchio “Cavalli”. Non importa, infatti, che l’artigiana siciliana si chiami davvero Cavalli e che il suo brand sia addirittura antecedente quello del signor Roberto, per lo stilista il cognome è usato a sproposito e si è in presenza di un caso di concorrenza sleale.

Infatti, Roberto Cavalli ha chiesto al giudice di accertare un danno economico a suo danno e di risarcirlo con una somma di 10mila euro per ogni giorno di uso improprio del marchio, ex articolo 2600 del Codice Civile.

Il tribunale però ha rigettato le domande attoree e, come spiega l’avvocatessa della Signora Cavalli, ha premiato la buona fede e la continuità nell’utilizzo del marchio Cavalli da parte della produttrice di scarpe e accessori.

Quest’ultima, quindi, non dovrà ritirare il suo nome dal mercato e potrà continuare a produrre pelletteria made in Italy.

La sentenza siciliana si pone in netto contrasto con quanto stabilito nel maggio 2016 dalla Corte di Cassazione suFiorucci. In quel caso, i giudici giudicarono illecito l’utilizzo da parte dello stilista del marchio Love Therapy by Elio Fiorucci, in quanto il marchio Fiorucci era stato dallo stesso precedentemente venduto ad un gruppo giapponese. In quel caso, dunque, si giudicò che l’utilizzo del nome, anche se il proprio, non è lecito se questo costituisce un marchio patronimico di proprietà di terzi. Può infatti accadere, ha spiegato la Corte, che si generi un effetto agganciamento e che questo, generando confusione, interferisca con il marchio più celebre.

Il Made in Italy come marchio unico nazionale.

Ormai da qualche tempo, tra i produttori italiani, si parla della possibilità di creare un brand nazionale,  il “Made in Italy”, attraverso il quale garantire l’italianità del processo produttivo, a partire dalle materie prime. 
Il progetto di “Certificazione volontaria di conformità d’Origine e tipicità italiana” è ambizioso e mira ad accrescere il potere attrattivo dell’offerta nazionale, come brand di sistema che valorizzi i prodotti, le produzioni e l’offerta nazionale di beni e servizi.

L’iniziativa è di Conflavoro, che ha stipulato un accordo con l’ente di certificazione mondiale Lluyd’s Register, il quale dovrà rilasciare la certificazione. Il meccanismo di tutela e certificazione è sottoposta ad un doppio controllo: quello di un Organo Interno di Vigilanza, costituito ad hoc da Conflavoro e quella del Comitato Tecnico Scientifico di Indirizzo e Sviluppo del Marchio Unico Nazionale, costituito da personalità esterne all’organizzazione, provenienti dal mondo dell’imprenditoria, dell’università e delle associazioni di rappresentanza dei consumatori.

In particolare, il mercato che più sembra interessato al progetto, è quello alimentare. Il brand unico sarebbe infatti apposto alle confezioni di prodotti alimentari e garantirebbe non solo una tutela nei confronti del sistema di contraffazione, ma anche una risposta alle sempre più stringenti richieste dei consumatori in tema di qualità e salubrità del food and beverage.
Il “Made in Italy” diventerebbe così segno di autenticità e tracciabilità di prodotti italiani e, se possibile, anche simbolo di un’innovazione che coniuga gusto e genuinità.

L'immagine di Marylin Monroe come marchio registrato.

Lo scorso 9 novembre 2016, la Marilyn Monroe Estate ha citato in giudizio un’azienda di abbigliamento newyorkese per essersi illegittimamente servita del marchio “Marilyn Monroe”, di cui la prima è titolare, attraverso l’utilizzo dell’immagine della celebre attrice.

La Marilyn Monroe Estate ha registrato presso il PTO (The United States Patent & Trademark Office) l’esclusiva proprietà dell’immagine, del nome, dell’identità e delle rappresentazioni di Marilyn, nonché il diritto di concedere la licenza di questi diritti a terze parti. 
The Estate of Marilyn Monroe è, dunque, detentrice e licenziataria del marchio Marilyn Monroe, che continuativamente e da oltre trent’anni utilizza sui mercati. Questa circostanza rende il marchio incontestabile, conferendogli una maggiore garanzia di tutela. 

Per questi motivi, la Monroe Estate ha chiesto che venissero accertate le violazioni previste dal Lanham Act, 15 U.S.C. 1051 ss, dallo Statuto di New York e dalle altre leggi applicabili di Common Law, e che venisse risarcito il danno cagionato, in termini di sfruttamento e diluizione del marchio, nonché di concorrenza sleale.

Poco importa, dunque, che il nome di Marilyn non venga effettivamente utilizzato in commercio dalla società convenuta: l’immagine della più famosa diva di tutti i tempi, quando usata come segno distintivo o marchio, rientra tra i “Monroe Rights” di proprietà dell’attore.
Più in particolare, come si evince anche da una precedente pronuncia giurisprudenziale*, è necessario distinguere la violazione dei diritti di sfruttamento del marchio dai diritti di sfruttamento dell’immagine. Solo la prima fattispecie, infatti, per essere integrata richiede che il consumatore sia indotto a credere che l’utilizzo del marchio sia stato autorizzato dal titolare. 
E proprio su questo punto, la Monroe Estate precisa che una confusione tra i consumatori e i rivenditori c’è stata: in molti avrebbero infatti contatto la società credendo che i prodotti della convenuta fossero stati approvati, autorizzati o sponsorizzati dalla società proprietaria del marchio.

Nel caso concreto, dunque, mentre potrebbe essere difficilissimo, o addirittura impossibile, provare una violazione del marchio visto che il marchio non è stato usato, l’articolo 1125 (a) 15 U.S.C dà ampio potere all’attore per intentare una richiesta legittima. 
Infatti, la legge federale americana sul marchio è rivolta alla tutela del consumatore. Se si è in presenza di una effettiva confusione all’interno del pubblico dei consumatori ci dovrebbe essere anche un rischio di confusione, che è la fattispecie riconducibile alle previsioni dell’articolo 1125(a) U.S.C. 
L’esistenza di effettiva confusione contestuale alla presenza di un marchio registrato dovrebbe assicurare l’applicazione dell’articolo sopra citato, garantendo alla Monroe Estate di vedere accolta la propria domanda.

*A.V.E.L.A., Inc v. The Estate of Mailyn Monroe