Bando Marchi 2022

SCADENZA: Apertura sportello dalle ore 9:30 del 25 ottobre 2022 e fino all’esaurimento delle risorse disponibili

FONDI DISPONIBILI: 2 Milioni di Euro

Una quota pari al 5% delle risorse finanziarie disponibili è destinata alla concessione delle agevolazioni ai soggetti proponenti che, al momento della presentazione della domanda di accesso alle agevolazioni, sono in possesso del rating di legalità.

BENEFICIARI e REQUISITI AMMISSIBILITA'

  • MPMI – Micro, Piccole e Medie imprese
  • con sede legale ed operativa in Italia
  • che siano regolarmente costituite, iscritte nel Registro Imprese e attive
  • che non siano in stato di liquidazione o scioglimento e sottoposte a procedure concorsuali
  • che siano titolari del marchio oggetti della domanda di partecipazione

Agevolazioni dirette a favorire la registrazione di marchi comunitari presso l'EUIPO (Ufficio dell'Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) e la registrazione di marchi internazionali presso l'OMPI (Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale).

Il programma prevede due linee di intervento:

Misura A – Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi dell'Unione Europea presso l'EUIPO(Ufficio dell'Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) attraverso l'acquisto di servizi specialistici.

Misura B- Agevolazioni per favorire la registrazione di marchi internazionali presso OMPI(Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale) attraverso l'acquisto di servizi specialistici.

MISURA A

Requisiti di ammissibilità:

  • aver effettuato, a decorrere dal 1° giugno 2019, il deposito della domanda di registrazione presso EUIPO del marchio oggetto dell’agevolazione e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di deposito;

NONCHE’

  • aver ottenuto la registrazione, presso EUIPO, del marchio dell’Unione europea oggetto della domanda di partecipazione. Tale registrazione deve essere avvenuta in data antecedente la presentazione della domanda di partecipazione;

Per la Misura A, le agevolazioni sono concesse nella misura del 80% delle spese ammissibili sostenute per le tasse di deposito e delle spese ammissibili sostenute per l’acquisizione dei servizi specialistici e nel rispetto degli importi massimi previsti per ciascuna tipologia e comunque entro l’importo massimo complessivo per marchio di euro 6.000,00.

MISURA B

Requisiti di ammissibilità:

Aver effettuato, a decorrere dal 1° giugno 2019, almeno una delle seguenti attività:

  • Il deposito della domanda della registrazione presso OMPI di un marchio registrato a livello nazionale presso UIBM o di un marchio dell'Unione Europea registrato presso EUIPO e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;
  • Il deposito della domanda di registrazione presso OMPI di un marchio per il quale è già stata depositata domanda di registrazione presso UIBM o presso EUIPO e avere ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;
  • il deposito della domanda di designazione successiva di un marchio registrato presso OMPI e aver ottemperato al pagamento delle relative tasse di registrazione;

NONCHE'

  • Aver ottenuto la pubblicazione della domanda di registrazione sul registro internazionale dell'OMPI (Madrid Monitor) del marchio oggetto della domanda di partecipazione. La pubblicazione della domanda di registrazione del marchio sul registro internazionale dell'OMPI deve essere avvenuta in data antecedente la presentazione della domanda di partecipazione.

Per la Misura B, le agevolazioni sono concesse nella misura dell’90% delle spese ammissibili sostenute per l’acquisizione dei servizi specialistici e per le tasse di registrazione nel rispetto degli importi massimi previsti per ciascuna tipologia e comunque entro l’importo massimo complessivo per marchio di euro 9.000,00.

Per la misura B, per le domande di registrazione internazionale depositate dal 1° giugno 2019 per uno stesso marchio è possibile effettuare designazioni successive di ulteriori Paesi; in tal caso le agevolazioni sono cumulabili fino all’importo massimo per marchio di € 9.000,00.

Per la misura B, per le domande di registrazione internazionale depositate prima del 1° giugno 2019 è possibile richiedere agevolazioni esclusivamente per le designazioni successive effettuate dopo il 1° giugno 2019; in tal caso l’importo massimo delle agevolazioni per marchio è di € 4.000,00.

Ciascuna impresa può presentare più richieste di agevolazione, sia per la Misura A sia per la Misura B, fino al raggiungimento del valore complessivo di € 25.000,00.

Per uno stesso marchio è possibile cumulare le agevolazioni previste per le misure A e B (qualora nella misura B non si indichi l’Unione europea come Paese designato) nel rispetto degli importi massimi indicati per marchio e per impresa. Per lo stesso marchio è possibile presentare in un’unica domanda la richiesta di agevolazione sia per la Misura A sia per la Misura B.

Qualora un’impresa possa richiedere l’agevolazione per più marchi, occorre che venga presentata una domanda per ciascuno di essi, pena l’inammissibilità della domanda stessa.

Le agevolazioni di cui al presente Bando non sono cumulabili, per le stesse spese ammissibili o parte di esse, con altri aiuti di Stato o aiuti concessi in regime de minimis o agevolazioni finanziate con risorse UE (es. EUIPO – IDEAS POWERED FOR BUSINESS). Tuttavia, nel limite del 100% delle spese effettivamente sostenute, le agevolazioni sono fruibili unitamente a tutte le misure generali, anche di carattere fiscale, che non sono aiuti di Stato e non sono soggette alle regole sul cumulo.

PRESENTAZIONE DOMANDA

  • La domanda di partecipazione è compilata esclusivamente tramite la procedura informatica e secondo le modalità indicate al sito www.marchipiu2022.it.
  • La domanda di partecipazione è presentata a partire dalle ore 9:30 del 25 ottobre 2022 e fino all’esaurimento delle risorse disponibili.
  • La domanda di partecipazione, generata dalla piattaforma informatica deve essere firmata digitalmente dal legale rappresentante dell’impresa richiedente l’agevolazione ovvero dal procuratore speciale delegato sulla base di apposita procura speciale.

Clovers rimane a disposizione dei clienti per fornire tutta l’attività di consulenza necessaria.

You deserve a break (from franchising) today!

All’inizio dell’estate l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) ha chiuso un procedimento nei confronti della nota catena di fastfood McDonald's per abuso di dipendenza economica (in violazione dell'art. 9 della Legge n. 192/1998), accettando gli impegni presentati dalla parte indagata per eliminare le possibili distorsioni concorrenziali sul mercato.

Come emerge dalla relazione annuale presentata da Agcm, l’Autorità Garante ha avuto molte occasioni negli ultimi due anni di occuparsi di situazioni di abuso di dipendenza economica: si pensi, ad esempio, ai casi che hanno riguardato Benetton, Poste Italiane e WindTre.

La legge italiana che regola questa materia stabilisce che - a prescindere dalla dominanza o meno su di un mercato - l’abuso di dipendenza economica si verifica quando la “parte forte” di un rapporto contrattuale riesce a determinare determinare un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi con la società dipendente, che può riverberarsi, nel tempo, sull’equilibrio stesso del mercato interessato e provocare, ad esempio, prezzi più alti o minor qualità e innovazione dal lato dell’offerta.

L’istruttoria nei confronti di McDonald’s si inserisce nell’ambito dei rapporti di franchising della catena: in questo caso, gli ex franchisee, parte debole della relazione contrattuale, lamentavano di essersi visti imporre condizioni contrattuali molto rigide e di essere stati assoggettati a tutta una serie di controlli che rendevano, di fatto, impossibile agire con quell’autonomia imprenditoriale che dovrebbe astrattamente caratterizzare il rapporto di franchising.

Formazione a carico dei potenziali franchisee, patto di non concorrenza per tutto il settore di ristorazione, impossibilità di derogare negozialmente allo standard contrattuale proposto e imposizione di una soglia minima di investimenti pubblicitari annui erano solo alcune delle restrizioni che, a detta dei segnalanti, avrebbero sostanziato l’abuso denunciato.

Questi elementi evidenziati nella segnalazione degli ex franchisee sono stati ritenuti sufficienti da Agcm per avviare un’istruttoria a fronte della quale McDonald ha scelto di avvalersi della facoltà di proporre impegni vincolanti al proprio operato e di sottoporli al c.d. “market test”, ovvero alla pubblicazione dei medesimi per consentire ai concorrenti di prendere posizione sull’efficacia o meno delle soluzioni proposte.

In particolare, gli impegni di McDonald avevano ad oggetto l’eliminazione dei costi di formazione a carico dei potenziali franchisee, l’abbassamento del livello di investimento pubblicitario minimo richiesto, la possibilità di negoziare modifiche allo standard contrattuale proposto e l’eliminazione di gran parte delle restrizioni previste nella versione originale del patto di non concorrenza.

Il superamento del market test e l’approvazione finale degli impegni vincolanti proposti da Agcm ha consentito al McDonald’s di chiudere il procedimento senza che fosse irrogata una sanzione pecuniaria, ma, considerata la natura pubblica del potere di Agcm di irrogare sanzioni, l’accettazione degli impegni a chiusura dell’istruttoria non mette al riparo la parte dalla possibilità che gli ex franchisee promuovano un giudizio civile per ottenere il risarcimento del danno dinnanzi all’autorità giudiziaria ordinaria (Ago).

Il Tribunale di Torino si esprime sulla proteggibilità del segno K-way come marchio tra l’eccezione di esaurimento e tematiche di ambush marketing

Recentemente la sezione specializzata del Tribunale di Torino si è espressa in un caso molto interessante che ha riguardato l’applicazione della scriminante prevista in tema di esaurimento del marchio a fronte di una difesa che invocava il pericolo del c.d ambush marketing.

Le parti in causa sono state da un lato la Basicnet, leader nel settore della produzione di abbigliamento e titolare del marchio KWAY e dall’altro la FIFA e la Sony.

Basicnet si era accorta che, nel periodo dal 14 giugno al 15 luglio 2018, nel video ufficiale della canzone scelta come colonna sonora del campionato del mondo di calcio svoltosi in Russia, intitolata “LIVE IT UP” (FIFA World Cup 2018), il cantante Nicky Jam indossava un giubbotto K- WAY. Il marchio K-WAY, impresso dal produttore, era però dapprima offuscato nel video, e poi del tutto eliminato.

Il video è stato visibile per tutto il periodo di svolgimento del campionato mondiale ed al momento dell’introduzione della causa era raggiungibile sul sito web della UEFA e su varie piattaforme digitali tra cui il canale Youtube.

Il contesto della vicenda si inserisce nel contesto della promozione e sponsorizzazione del campionato del mondo di calcio, nell’ambito del quale Sony aveva avuto dalla FIFA l’incarico di realizzare e produrre fra l’altro, il brano musicale e il correlato video ufficiale del Campionato Mondiale di Calcio che si sarebbe svolto in Russia nel 2018, e, nell’ambito di tale incarico, aveva stabilito contrattualmente con il committente ogni dettaglio relativo alla produzione e realizzazione della colonna sonora, anche con riferimento alle esclusive che gli sponsor del Campionato Mondiale di Calcio si erano assicurate.

Una volta firmato il contratto con la FIFA, Sony girava il videoclip della canzone ufficiale della manifestazione interpretato dal cantante Nicky Jam. Il giorno delle riprese il cantante si era recato sul set indossando un giubbotto K-way molto particolare per la foggia ed i colori nonché per essere marchiato con un enorme logo K-Way oltre che dalla tradizionale cerniera colorata che contraddistingue i prodotti K-Way.

I responsabili Sony presenti rappresentavano subito al cantante che non sarebbe stato possibile inquadrare il giubbotto in quanto non vi era l’autorizzazione del produttore della giacca sfoggiata da Nicky Jam e che la stessa Basicnet avrebbe potuto essere accusata di ambush marketing da parte della autorità russe.

Più precisamente i responsabili della Sony rappresentarono al cantante che il giubbotto non avrebbe potuto essere inquadrato in ragione degli impegni contrattuali assunti dalla FIFA nel rispetto dei diritti di esclusiva degli sponsor ufficiali del mondiale di calcio tra cui non vi era la Basicnet.

Sony aveva inoltre rappresentato al cantante che l’utilizzo del marchio K-Way avrebbe potuto condurre a contestazioni da parte delle stesse autorità russe in ragione dell’illecito accostamento alla manifestazione di un marchio ad essa estraneo. A fronte, peraltro, del rifiuto del cantante a girare il video togliendosi il giubbotto Sony decise allora, come soluzione di ripiego, di oscurare il logo in fase di post produzione per cui una volta girato il video il logo K-Way venne cancellato elettronicamente dal giubbotto.

Il video così realizzato veniva anche caricato sul canale Youtube dell’artista.

Accortasi del fatto, Basicnet aveva richiesto a Sony e a FIFA l’immediato ritiro del video e il ripristino del marchio sul giubbotto asserendo che l’alterazione del marchio dell’attrice operata dalle convenute FIFA e Sony costituiva una violazione dei diritti di privativa del K-way a livello nazionale e comunitario, nonché integra una impostesi di concorrenza sleale

Secondo la difesa di Basicnet l’utilizzazione di un capo con apposto un marchio registrato doveva rispettare, anche nella fase post-vendita, la scelta del legislatore di tutelare il marchio registrato non solo contro il rischio di confusione quanto all’origine, ma anche contro l’erosione del valore promozionale incorporato nel segno, qualora di detto segno fosse stato fatto un uso a scopo di lucro.

Secondo parte attrice il comportamento in esame aveva determinato altresì un danno per l’immagine di prestigio dei prodotti e la rinomanza del marchio anche in considerazione del fatto che ogni manipolazione di un marchio è idonea a costituire fonte di lucro sia diretta che indiretta per chi la mette in atto. Sulla base di tali argomentazioni Basicnet chiedeva una inibizione della circolazione del video ed una liquidazione del danno in via equitativa.

Le difese delle parti convenute hanno da parte loro invocato il c.d. principio di esaurimento del marchio sostenendo che tale violazione non sarebbe sussistente laddove la cancellazione del logo sarebbe avvenuta su un prodotto appartenente al cantante e da questi indossato e non destinato, quindi, alla commercializzazione. Per questa ragione non avrebbero potuto trovare applicazione nella specie i principi di eccezione al principio di esaurimento del marchio, difettando in ogni caso l’elemento soggettivo della violazione in quanto la decisione di procedere alla cancellazione elettronica del logo sarebbe avvenuta a seguito della necessità di rispettare i protocolli per evitare la violazione dell’esclusiva riconosciuta agli sponsor dell’evento sportivo.

Inoltre le parti convenute argomentavano che gli organizzatori di tali eventi sono usuali bersagli del c.d. “ambush marketing”, ovvero di quelle attività promozionali promosse a danno degli sponsor ufficiali da parte di altri brand che non sono sponsor ufficiali e che, spesso approfittando dell’assenza di una specifica legislazione, tentano di “agganciarsi” alla manifestazione ed ottenere visibilità con un'azione di marketing non convenzionale.

La giurisprudenza di merito italiana ha già avuto modo di affermare che “ricorrono i "motivi legittimi perché il titolare del marchio si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti", come eccezione al c.d. "principio di esaurimento" in caso di rimozione del codice identificativo apposto sulle bottiglie di un prodotto (nella specie: un distillato). Ed invero, siffatta rimozione era idonea a ledere la reputazione del marchio e del suo titolare, se non altro per l'immagine di minor pregio che le bottiglie manipolate trasmettono ai consumatori, con ricadute negative, per il segno, anche sui prodotti commercializzati integri. Ne consegue che è irrilevante l'area, comunitaria o extracomunitaria, di immissione in commercio delle bottiglie in questione, dal momento che vi sono state alterazioni/manipolazioni della confezione e del prodotto” (Tribunale di Torino 12.5.2008).

Ancora si è affermato che “l'uso del marchio successivo alla prima immissione in commercio del prodotto incorporante il diritto non deve essere causa di detrimento alla reputazione e al prestigio collegati al segno distintivo, ciò costituendo motivo legittimo a che l'esaurimento del diritto non si verifichi” (Tribunale di Bologna 26.3.2010).

A parere della Corte, nel caso di specie la Sony, in sede di post produzione del video, ha pacificamente oscurato il logo K-Way posto sul giubbotto oggetto di causa che aveva indubbiamente una funzione particolarmente caratterizzante il prodotto in oggetto anche tenuto conto delle notevoli dimensioni di tale logo.

La Corte ha ritenuto chiaro che l’utilizzazione digtale del prodotto, oscurato del logo, costituisse una lesione del marchio stesso e, in particolare, della sua reputazione e del suo prestigio. Sotto tale profilo deve, quindi, ritenersi integrata la violazione degli artt. 5 Cpi e 13 Rmue, atteso che nessuna autorizzazione da parte dell’attrice, titolare dei marchi in oggetto, a tale oscuramento era stata concessa né espressamente né tacitamente.

A parere del Tribunale di Torino non può essere condiviso quanto sostenuto dalla convenuta in merito alla insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle citate disposizioni esimenti in quanto non vi sarebbe stata alcuna immissione in commercio del giubbotto essendo lo stesso stato acquistato dal cantante ai fini del proprio personale godimento. L’eccezione non è stata ritenuta pertinente in quanto se è vero che non risulta contestata l’appartenenza del giubbotto al cantante, vero è anche che proprio con l’utilizzo di quel giubbotto e all’alterazione del marchio che lo contraddistingue che il video è stato girato e diffuso a livello mondiale, vista la risonanza dell’evento, con tutte le conseguenti ricadute commerciali a vantaggio, anche delle convenute.

Appare evidente, quindi, a parere della Corte che nel caso di specie non vi è stata alcun esaurimento del marchio atteso che il giubbotto, pur appartenendo al cantante, non è stato utilizzato a scopo di mero godimento nell’ambito della fisiologica immissione nel circuito economico ma specificamente al fine di realizzare un video destinato alla promozione di un evento di rilevanza mondiale quale il Mondiale di calcio Russia 2018.

Realizzazione e diffusione di tale video che sono avvenute proprio ad opera delle parti convenute.

Né può trovare ancora accoglimento la tesi secondo cui gli illeciti commessi difetterebbero dell’elemento soggettivo, laddove dalla stessa narrazione dei fatti operata dalla parte convenuta emerge inequivocabilmente come la stessa fosse ben consapevole del comportamento tenuto essendo l’oscuramento stato eseguito proprio dalla Sony al fine di aggirare i divieti di utilizzo di prodotti non riferibili agli sponsor ufficiali della manifestazione. Secondo il Tribunale di Torino, la posizione della parte attrice è, pertanto, da riconoscersi meritevole di tutela non sotto il profilo di un suo diritto a vedere accostato il suo marchio alla manifestazione sportiva in oggetto, diritto peraltro neppure reclamato dalla stessa attrice, bensì sotto il profilo del diritto della stessa a non vedersi alterare il logo del proprio prodotto e, conseguentemente, a non vedersene ledere il prestigio e il valore promozionale.

Sotto tale profilo, pertanto, la condotta posta in essere dalle parti convenute è da ritenersi contrastante con i principi di cui agli artt. 5 Cpi e 13 Rmue nonché di cui allo stesso art. 20 Cpi, rappresentando l’oscuramento del logo una ipotesi di contraffazione.

Il comportamento rileva, inoltre, anche sotto il profilo della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. in quanto è pacifico che Basicnet operi anche sul mercato della promozione di video pubblicitari dei propri prodotti e la diffusione di un video contenente un prodotto Basicnet modificato senza il suo consenso in modo da alterarne la capacità distintiva rappresenta un’ipotesi di comportamento non conforme alla correttezza professionale rilevante ai sensi dell’art. 2598 co. 3 cpc.

Per l’insieme di tali ragioni, pertanto, la pretesa attorea deve essere considerata fondata.

Non vale, inoltre a parere della Corte, il richiamo alla pratica dell’ambush marketing formulato dalle parti convenute. Ricorre tale pratica “allorché una campagna di comunicazione lasci intendere contrariamente al vero che un soggetto sia sponsor di un evento” (Giurì Codice Autodisciplina Pubblicitaria 8.7.2014). La pratica dell’ambush marketing è considerata ingannevole, poiché induce in errore il consumatore medio sull’esistenza di rapporti di sponsorizzazione ovvero di affiliazione o comunque di collegamenti con i titolari di diritti di proprietà intellettuale, invece insussistenti (in tal senso Tribunale di Milano 15.12.2017) e costituisce un’ipotesi particolare di concorrenza sleale contraria alla correttezza professionale che può trovare tutela nell’alveo generale dell’art. 2598,3° comma, c.c. (Tribunale Milano 15.12.2017).

In particolare, la giurisprudenza ha avuto modo di specificare che “con la figura dell’ambush marketing il concorrente sleale associa abusivamente l’immagine ed il marchio di un’impresa ad un evento di particolare risonanza mediatica senza essere legato da rapporti di sponsorizzazione, licenza o simili con l’organizzazione della manifestazione. In tal guisa lo stesso si avvantaggia dell’evento senza sopportarne i costi, con conseguente indebito agganciamento all’evento ed interferenza negativa con i rapporti contrattuali tra organizzatori e soggetti autorizzati. Si tratta dunque di illecito ove i soggetti danneggiati sono l'organizzatore dell'evento, il licenziatario (o sponsor) ufficiale ed infine il pubblico.” (Tribunale Milano 15.12.2017).

Da quanto sopra esposto emerge chiaramente come nel caso di specie non possa in alcun modo ravvisarsi una pratica di ambush marketing da parte di Basicnet. Quest’ultima non ha, infatti, compiuto alcuna attività associazione del proprio marchio all’evento del Mondiale di calcio di Russia 2018 e neppure ha acconsentito a che tale associazione venisse eseguita da altri. Sono state, infatti, le convenute ad utilizzare il prodotto Basicnet alternandone il logo nel tentativo di renderlo riconoscibile al fine di evitare di incorrere nella violazione degli accordi presi con gli sponsor ufficiali e con la stessa normativa russa. Nessuna attività e conseguentemente responsabilità può essere imputata alla Basicnet in relazione all’accaduto laddove questa è venuta a conoscenza dell’accaduto solo a seguito della diffusione del video.

Stop all’uso degli Analytics anche da parte del Garante italiano: alcune soluzioni alternative

La gestione di un sito web o di un'applicazione mobile richiede l'utilizzo di statistiche sul traffico e/o sulle prestazioni, che sono spesso essenziali per la fornitura del servizio. Lo standard di mercato, in questo settore, è Google Analytics (GA), che dovrà presto cambiare perché è stato dichiarato illecito.

Il Garante Privacy italiano ha di recente sanzionato il gestore di un sito web, con un provvedimento del 9 giugno 2022. Il suo sito utilizzava il servizio GA che trasferisce i dati degli utenti europei negli Stati Uniti, paese privo di un adeguato livello di protezione. Un autorevole membro del collegio del Garante ha inoltre confermato che sono partiti una serie di controlli a tappeto su questa tematica (come da programmazione del Garante).

Dall’istruttoria del Garante privacy italiano è emerso che i gestori dei siti web che utilizzano GA raccolgono, mediante cookie, informazioni sulle interazioni degli utenti con i predetti siti, le singole pagine visitate e i servizi proposti. Tra i molteplici dati raccolti, indirizzo IP del dispositivo dell’utente e informazioni relative al browser, al sistema operativo, alla risoluzione dello schermo, alla lingua selezionata, nonché data e ora della visita al sito web. Tali informazioni (che sono dati personali) sono risultate oggetto di trasferimento verso gli Stati Uniti. Pertanto, il trattamento è stato dichiarato illecito.

Ciò è potuto avvenire perché la Corte di giustizia dell'Unione europea, con sentenza del luglio 2020, ha dichiarato nullo il Privacy Shield, un trattato internazionale che regolava i trasferimenti di dati tra l'Unione europea e gli Stati Uniti. Tale trattato non offriva garanzie adeguate contro il rischio di accesso illecito ai dati personali dei residenti europei da parte delle autorità americane.

Nel marzo 2022 la Commissione europea e gli Stati Uniti hanno adottato una dichiarazione congiunta su una futura decisione di regolamentare adeguatamente i flussi di dati verso gli Stati Uniti. Si tratta solo un annuncio politico, senza alcun valore giuridico. Infatti, il 6 aprile 2022 il l’European Data Protection Board (l’EDPB ovvero il comitato che riunisce le autorità privacy europee) ha rilasciato una dichiarazione in cui ha chiarito che tale dichiarazione non costituisce un quadro giuridico su cui le organizzazioni possono fare affidamento per trasferire i dati negli Stati Uniti.

Il contributo della CNIL

L’autorità privacy che, ad oggi, ha analizzato questi aspetti in maniera più “pratica” è quella francese.

L’autorità privacy francese (CNIL) ha precisato che l’utilizzo di GA è considerato illecito ai sensi del GDPR e rimane tale anche ricorrendo a pratiche di preventiva pseudonimizzazione o crittografia dei dati oggetto di trasferimento.

Sorge allora spontanea una domanda. È possibile continuare a trasferire i dati fuori UE utilizzando la base giuridica del consenso degli interessati?

Il consenso esplicito degli interessati è una delle possibili deroghe previste per alcuni casi specifici dall'articolo 49 del GDPR. Tuttavia, come indicato nelle linee guida del EDPB queste deroghe possono essere utilizzate solo per trasferimenti non sistematici e, in ogni caso, non possono costituire una soluzione permanente di lungo termine, in quanto il ricorso a una deroga non può diventare la regola generale.

Non potendo validamente utilizzare il consenso esplicito (e neppure GA), esistono degli strumenti alternativi che siano legittimi?

La CNIL ha pubblicato un elenco di software che possono essere esentati dal consenso se opportunamente configurati.

Questo elenco comprende strumenti che hanno già dimostrato alla CNIL di poter essere configurati in modo da limitarsi a quanto strettamente necessario per la fornitura del servizio, senza quindi richiedere il consenso dell'utente.

Qualsiasi sia il software utilizzato, è sempre necessario verificare, per quanto possibile, che la società che lo produce non abbia legami patrimoniali o organizzativi con una società madre situata in un paese che consente ai servizi di intelligence di richiedere l'accesso a dati personali situati in un altro territorio (ad esempio: Stati Uniti ma anche Cina) ed è necessario valutare il quadro giuridico del paese di esportazione dei dati.

L’elenco dei software suggeriti dalla CNIL

Senza scendere nel dettaglio della configurazione richiesta per utilizzare legittimamente questi software (che dipende da parecchie variabili) indichiamo di seguito l’elenco indicato dalla CNIL:

  • Analytics Suite Delta di AT;
  • SmartProfile di Net Solution Partner;
  • Wysistat Business di Wysistat;
  • Piwik PRO Analytics Suite;
  • Abla Analytics di Astra Porta;
  • BEYABLE Analytics di BEYABLE;
  • etracker Analytics (Basic, Pro, Enterprise) di etracker;
  • Web Audience di Retency;
  • Nonli;
  • CS Digital di Contentsquare;
  • Matomo Analytics di Matomo;
  • Wizaly di Wizaly SAS;
  • Compass di Marfeel Solutions;
  • Statshop di Web2Roi;
  • Eulerian di Eulerian Technologies;
  • Thank-You Marketing Analytics di Thank-You;
  • eStat Streaming di Médiamétrie;
  • TrustCommander di Commanders Act.

Per la redazione del presente articolo sono state utilizzate le seguenti fonti, a cui si rinvia per ogni approfondimento.

  • Google: Garante privacy stop all’uso degli Analytics. Dati trasferiti negli Usa senza adeguate garanzie
  • The Court of Justice invalidates Decision 2016/1250 on the adequacy of the protection provided by the EU-US Data Protection Shield (PDF, 322 ko) – CJEU
  • Alternatives to third-party cookies: what consequences regarding consent?
  • [FR] Utilisation de Google Analytics et transferts de données vers les États-Unis : la CNIL met en demeure un gestionnaire de site web

Procedimenti brevettuali EPO e provvedimenti giudiziari d’urgenza

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è recentemente pronunciata sull’interpretazione dell’art. 9.1 della direttiva Enforcement (Direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale) in una controversia brevettuale tra due società tedesche, la Phoenix Contact GmbH & Co. KG, titolare del brevetto e la Harting Electric GmbH & Co. KG, asserita contraffattrice.

La pronuncia del 28 aprile 2022 giunge all’esito di un rinvio pregiudiziale operato dal Landgericht München a fronte di una domanda di tutela d’urgenza presentata dalla Phoenix per la tutela di una privativa brevettuale avente ad oggetto una spina di collegamento con un morsetto per conduttore di protezione, concesso in sede EPO, ma opposto proprio dalla Hartig.

Il giudice aveva ritenuto il brevetto valido e contraffatto, ma non aveva potuto emettere il provvedimento di inibitoria richiesto in quanto vincolato al rispetto della giurisprudenza dell’Oberlandesgericht München che impediva l’adozione di provvedimenti d’urgenza a tutela di una privativa brevettuale fintantoché a validità del titolo stesso non fosse stata confermata dal procedimento di opposizione o d’appello in sede EPO o da una decisione del Bundespatentgericht.

Il quesito pregiudiziale aveva ad oggetto proprio la compatibilità di questo orientamento giurisprudenziale con l’art. 9.1 della Direttiva Enforcement che prevede la possibilità per i giudici degli Stati Membri di emettere nei confronti del presunto autore di una violazione inerente un titolo di proprietà industriale un provvedimento urgente volto a prevenire qualsiasi violazione imminente di un diritto di proprietà intellettuale.

La Corte di giustizia ha in primo luogo ribadito che l’adozione di provvedimenti urgenti a tutela delle privative industriali deve essere sempre subordinata ad un esame “fact specific” in merito alla sussistenza della proteggibilità dei titoli stessi ed alla loro violazione.

Inoltre, la natura stessa del provvedimento d’urgenza deve consentire la cessazione della violazione senza dover attendere una statuizione di merito sulla validità del titolo e la relativa contraffazione proprio in ragione del pregiudizio irreparabile da ritardo che verrebbe a determinarsi nel tempo necessario al compimento dell’accertamento di merito su questi aspetti.

In questo senso, la giurisprudenza dell’Oberlandsgericht München sembrerebbe contrastare con questo principio e privare la tutela d’urgenza dell’effetto utile che la connota, nella misura in cui subordina la concessione di provvedimenti d’urgenza ad un ulteriore accertamento di valdità ad opera dell’EPO o del Bundespatentgerich.

Nel risolvere il quesito pregiudiziale la Corte di Giustizia UE ha quindi concluso che l’art. 9.1 della Direttiva Enforcement “osta a una giurisprudenza nazionale in forza della quale le domande di provvedimenti provvisori per contraffazione di brevetto devono essere respinte, in linea di principio, qualora la validità del brevetto in questione non sia stata confermata, almeno, da una decisione di primo grado emessa in esito a un procedimento di opposizione o di nullità”.

Ambush marketing e tutela degli investimenti promozionali tra passato e futuro

In vista delle prossime olimpiadi invernali, che vedranno i territori montani di Lombardia e Veneto protagonisti della scena sportiva mondiale, un importante strumento normativo tutelerà i marchi d’impresa registrati, anche dalla pubblicità parassitaria e ingannevole, realizzata nell’ambito non solo delle olimpiadi, ma di tutti gli eventi sportivi o fieristici di rilevanza nazionale o internazionale che si svolgeranno sul territorio italiano.

La nuova disciplina che contrasta la pubblicizzazione non autorizzata, è contenuta nel decreto-legge sulle 'Disposizioni urgenti per l'organizzazione e lo svolgimento dei Giochi olimpici e paralimpici invernali Milano Cortina 2026 e delle finali ATP Torino 2021 - 2025, nonché in materia di divieto di pubblicizzazione parassitaria', pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.66 del 13 marzo 2020, convertito in legge 8 maggio 2020, n.31 e pubblicato nella G.U. n.121 del 12 maggio 2020 e rappresenta il primo intervento organico del legislatore italiano in questa materia, essendo stato preceduto unicamente da provvedimenti contingenti a singoli eventi sportivi.

La pubblicità non autorizzata, associata ad eventi di risonanza nazionale o internazionale “è definita nella prassi definita come “ambush marketing” e individua la condotta non autorizzata di chi associ il proprio marchio ad un evento internazionale, al solo fine sfruttarne la risonanza mediatica e senza sopportare i costi di sponsorizzazione.

L’ambush marketing da luogo non solo ad un inganno per il pubblico - che assocerà il marchio illecitamente connesso all’evento all’evento stesso - ma anche ad un agganciamento parassitario con gli effettivi sponsor della manifestazione e può costituire una violazione delle norme poste a presidio della concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) e della leale comunicazione pubblicitaria (decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 e Codice dell’Autodisciplian Pubblicitaria).

Nello specifico, la norma vieta le seguenti attività:

  1. la creazione di un collegamento indiretto tra un marchio o altro segno distintivo e uno degli eventi, idoneo a indurre in errore il pubblico sull’identità degli sponsor ufficiali;
  2. la falsa dichiarazione nella propria pubblicità di essere sponsor ufficiale di uno degli eventi;
  3. la promozione del proprio marchio o altro segno distintivo, tramite qualunque azione, non autorizzata dall'organizzatore, che sia idonea ad attirare l'attenzione del pubblico, posta in essere in occasione di uno degli eventi, e idonea a generare nel pubblico l'erronea impressione che l'autore della condotta sia sponsor dell'evento sportivo o fieristico medesimo;
  4. la vendita e la pubblicizzazione di prodotti o di servizi abusivamente contraddistinti, anche soltanto in parte, con il logo di un evento sportivo o fieristico, ovvero con altri segni distintivi idonei a indurre in errore circa il logo medesimo e a ingenerare l'erronea percezione di un qualsivoglia collegamento con l'evento ovvero con il suo organizzatore.

A seconda delle modalità con cui viene posto in essere, l’ambush marketing viene solitamente classificato in:  “insurgent ambush”, ovvero l’organizzazione di iniziative a sorpresa a ridosso dell’evento;  “predatory ambush”, che utilizza segni distintivi in connessione con o che richiamano anche indirettamente l’evento  “saturation ambush”, che occupa tutti gli spazi pubblicati rimasti rispetto a quelli utilizzati dagli sponsor ufficiali.

Sotto un profilo temporale, i divieti operano dal novantesimo giorno antecedente alla data ufficiale di inizio dell’evento sportivo o fieristico, fino al novantesimo giorno successivo alla sua conclusione, mentre, da un punto di vista dell’operatività, sono esclusi dalla norma i contratti di sponsorizzazione degli atleti, delle squadre e dei partecipanti agli eventi.

L’autorità preposta all’accertamento e alla repressione delle condotte di ambush marketing è l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che può applicare sanzioni pecuniarie amministrative, che variano a seconda dei casi da 100 mila euro a 2,5 milioni di euro.

Recentemente, proprio l’AGCM si è occupata di una caso di ambush marketing relativo alla coppa UEFA 2020 , arrivando a multare l’e-commerce Zalando com 100.000 euro di multa nei confronti di Zalando SE ("Zalando"), per violazione dell'articolo 10, comma 1 e 2, lettera a), del decreto legge n. 16 dell'11 marzo 2020.

La concotta censurata consisteva nell’esposizione, nella stessa piazza di Roma dove era allestita l'area ufficiale di Euro 2020, di un manifesto che domandava "Chi sarà il vincitore?" accompagnato dai segni distintivi di Zalando apposti su di una maglia da calcio affinacato dalle bandiere delle nazionali di Euro 2020.

Questa pubblicità è stata ritenuta illecita dall’AGCM in quanto il manifesto di Zalando era idoneo a far credere ai consumatori che Zalando fosse un partner accreditato dell’evento in quanto creava un’indebita connessione tra Zalando stessa e l’evento del quale non era sponsor ufficiale.

La decisione dell’Agcm è risultata attenta a valorizzare tutte le circostanze del caso e, pertanto, in vista dei prossimi giochi invernali, è di primaria importanza che le imprese valutino attentamente le proprie campagne di marketing prima di incorrere accidentalmente in profili di violazione delle norme pubblicitarie.

Marchi vinicoli tra convalidazione e tolleranza dell’uso

Con una recente ordinanza (09.02.2022) il Tribunale di Torino si è espresso in merito alla contraffazione di alcuni marchi registrati da una cantina vinicola, principalmente per prodotti vinicoli in classe 33. Nella succitata ordinanza il Tribunale torinese ha inoltre colto l’occasione per precisare la differenza tra l’istituto giuridico della convalidazione, previsto dall’art. 28 del Codice di proprietà industriale, ed il diverso, seppur rilevante, fenomeno della tolleranza rispetto all’uso di un marchio di fatto successivo da parte del titolare del marchio registrato anteriore.

I marchi oggetto di causa, riportati sulle etichette delle bottiglie, erano costituiti in particolare dalla parola “SOLO” accompagnata dal tipo di vino (pinot, prosecco, shiraz, etc…) o di bevanda alcolica (grappa). Si trattava di marchi regolarmente registrati dalla titolare a livello nazionale.

In particolare il marchio invocato nel procedimento cautelare era il seguente:

La ricorrente, una cantina vinicola di Frascati, ha contestato quindi ad una concorrente presente nel territorio piemontese, l’utilizzo del marchio di fatto “SOLO PINOT NERO” per prodotti vinicoli, invocando la contraffazione del suo marchio anteriore registrato in forza dell’art. 20 C.p.i. (usando la resistente un marchio identico o molto simile a quello della ricorrente per prodotti identici).

La difesa della resistente si fondava in primo luogo sull’eccezione, rigettata dal giudice, dell’intervenuta convalidazione ai sensi dell’art. 28 C.p.i.. Tale norma prevede che il titolare di un marchio registrato che per 5 anni consecutivi, tolleri, essendone a conoscenza, l'uso di un marchio posteriore registrato uguale o simile, non possa quindi domandarne la nullità né opporsi all'uso dello stesso per i prodotti o servizi in relazione ai quali il detto marchio è stato usato.

La ratio di tale istituto è da rinvenirsi nel contemperamento di due diversi interessi da un lato, quello del titolare del marchio posteriore a non veder vanificati gli investimenti sostenuti nel corso degli anni per l'accreditamento del proprio segno e dall'altro lato, quello del consumatore a non vedersi mutata repentinamente una situazione di fatto ormai consolidata.

La norma è chiara nel riservare quindi il beneficio della convalidazione ai soli marchi posteriori registrati e la giurisprudenza prevalente è allineata sull’interpretazione letterale della norma. Tuttavia negli anni, anche sulla scorta di alcuni spunti dottrinali, tale interpretazione letterale è parsa venire meno. Proprio nel settore vinicolo e proprio il Tribunale di Torino nel 2016 infatti aveva chiaramente lasciato intravedere la possibilità di un’interpretazione (estensione) analogica della norma sulla convalida anche ai marchi di fatto.

Con la sentenza n° 2256/16 del 22.4.16 il Tribunale di Torino infatti aveva chiaramente argomentato circa l’opportunità che il beneficio della convalida fosse esteso ai marchi di fatto: secondo il Tribunale, poiché il marchio di fatto trova tutela nelle norme sulla concorrenza sleale, norme che recepiscono “principi di tutela della ricchezza prodotta dagli investimenti e di avversione verso le iniziative parassitarie”, si deve addivenire “se non ad una applicazione analogica dell’istituto della convalidazione ai marchi non registrati – quantomeno” a negare tutela ad un marchio “rispetto a segni uguali o simili utilizzati per lungo tempo nella consapevolezza e senza l’opposizione del titolare del marchio”.

Ebbene con l’ordinanza del febbraio 2022 lo stesso tribunale di Torino sembra invece tornare sui propri passi: secondo il Tribunale “Premesso che non potrebbe comunque parlarsi di convalidazione del marchio, ex art. 28 CPI, perché tale effetto è prescritto solo con riferimento ai marchi registrati, la tolleranza dell’uso del marchio di fatto altrui, da parte del titolare del marchio registrato anteriore, potrebbe dimostrare l’assenza di un astratto pericolo di confusione circa la diversa provenienza imprenditoriale e comportare un limite alla tutelabilità del marchio anteriore”.

Pur negando quindi estensioni analogiche della norma sulla convalidazione ai marchi non registrati, il Tribunale mette in risalto la rilevanza, ai fini dell’esclusione del rischio di confusione e quindi della contraffazione, di comportamenti di tolleranza rispetto ai marchi di fatto posteriori da parte di titolari di marchi registrati anteriori. Tuttavia anche nel caso della tolleranza, il Tribunale ricorda i limiti dell’operatività della stessa: “la fattispecie della “tolleranza” non è ravvisabile laddove non sia provata una conoscenza effettiva, da parte del titolare del marchio anteriore, del successivo utilizzo, per un certo tempo, del marchio di fatto altrui”.

“Ai fini del riconoscimento di questa ”tolleranza” non è sufficiente una presunta inattività del titolare del marchio anteriore rispetto all’utilizzo del marchio posteriore, ma è necessario che il titolare del marchio registrato anteriore abbia posto in essere, pur conoscendo tale utilizzo, dei comportamenti che possano considerarsi di tolleranza di tale uso (Trib. Venezia Sez. PI, 20/10/2006).”

L’onere della prova di questa tolleranza incombe sul titolare del marchio posteriore. Il titolare del marchio posteriore deve provare, non soltanto che il titolare del marchio anteriore era a conoscenza del deposito del marchio posteriore, in modo concreto e non su base presuntiva, ma anche che il titolare del marchio anteriore si è dimostrato tollerante a tale uso per un certo periodo. E’ necessaria, dunque, la prova (o il relativo fumus) dell’effettiva conoscenza dell’utilizzo del marchio posteriore, perché in assenza di una effettiva conoscenza dell'uso dell'altrui marchio, non si può neppure parlare di tolleranza (Trib. Torino 15/1/2010).

ARTE e BENI CULTURALI, NUOVI REATI e COMPLIANCE: L’ULTIMA SPINTA ALL’ADOZIONE DEL MODELLO 231

Proprio in questi giorni la Camera ha approvato in via definitiva la proposta di legge recante “Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale”.

Il testo riforma le disposizioni penali a tutela del patrimonio culturale – attualmente contenute prevalentemente nel Codice dei beni culturali (D.lgs. n. 42 del 2004) – e le inserisce all’interno del Codice penale con l’obiettivo di operare una profonda riforma della materia, ridefinendo l’assetto della disciplina nell’ottica di un tendenziale inasprimento del trattamento sanzionatorio, come previsto dalla Convenzione di Nicosia del Consiglio di Europa ratificata dall’Italia, e dunque, si crede, con finalità maggiormente preventive.

A seguito delle modifiche approvate dal Senato, la proposta di legge si compone di 7 articoli attraverso i quali: i) colloca nel codice penale gli illeciti penali attualmente ripartiti tra codice penale e codice dei beni culturali; ii) introduce nuove fattispecie di reato; iii) innalza le pene edittali vigenti, dando attuazione ai principi costituzionali in forza dei quali il patrimonio culturale e paesaggistico necessita di una tutela ulteriore rispetto a quella offerta alla proprietà privata; iv) introduce aggravanti quando oggetto di reati comuni siano beni culturali; v) interviene sull’articolo 240-bis c.p. ampliando il catalogo dei delitti in relazione ai quali è consentita la c.d. confisca allargata; vi) modifica il decreto legislativo n. 231 del 2001, prevedendo la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche quando i delitti contro il patrimonio culturale siano commessi nel loro interesse ovvero a loro vantaggio; vii) modifica il comma 3 dell’art. 30 la legge n. 394 del 1991 in materia di aree protette; viii) interviene sulla disciplina delle attività sotto copertura prevedendone l’applicabilità anche nell’ambito delle attività di contrasto dei delitti di riciclaggio e di autoriciclaggio di beni culturali svolte da ufficiali di PG degli organismi specializzati nel settore.

Per quanto concerne le modifiche al Codice penale, viene inserito il nuovo titolo VIII-bis Dei delitti contro il patrimonio culturale ed introdotti i seguenti articoli:

  • 518-bis Furto di beni culturali
  • 518-ter Appropriazione indebita di beni culturali
  • 518-quater Ricettazione di beni culturali
  • 518-quinquies Impiego di beni culturali provenienti da delitto
  • 518-sexies Riciclaggio di beni culturali
  • 518-septies Autoriciclaggio di beni culturali
  • 518-octies Falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali
  • 518-novies Violazioni in materia di alienazione di beni culturali
  • 518-decies Importazione illecita di beni culturali
  • 518-undecies Uscita o esportazione illecite di beni culturali
  • 518-duodecies Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici
  • 518-terdecies Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici
  • 518-quaterdecies Contraffazione di opere d’arte
  • 518-quinquiesdecies Casi di non punibilità
  • 518-sexiesdecies Circostanze aggravanti
  • 518-septiesdecies Circostanze attenuanti
  • 518-duodevicies Confisca
  • 518-undevicies Fatto commesso all’estero
  • 707-bis Possesso ingiustificato di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli.

Con riferimento alle modifiche apportate al D. lgs. n. 231/2001, è prevista l’introduzione delle seguenti norme:

  • Art. 25-septiesdecies Delitti contro il patrimonio culturale
    • Appropriazione indebita di beni culturali
    • Importazione illecita di beni culturali;
    • Uscita o esportazione illecite di beni culturali;
    • Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali e paesaggistici;
    • Contraffazione di opere d’arte;
    • Furto di beni culturali;
    • Ricettazione di beni culturali;
    • Falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali.
  • Art. 25-duodevicies
    • Riciclaggio di beni culturali;
    • Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici.

È da notare come gli aspetti di maggior rilievo e di impatto della riforma abbiano ad oggetto l’inserimento:

  1. all’interno del catalogo dei delitti in relazione ai quali è consentita la confisca allargata dei reati di ricettazione di beni culturali, di impiego di beni culturali provenienti da delitto, di riciclaggio di beni culturali, di autoriciclaggio di beni culturali e di attività organizzate per il traffico illecito di beni culturali, nonché
  2. all’interno del catalogo dei reati presupposto di cui al D.lgs. n. 231/2001, nel caso di commissione dei suddetti reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente, dei due nuovi articoli 25 septiesdecies e 25 duodevicies.

Peraltro, questo ulteriore allargamento del catalogo dei reati del D. lgs. n. 231/2001 si colloca a strettissimo giro dopo l’altrettanto recente introduzione del nuovo art. 25 octies.1 avvenuta a seguito dell’attuazione della direttiva 2019/713/UE sulla lotta contro le frodi e le falsificazioni dei mezzi di pagamento diversi dai contanti (comprese le criptovalute e le monete virtuali) avvenuta con il D. lgs. n. 184/2021 che ha modificato gli artt. 493-ter e 640-ter c.p. ed introdotto l’art. 493-quater c.p.

A fronte dell’inasprimento delle sanzioni e dell’allargamento delle responsabilità, come sopra sinteticamente illustrato, soprattutto alla luce dell’inclusione nel catalogo dei reati presupposto ai sensi del D.lgs. n. 231/2001 degli artt. 25 septiesdecies e 25 duodevicies (le cui relative sanzioni possono arrivare sino all’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività) è auspicabile che le Case d’asta, le Gallerie d’arte e, più in generale, tutti gli operatori professionali del settore dotati di una struttura organizzata di medio-grandi dimensioni, svolgano a scopo preventivo attività di analisi dei rischi per valutare la rilevanza dei nuovi reati rispetto all’operatività aziendale ed alle attività in concreto svolte, in tutte le loro declinazioni.

Alla luce di tale analisi, ove la natura dell’attività effettivamente posta in essere e la struttura dell’ente, attraverso cui tale attività è svolta, lo richiedano, questi operatori dovrebbero adottare un adeguato Modello di organizzazione e controllo, nominare un Organismo di vigilanza, predisporre ed implementare specifici ed efficaci protocolli volti a prevenire la commissione dei suddetti reati ed, in ultima analisi, finalizzati a scongiurare l’applicazione delle consistenti sanzioni (anche) a carico dell’ente medesimo qualora uno o più preposti si sia nondimeno reso responsabile di taluna delle condotte penalmente rilevanti ai sensi e per gli effetti delle norme sopra richiamate.

È infatti da evidenziare come entrambe le suddette recenti modifiche, con l’introduzione delle relative norme ai sensi e per gli effetti del D. Lgs. n. 231/2001, siano intrinsecamente legate se si pensa ai pagamenti relativi alle transazioni aventi ad oggetto la compravendita o comunque la cessione o lo scambio a titolo oneroso di opere d’arte e/o di beni latu sensu culturali. È, infatti, ad esempio, sotto gli occhi di tutti la vera e propria esplosione del mercato degli NFT, per lo più legati al mondo dell’arte, la cui moneta sottostante è la cryptocurrency Ethereum.

FOOD LAW: la nuova regolamentazione delle pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare

Clovers segnala un’importante novità normativa con importanti effetti nell’ambito della contrattualistica e delle pratiche commerciali nel settore agroalimentare.

Come forse già saprete, la recente attuazione in Italia della Direttiva UE 2019/633 ha introdotto regole stringenti alle quali devono adeguarsi le imprese che operano nella filiera agricola e alimentare a partire dal 15 dicembre 2021 . Le novità principali di questa riforma riguardano sia i contratti (in essere o da stipulare), che la disciplina della concorrenza tra le imprese operanti in un settore che riveste un’importanza chiave nella promozione dell’eccellenza italiana e che interessa prodotti che vanno dal latte alle piante, passando per il vino e il tabacco. A presidio del rispetto della nuova normativa sono anche previste sanzioni che possono arrivare sino alla soglia del 10% del fatturato del trasgressore realizzato nell’esercizio precedente all’accertamento. Troverete di seguito illustrati gli aspetti più rilevanti della nuova disciplina, suddivisi per aree tematiche di interesse. Cosa riguarda La riforma si occupa della disciplina dei contratti, delle pratiche commerciali, la prassi della vendita sottocosto e di altri importanti aspetti che regolano la filiera agro alimentare in Italia. A chi si rivolge Si tratta di una disciplina che si applica unicamente ai rapporti B2B, con esclusione, quindi, dei contratti con i consumatori finali. I destinatari sono sia i fornitori che gli acquirenti che operano del settore della filiera agro-alimentare:

  1. che si occupano di cessione di prodotti agricoli e alimentari ,
  2. nei casi in cui il fornitore sia stabilito in Italia,
  3. qualunque sia il fatturato da essi realizzato.

Novità in tema di contratti

Per quanto riguarda i contratti di cessione la norma prevede il rispetto di precisi obblighi di contenuto, di durata e di forma e stabilisce che tutti i contratti in essere vadano adeguati al più tardi entro il 15 giugno 2022.

  1. obblighi (e divieti) di contenuto
  • Per negoziare nuovi contratti o per adeguare quelli già vigenti, la regola chiave è quella della chiarezza: la normativa indica con precisione quali previsioni debbono essere necessariamente presenti nei contratti e quali, invece, sono vietate:
  • Da un punto di vista pratico devono essere sempre inserite in tutti i contratti tra fornitori e acquirenti indicazioni puntuali circa le quantità e le caratteristiche dei prodotti venduti, il prezzo (che può essere fisso o determinabile sulla base di criteri stabiliti nel contratto) la durata, le modalità di consegna e di pagamento della merce fornita .

È, invece, espressamente vietato inserire nei contratti pattuizioni volte a:

  • stabilire termini di pagamento di oltre 30 giorni per i prodotti deperibili e oltre 60 giorni per gli altri prodotti agricoli e alimentari;
  • consentire l’annullamento, da parte dell’acquirente, di ordini di prodotti deperibili con un preavviso inferiore a 30 giorni, con alcune eccezioni;
  • modificare unilateralmente le condizioni relative alla frequenza, al metodo, al luogo, ai tempi o al volume della fornitura o della consegna dei prodotti, alle norme di qualità, ai termini di pagamento o ai prezzi oppure relative alla prestazione di servizi accessori;
  • consentire la richiesta al fornitore di pagamenti che non sono connessi alla vendita dei prodotti agricoli e alimentari o di farsi carico dei costi per il deterioramento e/o la perdita di prodotti che si verificano presso i locali dell'acquirente o comunque dopo che tali prodotti sono divenuti di sua proprietà, quando tale deterioramento o perdita non siano stati causati da negligenza o colpa del fornitore;
  • imporre, direttamente o indirettamente, condizioni di vendita, di acquisto o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose;
  • vendere prodotti agricoli e alimentari a condizioni contrattuali eccessivamente gravose, ivi compresa la vendita a prezzi manifestamente inferiori ai costi di produzione;
  • imporre all'acquirente prodotti con date di scadenza troppo brevi;
  • imporre vincoli contrattuali per il mantenimento di un determinato assortimento di prodotti;
  • imporre all'acquirente l'inserimento di certi prodotti nell'assortimento;
  • imporre all'acquirente l’obbligo di riservare a determinati prodotti posizioni privilegiate negli scaffali o negli esercizi commerciali.
  • escludere l'applicazione di interessi di mora a danno del creditore o delle spese di recupero dei crediti;
  • prevedere l'obbligo del fornitore di non emettere la fattura prima di un certo periodo di tempo dopo la consegna dei prodotti, con alcune eccezioni;

e più in generale:

  • applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti;
  • subordinare la conclusione, l'esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle relazioni commerciali all’esecuzione di prestazioni che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non hanno alcuna connessione con l'oggetto dei contratti e delle relazioni commerciali;
  • imporre l’obbligo di fornire servizi e prestazioni accessorie, senza alcuna connessione oggettiva con i prodotti ceduti in base al contratto;
  • imporre un trasferimento ingiustificato e sproporzionato del rischio economico da una parte alla sua controparte.

È consentito, a patto che sia scritto con chiarezza e che sia stato concordato tra i contraenti (si veda il par. che segue sulla c.d. “grey list”), inserire clausole che prevedano che:

  • l'acquirente restituisca al fornitore prodotti agricoli e alimentari rimasti invenduti, senza corrispondere alcun pagamento per tali prodotti invenduti e/o per il loro smaltimento;
  • al fornitore venga richiesto un pagamento come condizione per l'immagazzinamento, l'esposizione, l'inserimento in listino o la messa in commercio dei suoi prodotti;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico del costo degli sconti sui prodotti agricoli e alimentari venduti dall'acquirente come parte di una promozione, con alcune eccezioni;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi della pubblicità dei prodotti effettuata dall'acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi per il marketing dei prodotti effettuato dall’acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico dei costi del personale incaricato di organizzare gli spazi destinati alla vendita dei prodotti del fornitore.

Durata

Un’indicazione importante riguarda poi la durata dei contratti, che dovrà essere di almeno 12 mesi, salvo comprovate diverse esigenze derivanti, e.g., dalla stagionalità dei prodotti oggetto di fornitura, specificamente concordate dalle parti o per il tramite di associazioni di categoria; al di fuori di questa deroga, contratti stipulati con una durata più breve, saranno considerati di durata pari a 12 mesi.

Forma scritta

Sempre allo scopo di ridurre il più possibile il margine di incertezza tra fornitori e acquirenti, la nuova disciplina impone la forma scritta dei contratti.

NB: le buone pratiche commerciali

Tra le novità più di rilievo, la norma prevede espressamente la possibilità per gli operatori della filiera di utilizzare nelle loro attività messaggi pubblicitari recanti la seguente dicitura: “Prodotto conforme alle buone pratiche commerciali nella filiera agricola e alimentare”, quando siano rispettati non solo i criteri di cui al punto 1 in tema di contenuto dei contratti, ma sia dimostrabile che le parti agiscano secondo correttezza, trasparenza e buona fede sul mercato di riferimento. L’utilizzo di questo claim è sempre soggetto a verifica da parte dell’ICQRF.

Le condotte commerciali vietate e in “Grey list”

La nuova disciplina si occupa di elencare nel dettaglio una serie di condotte commerciali vietate che devono essere sempre evitate da tutte le imprese operanti nel settore agro alimentare a prescindere dall’esistenza o meno di rapporti contrattuali. Si tratta di c.d. “pratiche commerciali sleali” che vengono distinte, in base alla loro gravità tra

  1. pratiche commerciali comunque vietate (cd. “black list”) e
  2. pratiche che sarebbero vietate salvo che siano state precedentemente concordate tra le parti nel contratto di cessione o in un altro accordo successivo. (cd. “grey list”)

La c.d. “black list”

Tra le pratiche vietate vi sono tutte le condotte già esaminate con riferimento ai contenuti vietati nei contratti tra fornitori e acquirenti, ma ve ne sono anche altre, che prescindono da un rapporto di fornitura in essere tra le parti, tra cui:

  • l’acquisizione, l’utilizzo o la divulgazione illecita, da parte dell’acquirente, di segreti commerciali del fornitore;
  • la minaccia di mettere in atto o la stessa messa in atto di ritorsioni commerciali nei confronti del fornitore quando quest'ultimo esercita i diritti contrattuali e legali di cui gode;
  • la vendita di prodotti agricoli e alimentari attraverso il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso;
  • l'omissione di almeno una delle condizioni richieste dall'articolo 168, paragrafo 4, del regolamento (UE) n. 1308/2013 recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli;
  • l'imposizione, diretta o indiretta, di condizioni di vendita, di acquisto o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; e, più in generale:
  • l'adozione di ogni ulteriore condotta commerciale che risulti sleale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento.

La c.d. “grey list”

Come già visto sopra, invece, è possibile sfuggire a censure di slealtà concorrenziale per queste previsioni, se vengono inserite in modo chiaro e determinato in contratto:

  • l'acquirente restituisca al fornitore prodotti agricoli e alimentari rimasti invenduti, senza corrispondere alcun pagamento per tali prodotti invenduti e/o per il loro smaltimento;
  • al fornitore venga richiesto un pagamento come condizione per l'immagazzinamento, l'esposizione, l'inserimento in listino o la messa in commercio dei suoi prodotti;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico del costo degli sconti sui prodotti agricoli e alimentari venduti dall'acquirente come parte di una promozione, con alcune eccezioni;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi della pubblicità dei prodotti effettuata dall'acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di pagare i costi per il marketing dei prodotti effettuato dall’acquirente;
  • l'acquirente richieda al fornitore di farsi carico dei costi del personale incaricato di organizzare gli spazi destinati alla vendita dei prodotti del fornitore.

Chi controlla?

Le Autorità preposte alla vigilanza sull’attuazione della nuova disciplina sono il neo-istituito l'Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), che può agire sia d’ufficio che a seguito di denuncia (anche anonima) e l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), fatta salva la possibilità per le parti interessate di ricorrere a procedure di mediazione o a meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie.

Riassumendo

La nuova disciplina, efficace sin da subito, si occupa sia dei contratti che dei comportamenti delle imprese attive in Italia nella filiera agroalimentare e stabilisce precisi diritti ed obblighi tra le parti, assoggettando gli operatori di mercato al potere ispettivo e sanzionatorio di apposite autorità pubbliche.

Le previsioni normative non rappresentano semplicemente l’ennesima novità per il settore ma sono anche l’occasione per ripensare i rapporti tra gli operatori di mercato con una prospettiva volta a premiare la trasparenza, la continuità e la valorizzazione della filiera.

È nel pieno rispetto di questa finalità che noi di Clovers siamo a Vostra disposizione per approfondire questi aspetti anche in tema di condivisione delle strategie di adeguamento alla nuova normativa a fronte di un possibile mutamento di rapporti consolidati tra i vostri acquirenti e fornitori. Lo studio è anche a disposizione per programmare, ove richiesta, una sessione di aggiornamento e formazione sul tema.

Il successo commerciale di un articolo di moda non comporta automaticamente il riconoscimento della protezione del diritto d'autore (in assenza di prove di creatività e valore artistico)

La tutela legale delle creazioni degli stilisti conta diversi mezzi: dalla concorrenza sleale alla tutela del design, ai marchi di forma, alla tutela offerta dalla legge sul diritto d'autore (L. n. 633/1941): questi strumenti offrono diversi tipi di protezione e possono essere utilizzati solo se vengono soddisfatti specifici requisiti, che devono sempre essere provati.

È comune in questo campo vedere i marchi di moda che cercano di "vestire" i loro prodotti con una varietà di titoli di proprietà intellettuale, registrandoli, per esempio, come marchi di forma o come disegno industriale, al fine di aumentare il livello di protezione contro possibili imitazioni.

Tuttavia, sebbene la protezione mediante registrazione dei diritti di proprietà intellettuale nel settore della moda sia particolarmente diffusa, la natura temporanea dei diritti conferiti dalla registrazione può costituire un ostacolo alla tutelabilità di capi o accessori quando il loro successo commerciale è particolarmente duraturo: in questi casi, per poter accedere ad una protezione estesa nel tempo e che vada oltre le formalità richieste per la registrazione, è necessario dimostrare non solo il particolare gradimento del pubblico, ma anche la creatività e il valore artistico del prodotto per puntare alla tutela del diritto d'autore.

Un caso emblematico della possibile coesistenza di più livelli di protezione per gli articoli di moda e delle difficoltà legate alla prova della creatività e del valore artistico di un prodotto che aspira ad essere considerato copyright è quello recentemente trattato dal Tribunale di Milano.

Il caso riguardava la commercializzazione di borse che imitavano la famosa borsa "Le Pliage" di Longchamp, protetta da due registrazioni di marchio tridimensionale dell'Unione Europea che ne rivendicava la peculiare forma trapezoidale, e caratterizzata anche dalla combinazione di ulteriori elementi originali, quali la patta arrotondata, i manici tubolari e il contrasto di colore e materiali tra gli elementi in nylon e quelli in pelle.

L'attore sosteneva che il modello di borsa "Le Pliage" è stato creato nel 1993 ed è stato ancora commercializzato in tutto il mondo attraverso più di 1.500 punti vendita e anche online e chiedeva la tutela contro le imitazioni, invocando non solo la protezione prevista sulla base di registrazioni di marchi tridimensionali (ex artt. 2 e 20 C.P.I. e art.9 Reg. UE n. 2017/1001), ma anche la violazione dei diritti dell'autore e dei principi a tutela della concorrenza leale sul mercato (art. 2598 c.c.).

Il Tribunale ha innanzitutto riconosciuto la violazione dei marchi europei tridimensionali dell'attrice nella misura in cui è stata accertata non solo la loro capacità distintiva dovuta alle modalità di utilizzo e presentazione del marchio stesso e alle informazioni e suggestioni veicolate attraverso la pubblicità e la percezione che la forma determina sul pubblico dei consumatori, ma anche l'assunzione, da parte delle borse imitative, di tutti gli elementi distintivi del modello "Le Pliage".

Per quanto riguarda l'invocata tutela del diritto d'autore, facendo riferimento alla propria giurisprudenza sul punto, la sentenza ha stabilito che non era possibile individuare nel caso di specie l'effettiva esistenza del carattere artistico necessario affinché la forma della borsa potesse godere di tale tutela.

I giudici hanno rilevato che, a parte l'innegabile successo commerciale ottenuto sul mercato, l'attore non aveva allegato gli elementi che avrebbero dovuto confermare la presenza di un valore artistico nella creazione dell'aspetto esterno del modello di borsa in questione.

In altre parole, non vi era alcuna prova dei requisiti di creatività e valore artistico che presuppongono l'applicabilità dell'art. 2.10 della legge sul diritto d'autore.

Come è noto, il valore artistico può essere desunto da una serie di parametri oggettivi, quali il riconoscimento da parte di ambienti culturali ed istituzionali dell'esistenza di qualità estetiche ed artistiche, l'esposizione in mostre o musei, la pubblicazione su riviste specializzate, l'assegnazione di premi, l'acquisizione di un valore di mercato così elevato da trascendere quello legato alla sola funzionalità o la creazione da parte di un artista noto e, in assenza di prova, non è possibile accedere alla tutela prevista dalla legge sul diritto d'autore.

Cookies: il Garante Privacy Francese (la “CNIL”) sanziona GOOGLE per un totale di 150 milioni di euro e FACEBOOK per 60 milioni di euro per non aver rispettato la legislazione privacy francese.

Il 6 gennaio scorso, a seguito di indagini, la CNIL ha constatato che i siti facebook.com, google.fr e youtube.com non consentono agli utenti di rifiutare i cookies con la stessa semplicità con cui vengono accettati. La CNIL ha così multato FACEBOOK per 60 milioni di euro e GOOGLE per 150 milioni di euro e ha ordinato loro di conformarsi entro tre mesi. L’autorità francese ha notato, in particolare, che i siti facebook.com, google.fr e youtube.com offrono un pulsante che permette all'utente di accettare immediatamente i cookies, mentre non forniscono una soluzione equivalente (pulsante o altro) che permetta all'utente di rifiutare, in modo altrettanto semplice l’utilizzo dei medesimi cookies. I siti web al vaglio della CNIL prevedevano infatti l’esecuzione di diversi click per rifiutare tutti i cookies e un solo click per accettarli, andando così a limitare la libertà del consenso, prevista come elemento fondamentale dall’Art. 82 della legge francese sulla privacy, oltre che dal GDPR. Oltre al pagamento delle suddette sanzioni, Google e Facebook dovranno adeguarsi alle prescrizioni della CNIL entro 3 mesi, fornendo agli utenti una modalità di rifiuto dei cookies che sia altrettanto semplice rispetto a quella prevista per accettarli. In mancanza, le imprese dovranno pagare una sanzione di 100.000 euro per ogni giorno di ritardo. Queste due decisioni rientrano nell’ambito della strategia di conformità globale avviata dalla CNIL negli ultimi due anni nei confronti di operatori francesi e stranieri, che pubblicano siti web con molte visite e che pongono in essere pratiche contrarie alla normativa in materia di cookies. Dal 31 marzo 2021, quando è scaduto il termine fissato per i siti web e le applicazioni mobili per conformarsi alle nuove regole sui cookie, la CNIL ha adottato quasi 100 misure correttive (ordini e sanzioni) relative al mancato rispetto della legislazione sui cookie. Sul panorama italiano in materia di cookies, si segnalano le Linee Guida Cookies pubblicate dal Garante Privacy ed entrate in vigore lo scorso 10 gennaio 2022, i cui dettagli sono forniti, sul nostro Blog.

Food Retail

L’andamento del settore Food Retail nel 2021 avverte segnali positivi anche se ovviamente risente ancora del negativo riverbero socio-economico della pandemia Covid-19. Nel corso del 2020 l’emergenza sanitaria ha colpito duramente tutto il settore della ristorazione che a causa delle prolungate e intermittenti fasi di lock down ha vissuto momenti drammatici. Sotto l’aspetto dell’attività legale di assistenza e consulenza al settore Food Retail il 2020 è stato segnato da una prolungata attività negoziale rivolta alla ricerca dell’equilibrio tra le ragioni dei locatori e le richieste di riqualificazione del canone da parte delle aziende. Il risultato di questa attività è stato mediamente positivo, in termini di raggiungimento di accordi equilibrati di revisione del canone, ma nel complesso l’impatto del fattore pandemico è stato molto severo in termini di calo dei fatturati per tutto il comparto, che ha visto anche il susseguirsi di numerose chiusure di attività che sicuramente hanno colpito per lo più, ma non solo, quelle aziende che avevano pregresse problematiche di capitalizzazione e di instabilità finanziaria già in epoca pre-covid. Gli operatori del settore hanno, peraltro, riscontrato una scarsa efficacia e proporzionalità delle misure economiche di sostegno disposte dal Governo. Nel 2021, soprattutto nel secondo semestre, pur nella permanenza di una diffusa incertezza sugli scenari economici a breve e medio termine e in concomitanza con un inizio di ripresa dei flussi di cassa delle aziende, anche se non certamente pari ai livelli pre-covid, si sono avvertiti segnali incoraggianti anche per quanto riguarda la ripresa dei piani di sviluppo. L’attività di negoziazione si è così maggiormente rivolta alle trattative per le nuove aperture, che hanno visto un cauto risveglio delle iniziative di acquisizione di locali commerciali e di altri posizionamenti in ambito Retail. D’altra parte anche le evidenti e in certi casi favorevoli opportunità offerte dal mercato spesso vengono affrontate con una certa prudenza, determinata dalla consapevolezza che il periodo di emergenza è tutt’altro che terminato. Quanto al target del posizionamento si segnala una netta predisposizione alla ricerca di location dotate di ampi dehors esterni, in ragione delle mutate abitudini della clientela che predilige senz’altro un’offerta con caratteristiche di maggiore vivibilità outdoor. Un possibile freno allo sviluppo è invece costituito dal fenomeno della ormai cronica indisponibilità di personale qualificato.

SUPER GREEN PASS: cosa accade se la zona in cui abito cambia colore?

Il Super Green Pass è diventato obbligatorio dal 6 dicembre 2021, ma di cosa si tratta? Il Super Green Pass, di cui si è sentito molto parlare (e discutere) consiste nella certificazione verde Covid-19 ottenuta solamente con la vaccinazione o con la guarigione dal Virus SARS-COV-2, restando esclusa la certificazione ottenuta a seguito dell’esito negativo del tampone antigenico (il c.d. tempone rapido). Quanto alla validità del Super Green Pass la stessa è già mutata più di una volta: dal DL di novembre (n. 172/2021) al DL di dicembre (n. 221/2021) si è passati da una durata da 12 a 9 mesi fino a diminuire ulteriormente. Infatti, dal 1° febbraio 2022 la durata del Super Green Pass vaccinale viene ridotta dal 9 a 6 mesi. Ciò che appare opportuno segnalare, restando in attesa di tutte le modifiche che si avvicenderanno fino al termine dello stato di emergenza – fissato per il 31 marzo 2022 – e anche post fine stato d’emergenza, è cosa cambia all’eventuale cambiare delle zone, ormai note, bianca, gialla, arancione e rossa.

• ZONA BIANCA

Le attività sono tutte aperte, non vi sono limitazioni negli spostamenti. Serve il Green Pass base per:

  1. prendere i mezzi pubblici, il treno e l’aereo;
  2. andare in palestra e in piscina;
  3. andare in albergo e nei ristoranti annessi;
  4. usufruire di impianti sciistici.

Serve, invece, il Super Green Pass per:

  1. andare al ristorante al chiuso;
  2. andare al cinema e al teatro;
  3. andare allo stadio;
  4. partecipare a feste e cerimonie pubbliche.

• ZONA GIALLA

  1. Obbligo di mascherina all’aperto.
  2. Nei bar e ristoranti al chiuso, può consumare solo chi è munito di Super Green Pass.

• ZONA ARANCIONE

  1. Non si può uscire dal comune di residenza, se non per motivi di lavoro, necessità ed urgenza.
  2. Tutte le attività rimangono aperte ma molte saranno accessibili soltanto con Super Green Pass.

Col Super Green Pass:

  1. ci si può muovere liberamente, anche fuori dalla propria regione;
  2. si può andare al bar e ristorante, in palestra e nelle piscine al chiuso, al cinema e al teatro;
  3. si può entrare alle fiere e ai convegni, ai parchi di divertimento, negli impianti sciistici e alle terme.

• ZONA ROSSA

  1. Non si può uscire dal comune di residenza se non per motivi di lavoro, necessità, urgenza.
  2. I ristoranti e i bar sono chiusi, ma è consentito l’asporto e la consegna a domicilio.
  3. I negozi chiusi ad esclusione di supermercati, alimentari, edicole, tabaccherie, farmacie e quelli con codice Ateco consentito.
  4. I divieti si estendono anche a chi possiede il Super Green Pass.

Infine, le ultime novità in punto di Super Green Pass sono le seguenti:

  • dal 10 gennaio 2022: obbligo di Super Green Pass per: tutti i mezzi di trasporto pubblici; servizi di ristorazione all’aperto; piscine al chiuso e all’aperto; palestre; centri termali e parchi divertimento; musei; alberghi e strutture ricettive; feste conseguenti a cerimonie civili o religiose (come battesimi o matrimoni); sagre e fiere; congressi; impianti sciistici; sport di squadra anche all'aperto (e.g. calcetto); sale gioco, sale bingo e casinò;
  • dal 15 febbraio 2022: obbligo di Super Green Pass per tutti i lavoratori (pubblici e privati) e i liberi professionisti di almeno 50 anni. Chi non è ancora vaccinato dovrà effettuare la prima dose del vaccino entro il 31 gennaio 2022 per ottenere un Super Green Pass valido a partire dal 15 febbraio 2022.

Si rinvia alla lettura di una utile ed esplicativa tabella della quale, per comodità, si allega di seguito il link:

https://www.governo.it/sites/governo.it/files/documenti/documenti/Notizie-allegati/tabella_attivita_consentite.pdf

Clovers Alert! Il tuo sito web è conforme alle novità normative che entreranno in vigore dal 10 gennaio 2022?

Di seguito analizziamo le nuove linee guida sui cookies del Garante Privacy

  1. Le Linee Guida Cookies e altri strumenti di tracciamento

Con Provvedimento n. 231 del 10 giugno 2021, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 163 del 9 luglio 2021 il Garante privacy ha fornito le proprie linee guida per a) indicare ai gestori di siti web le regole da applicare per l’utilizzo dei cookies e degli altri strumenti di tracciamento e b) per specificare le corrette modalità di fornitura dell’informativa e per l’acquisizione del consenso online degli interessati (le “Linee guida”). Le Linee guida si propongono quindi di integrare le precedenti indicazioni del Garante Privacy (Provvedimento n. 229 del 2014) precisando che la manifestazione di volontà dell’interessato sia “inequivocabile” oltre che libera e informata e richiedendo che la protezione dei dati sia assicurata sin dalla progettazione e attraverso impostazioni predefinite (privacy by default e by design).

  1. Cosa bisogna fare dal 10 gennaio?

Sintetizziamo qui di seguito gli obblighi stabiliti dalle Linee guida, riferiti in modo particolare alle modalità di acquisizione del consenso e alle caratteristiche dell’informativa Cookies

a) L’acquisizione del consenso

In primo luogo, il Garante ribadisce che non sono ammesse, come forme di acquisizione del consenso, le pratiche:

  • del c.d. “scrolling” (ossia, lo spostamento in basso del cursore), che possa essere qualificato come azione positiva idonea a manifestare in maniera inequivoca la volontà di prestare un consenso al trattamento, salvo eccezioni da vedere caso per caso;
  • del c.d. “cookie wall”, ossia un meccanismo vincolante (c.d. take it or leave it) in cui l’utente sia obbligato, per accedere al sito, ad esprimere il proprio consenso alla ricezione di cookies o di altri strumenti di tracciamento, salvo eccezioni da valutare caso per caso.

Da un punto di vista operativo, il Garante richiede le seguenti caratteristiche per acquisire validamente il consenso del navigatore:

  • al momento del primo accesso di un utente al sito web, nessun cookie o altro strumento diverso da quelli tecnici sarà posizionato all’interno del dispositivo e non sarà utilizzata alcuna tecnica attiva o passiva di tracciamento;
  • al primo accesso alla pagina web, apparirà un’area o un banner di dimensioni adeguate e tali da non indurre l’utente ad effettuare scelte indesiderate;
  • tale banner dovrà consentire all’utente di esprimere il proprio consenso, attraverso un’azione positiva;
  • occorre quindi consentire all’utente di mantenere le impostazioni di default e di proseguire la navigazione senza prestare alcun consenso, cliccando sul comando di chiusura del banner contraddistinto da una “X” posizionata in alto e a destra all’interno del banner;
  • occorre inserire (oltre al link all’informativa completa) una informativa minima relativa all’utilizzo dei cookies tecnici e - previo consenso, al fine di inviare messaggi pubblicitari ovvero di fornire il servizio in modo personalizzato - di cookies di profilazione o di altri strumenti di tracciamento;
  • sarà inoltre presente un comando attraverso il quale sia possibile esprimere il proprio consenso accettando il posizionamento di tutti i cookie o l’impiego di eventuali altri strumenti di tracciamento e il link ad una ulteriore area dedicata nella quale sia possibile selezionare le funzionalità, i soggetti cd. terze parti ed i cookie al cui utilizzo l’utente scelga di acconsentire

Il Garante precisa inoltre che il banner non dovrà essere ripresentato ad ogni nuovo accesso e che la scelta dell’utente dovrà essere debitamente registrata e non più sollecitata per almeno 6 mesi, salvo modifiche rilevanti nelle condizioni di trattamento.

b) L’informativa

L’informativa Cookies dovrà indicare i soggetti destinatari dei dati personali raccolti e i tempi di conservazione delle informazioni e potrà essere resa anche su più canali e con diverse modalità (ad esempio, con pop up, video, interazioni vocali). Se si utilizzano solo cookies tecnici, l’informativa Cookies potrà essere inclusa nell’informativa generale. Il Garante raccomanda poi che i cookie analytics, usati per valutare l’efficacia di un servizio, siano utilizzati solo a scopi statistici.


Quello sopra riportato è il quadro generale delle Linee guida del Garante privacy che – con adeguato supporto legale – dovrà essere implementato su ogni sito web.

Sulla prova dell’uso del marchio nei procedimenti di nullità e opposizione

Laura Bussoli - Senior Counsel

Non a tutti è noto che una volta depositato e registrato, il marchio deve costituire oggetto d’uso effettivo da parte del suo titolare: le norme – sia nazionali che comunitarie – prevedono infatti un primo periodo di tolleranza di cinque anni dalla registrazione, scaduto il quale il titolare potrebbe essere chiamato a dare prova di un uso effettivo del suo marchio.

La prova dell’uso può essere richiesta sia nell’ambito di un procedimento di opposizione da parte del richiedente il marchio opposto all’opponente, con la conseguenza che in assenza di prove utili, l’opposizione è di diritto respinta.

Similmente la prova dell’uso del marchio potrebbe essere chiesta nell’ambito di un procedimento di decadenza per non uso previsto a livello comunitario dagli Artt. 18 e 58 Regolamento sul marchio dell’Unione europea, UE 2017/1001. Anche in questo caso le conseguenze sono tutt’altro che banali per il titolare del marchio, dato che qualora il giudice amministrativo reputasse le prove non sufficienti, il marchio verrebbe dichiarato nullo a fare data dalla domanda di decadenza e quindi cancellato dal registro.

In sostanza quindi, l’uso del marchio è fondamentale anche in tutti i casi in cui il marchio viene registrato: non è sufficiente avere registrato il marchio in una serie di classi merceologiche al fine di assicurarsi una protezione più ampia possibile, se poi a tale registrazione non corrisponde un uso genuino dello stesso nei termini di legge.

Particolarmente importante quindi sarà da parte del titolare la raccolta di prove d’uso nel tempo, specie man mano che si avvicina la scadenza del quinquennio di tolleranza.

Di grande importanza è anche sapere quali sono le prove d’uso rilevanti per il giudice amministrativo. Tra le principali prove d’uso ci sono senz’altro le fatture di vendita.

Come più volte ribadito dai giudici, tali fatture devono mostrare volumi significativi e frequenti di vendite durante il periodo rilevante (quinquennio antecedente alla domanda di nullità o, nell’ambito di un procedimento di opposizione, dal momento della pubblicazione).

Si noti che le offerte di vendita dei prodotti recanti il marchio impugnato sui siti web non sono sufficienti di per sé a dimostrare un uso effettivo, tuttalpiù possono assumere rilievo unitamente ad altri elementi quali per esempio, la produzione di documenti giustificativi, imballaggi, etichette, listini prezzi, cataloghi, fatture, fotografie, annunci sui giornali.

Sul punto si espresso anche di recente il Tribunale UE nella causa T‑1/20 del 13/10/2021 rigettando il ricorso della società Mi Indutries Inc., produttrice di cibi organici per animali domestici, confermando la decisione della Commissione dei Ricorso presso l’EUIPO che aveva ritenuto alcuni estratti del sito Internet «Amazon.co.uk» ove i prodotti recanti il marchio contestato erano messi in vendita non sufficienti a dimostrare un uso effettivo del marchio: gli stessi dimostravano semplicemente che i prodotti in questione erano stati messi in vendita, senza tuttavia dimostrare che gli stessi erano effettivamente stati venduti e senza fornire alcuna informazioni sul volume di eventuali vendite.

Secondo la giurisprudenza, l'uso effettivo di un marchio non può essere dimostrato da probabilità o presunzioni, ma deve fondarsi su elementi concreti e oggettivi che dimostrino l'uso effettivo e sufficiente del marchio nel mercato interessato.

Secondo i regolamenti di esecuzione, inoltre la prova dell'uso deve riguardare il luogo, la durata, l'estensione e la natura dell'uso che è stato fatto del marchio impugnato.

È fondamentale poi che le prove riguardino il quinquennio rilevante: ulteriori prove fuori da tale periodo saranno considerate solo secondariamente.

Inoltre, la condizione relativa all'uso effettivo del marchio richiede che esso, in quanto protetto nel territorio di riferimento, sia utilizzato pubblicamente ed esternamente. Sotto questo profilo il Tribunale ha precisato che sono rilevanti non solo le vendite ai consumatori finali, ma anche ai clienti industriali e agli utilizzatori professionali (vendite B2B).

Infine il Tribunale ha precisato che anche se non è necessario per il titolare al fine di sottrarsi alle sanzioni, dimostrare un uso costante e di portata rilevante per tutto il quinquennio di riferimento, l’assenza palese di prove per una parte importante del periodo fa sì che l’uso sia considerato non sufficiente.

Finanziamenti soci: rischi connessi ed istruzioni per l'uso

Alcuni dei profili giuridici e degli aspetti di carattere pratico maggiormente rilevanti legati ai finanziamenti effettuati dai soci a favore delle società da essi partecipate, alla luce del diffusissimo utilizzo di questo strumento, hanno spesso comportato criticità non adeguatamente valutate ex ante nonché l’emersione di tematiche controverse. Ciò malgrado il legislatore e la giurisprudenza abbiano tentato nel corso degli anni di fornire una parziale regolamentazione ed un’interpretazione della materia il più possibile lineare ed aderente alla pratica.

L’art. 2467 cod. civ. - che prevede l’espressa postergazione di tali crediti derivanti da finanziamento rispetto al rimborso da parte della società di quelli vantati a diverso titolo dagli altri creditori - affronta, infatti, il problema della loro qualificazione con la consapevolezza che, malgrado gli stessi in molti casi si presentino, nella forma e nelle intenzioni del socio mutuante, come erogazioni di capitale di credito (soggetti pertanto a teorico obbligo di restituzione tout court da parte della società mutuataria), nella sostanza dovranno tuttavia essere più correttamente inquadrati come conferimenti di capitale di rischio perché effettuati in momenti della vita sociale in cui sarebbe stato ragionevole attendersi il conferimento, appunto, di capitale di rischio.

La medesima norma non si è però dimostrata sufficientemente precisa nell’individuare in quale preciso momento debba verificarsi la sussistenza delle condizioni di “eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto” o di “situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento” ai fini dell’operatività del meccanismo di postergazione ed in questa zona grigia è quindi intervenuta la giurisprudenza chiarendo, in sintesi, che “la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente al momento della concessione del finanziamento ed a quello della richiesta di rimborso” nonché “sino alla pronuncia (giudiziale, n.d.r.), trattandosi di condizione di inesigibilità del credito” (in questo senso Cass. civ. 12944/2019 ed, inter alia, Tribunale di Milano 9 luglio 2021, Tribunale di Milano 21 ottobre 2020, Tribunale di Roma 6 febbraio 2017 e Tribunale di Milano 13 giugno 2016).

La norma in commento, le interpretazioni giurisprudenziali nel tempo fornite e la particolarità dell’istituto sollevano quindi criticità concrete da tenere in debita considerazione nel momento in

cui si valuta se effettuare o meno il finanziamento e quali siano i pro ed i contra di questo strumento per il socio erogante.

La tematica ed i rischi connessi dovranno quindi essere attentamente ponderate dal socio comprendendo che, al fine di evitare o, quantomeno, mitigare il rischio di postergazione rispetto agli altri creditori sociali, non rileva unicamente il momento in cui è stato erogato il finanziamento venendo viceversa di fatto ad avere rilevanza ogni possibile successivo mutamento della situazione patrimoniale e finanziaria della società finanziata in relazione alla restituzione puntuale o meno del rimborso, fino alla possibile perdita integrale del capitale conferito nel caso in cui la società beneficiaria non dovesse risollevarsi dalla fase di sopravvenuta difficoltà finanziaria.

Un ulteriore tema da considerare consiste nella necessità di pattuire con la società beneficiaria una chiara identificazione delle modalità e dei termini di restituzione del finanziamento erogato attraverso la sottoscrizione di un accordo dettagliato.

Dal punto di vista operativo, quando si esegue un finanziamento a favore di una società partecipata, è consigliabile quindi procedere con le cautele necessarie, in particolar modo se il socio conferente non è autorizzato a disporre in via autonoma la restituzione del finanziamento in qualità di amministratore e legale rappresentante della società beneficiaria.

Tali cautele dovrebbero consistere:

  • nella adeguata preventiva comprensione dei presupposti economico-giuridici di applicazione della postergazione, qui sinteticamente trattati;

  • nella predisposizione di appositi contratti di finanziamento tra il socio e la società dove siano previsti espressamente l’eventuale tasso di interesse applicato (nel caso di prestiti fruttiferi) e soprattutto termini, condizioni, modalità e tempistiche di restituzione del finanziamento in capo al socio mutuante.

Non è in altre parole sufficiente effettuare un semplice bonifico bancario a favore della società (come molto spesso accade nella prassi), anche se con una causale dettagliata, così come si rivela estremamente rischioso non pattuire uno specifico termine di restituzione. Infatti, in caso di mancata previsione di tale termine e di mancato accordo con la società beneficiaria, il socio conferente, in caso di contestazione della società, dovrà avviare un autonomo giudizio civile al fine di richiedere la fissazione giudiziale di un termine per la restituzione del finanziamento ai sensi e per gli effetti dell’art. 1817 cod. civ. (norma spesso non adeguatamente tenuta in considerazione in questi contesti)

Concorrenza sleale – pubblicazione sul proprio sito internet di liste clienti altrui

Gaia Bellomo - Senior AssociateMaria Sole Torno - Stagista

Gaia Bellomo - Senior Associate

Maria Sole Torno - Stagista

I nomi di clienti prestigiosi rappresentano un vanto per l’impresa?

La rinomanza presso il pubblico e la capacità distintiva dei propri marchi rappresentano fattori di indubbia rilevanza per le imprese e sono asset concorrenziali che possono essere messi a rischio da comportamenti scorretti sul mercato. Per tutelare il corretto svolgersi delle dinamiche di mercato il codice civile, tramite gli articoli riservati alla regolamentazione della concorrenza, regolamenta il comportamento delle imprese a livello individuale e tutela le imprese, da comportamenti scorretti.

La Corte di Cassazione ha recentemente preso posizione sul tema della concorrenza sleale, esprimendosi in particolare sul divieto di appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente, sancito dall’art. 2958, comma 1, n. 2 c.c..

Il caso preso in esame dalla Corte, ha visto contrapporsi l’agenzia pubblicitaria 055 Communication S.r.l. e la Senza Filtro S.n.c., alla quale veniva contestata la pubblicazione sul proprio sito internet aziendale dei nomi di numerosi clienti che erano, invece, clienti di 055 Communication.

Alla Corte di Cassazione veniva chiesto di pronunciarsi sulla questione se i nomi dei clienti di un’impresa fossero da considerarsi un pregio della stessa. A tale riguardo si era precedentemente espressa la Corte d’appello di Firenze che aveva respinto la tesi secondo cui i nomi dei clienti configurano un “pregio” aziendale, ritenendoli invece meri elementi storici del livello imprenditoriale raggiunto.

A seguito di tale decisione, 055 Communication s.r.l. aveva fatto ricorso al giudice di legittimità per violazione o falsa applicazione dell’art. 2598, comma 1, n.2, c.c., in quanto sosteneva che la condotta di un imprenditore, il quale indichi, contrariamente al vero, sul sito internet aziendale come propri i clienti che sono di un altro imprenditore, consistesse in un atto di concorrenza sleale contrario alla correttezza professionale. Inoltre, secondo la ricorrente, sarebbe stato violato anche l’art. 2598, comma 1, n. 3, c.c., poichè il comportamento della resistente avrebbe integrato anche la violazione dei principi della correttezza professionale, in quanto indice dell’approfittamento del lavoro altrui.

Nel giudizio di legittimità, il Collegio ha reputato opportuna la trattazione congiunta dei motivi, che pur invocando differenti fattispecie, miravano entrambi all’affermazione del principio di diritto secondo cui la condotta posta in essere dalla Senza Filtro s.n.c. integrasse la fattispecie di cui all’art. 2598 c.c..

La Corte aveva già affrontato la questione evidenziando nell’ordinanza n. 25607 del 2018 che la condotta tipica di concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui ricorre quanto “un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od all’impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità, indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.”

Nell’ordinanza in esame, il Collegio ha precisato che l’imprenditore concorrente si appropria di pregi di un’altra impresa, quando opera, in una comunicazione destinata a terzi, un’auto-attribuzione di qualità, peculiarità o caratteristiche riconosciute ad altrui impresa. L’avere un imprenditore vantato un carnet di clienti con i quali non aveva in passato intrattenuto rapporti professionali, che erano invece in essere con un diverso imprenditore, lasciando però intendere di avere curato per essi le campagne pubblicitarie, integra, secondo la Cassazione, la fattispecie della norma predetta sotto il profilo dell’appropriazione di qualità altrui.

Alla stregua di tali considerazioni, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, alla luce del principio secondo cui “la condotta di “appropriazione di pregi”, contemplata dall’art. 2598, comma 1, n. 2 c.c., è integrata dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, mutuate da quelle di un altro imprenditore, tutte le volte in cui detto vanto abbia l’attitudine di far indebitamente acquisire al primo meriti non posseduti, realizzando una concorrenza sleale per il c.d. agganciamento, quale atto illecito di mero pericolo: tale situazione si verifica allorchè un’agenzia pubblicitaria, con la quale pur abbia iniziato a collaborare un soggetto che aveva realizzato campagne pubblicitarie per un’altra impresa, vanti sul proprio sito internet il carnet di clienti di quest’ultima, lasciando intendere di aver curato essa stessa le precedenti campagne pubblicitarie”.

Cassazione Civile, ordinanza 19 maggio 2021

Un pay-off (o slogan) è registrabile come marchio?

Molto spesso ci viene chiesto di depositare come marchio un determinato slogan (pay-off) e la risposta spesso non è così scontata.

Quando si parla di pay-off in quest’ambito si pensa subito al noto JUST DO IT di Nike – che conta oltre cento registrazioni nel mondo - o all’altrettanto noto “I’m lovin it” di Mc Donald – anch’esso depositato e registrato dalla multinazionale americana in tutto il mondo.

Non sempre però il pay-off è registrabile come marchio, anche se in realtà, sono possibili altre forme di tutela, alternative e diverse dalla registrazione.

Recentemente, per esempio il Tribunale dell’UE con sentenza del 30 giugno 2021 ha rigettato in appello la domanda di registrazione del marchio figurativo

Goclean.png

da parte di una società italiana produttrice di prodotti da bagno, in particolare per “cassette di scarico per WC; tazze da gabinetto [WC]; impianti di distribuzione di acqua”.

Prima di questa, anche altre decisioni a livello europeo, e non solo, avevano negato la registrabilità di alcuni slogan rilevandone l’assenza di capacità distintiva: fra queste, la sentenza del Tribunale UE 30/04/2015 (cause riunite T-707/13 e T-709/13) sul marchio denominativo “BE HAPPY” per prodotti di cartoleria, oggettistica (tazze e prodotti da cucina) e giocattoli.

Nonostante il carattere fantasioso ed originale del segno, i giudici comunitari hanno negato che quest’ultimo fosse atto a svolgere la funzione tipica e principale del marchio, vale a dire quella di indicare la fonte imprenditoriale del prodotto o servizio al quale si riferisce.

Similmente nella sentenza del 9 marzo 2017, in Puma/EUIPO, T-104/16, il Tribunale aveva negato la registrabilità del segno Forever Faster per calzature e articoli sportivi ritenendo che il marchio sarebbe stato percepito dal pubblico “come una semplice formula elogiativa o un'informazione sulle qualità desiderate e sullo scopo dei prodotti in questione”.

Audi.jpg

Diversamente, tuttavia, si riscontrano altri precedenti che invece hanno approvato la registrazione di pay-off apparentemente non molto dissimili dagli altri appena visti. Così, la Sentenza della Corte di Giustizia UE del 21.1.2010 resa nel giudizio C-398/08 P (Audi AG) ha considerato registrabile come marchio figurativo il pay-off di Audi “vorsprung durch technik” [“Avanti grazie alla tecnologia”]

In questo caso secondo il Tribunale “anche supponendo che lo slogan «Vorsprung durch Technik» veicoli un messaggio obiettivo, secondo il quale la superiorità tecnologica permette la fabbricazione e la fornitura di prodotti e servizi migliori, tale circostanza non consente di concludere che il marchio richiesto sia del tutto privo di carattere distintivo intrinseco”. Sempre nella citata sentenza si legge: “Tutti i marchi composti da segni o da indicazioni che sono peraltro utilizzati come slogan pubblicitari, indicazioni di qualità o espressioni che incitano all’acquisto dei prodotti o dei servizi designati da tali marchi veicolano per definizione, in maggiore o minore misura, un messaggio obiettivo. Tale situazione può in particolare riscontrarsi quando questi marchi non si riducono ad un messaggio pubblicitario ordinario, ma possiedono una certa originalità o ricchezza di significato, rendono necessario un minimo sforzo interpretativo o innescano un processo cognitivo presso il pubblico di riferimento.

Come si possono distinguere quindi gli slogan registrabili da quelli non registrabili?

L’Euipo sulla base della giurisprudenza prodotta in questi anni, ha messo a disposizione una serie di linee guida (rinvenibili sul sito https://guidelines.euipo.europa.eu/1922901/1802830/direttive-di-marchi/4-slogan--valutazione-del-carattere-distintivo) utili ad individuare quando lo slogan presenta non solo un valore pubblicitario, ma anche un carattere distintivo:

“È possibile che uno slogan pubblicitario sia distintivo ogniqualvolta è considerato più di un semplice messaggio pubblicitario che esalta le qualità dei prodotti o dei servizi in questione, in quanto:

  • costituisce un gioco di parole e/o

  • introduce elementi di intrigo concettuale o sorpresa, in modo che possa essere percepito come segno fantasioso, sorprendente o inaspettato, e/o

  • ha qualche particolare originalità o risonanza e/o

  • innesca nella mente del pubblico di riferimento un processo cognitivo o richiede uno sforzo interpretativo.

Oltre a quanto sopra, le seguenti caratteristiche di uno slogan possono contribuire perché possa essere riconosciuto il suo carattere distintivo:

  • strutture sintattiche insolite
  • l’uso di artifici linguistici e stilistici, come ad esempio allitterazioni, metafore, rima, paradosso ecc

Alla luce di queste guidelines e della recente sentenza del Tribunale Comunitario sul marchio GO CLEAN il quadro sembra essere più chiaro: ferma restando la funzione di indicatore di origine che deve avere il marchio, questa può essere assolta anche attraverso uno slogan pubblicitario purché lo stesso non si riduca ad una “semplice formula elogiativa”.

Il marchio deve quindi innanzi innanzitutto indicare al pubblico la provenienza di un prodotto o servizio da una determinata fonte imprenditoriale. Secondariamente, il marchio svolge senza dubbio anche una funzione pubblicitaria.

Ma quando quindi la funzione distintiva del marchio resiste nonostante il carattere spiccatamente pubblicitario dello stesso?

Più chiara rispetto ai precedenti citati appare l’ultima decisione in commento del Tribunale secondo cui:

“41 - È infatti sufficiente, per constatare l’assenza di carattere distintivo, rilevare che il marchio contestato indica al consumatore una caratteristica del prodotto relativa al suo valore commerciale che, senza essere precisa, deriva da un’informazione a carattere promozionale o pubblicitario che il pubblico di riferimento percepirà in primis in quanto tale, piuttosto che come un’indicazione dell’origine commerciale dei prodotti.

42 - Orbene, nel caso di specie, il pubblico di riferimento non avrà bisogno di fare alcuno sforzo interpretativo per comprendere la locuzione «go clean» come un’espressione che incita all’acquisto e che enfatizza l’attrattività dei prodotti di cui trattasi, rivolgendosi direttamente ai consumatori e invitandoli ad acquistare prodotti che offrano loro una maggiore pulizia e una migliore igiene”.

Si potrebbe dire che quindi che quando lo slogan, non è banale e scontato ma impone comunque al consumatore un certo sforzo interpretativo per coglierne il significato, lo stesso si candida ad essere accettato come marchio.

È bene ricordare che un parametro fondamentale per valutare il carattere distintivo di un segno è il “pubblico di riferimento”.

Lo slogan quindi può essere registrato come marchio se dotato di sufficiente capacità distintiva e percepito dal pubblico di riferimento, come un segno che indica la provenienza imprenditoriale di un prodotto o servizio e non solo un’espressione elogiativa o semplice messaggio promozionale: “31 Un tale marchio deve essere considerato privo di carattere distintivo se è idoneo ad essere percepito dal pubblico di riferimento soltanto come una semplice formula promozionale”.

Un suggerimento potrebbe essere quello di non effettuare subito un deposito di uno slogan, ma di attendere che lo stesso abbia acquisito una certa diffusione e notorietà tra il pubblico, un cosiddetto secondary meaning insomma, che lo renda immediatamente ricollegabile ad un certo prodotto (rectius: ad una certa fonte imprenditoriale).

In questo caso infatti la funzione distintiva del marchio “è salva” in quanto garantita dal cosiddetto secondary meaning.

Divieto di concorrenza nella cessione d’azienda: il silenzio può costare caro

Mattia Raffaelli – Of Counsel Sofia Mercedes Bovoli– Trainee

Mattia Raffaelli – Of Counsel

Sofia Mercedes Bovoli– Trainee

Importante disposizione che occorre tener in considerazione quando ci si appresta a una cessione di azienda, di un ramo di azienda o in ogni caso ad un’operazione assimilabile alla stessa, è l’art. 2557 del codice civile in materia di concorrenza.

L’art. 2557 c.c. sancisce, a specifica tutela dell’acquirente di un’azienda, il divieto per il cedente, in seguito al perfezionamento dell’operazione, di condurre attività concorrenziale, per un periodo di tempo massimo di cinque anni dall’avvenuta cessione. Pertanto, quale effettuo naturale ed automatico della cessione, chiunque proceda all’alienazione di un’azienda dovrà astenersi dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta.

Due sono le questioni che occorre evidenziare: da una parte l’applicazione automatica del divieto e dall’altra la forza estensiva e l’applicazione analogica dello stesso.

Analizzando per punti:

a) L’applicazione automatica del divieto: il divieto di concorrenza è posto dal legislatore quale effetto naturale della cessione d’azienda, alla base della funzione economica sociale dell’operazione stessa. Pertanto, nel silenzio delle parti, tale divieto dispiegherà i propri effetti indipendentemente da una esplicita volontà in tal senso. Di conseguenza, se non disposto diversamente, si applicherà automaticamente il divieto nei limiti e alle condizioni imposte dal legislatore.

Tuttavia, è concesso alle parti di derogare al divieto di concorrenza sia nell’ipotesi di un affievolimento che di un irrobustimento dello stesso. Innanzitutto, con riguardo alla durata del medesimo, è possibile prevedere una durata inferiore ai 5 anni previsti dal legislatore, ma mai superiore e ciò in ragione della tutela dell’iniziativa privata del cedente. Inoltre, l’ambito di applicazione del divieto può essere limitato da un punto di vista dell’oggetto o dell’ubicazione e pertanto si potrà impedire al cedente di esercitare l’attività in concorrenza soltanto in un delimitato territorio e per specifiche attività. Al contrario, in maniere specularmente opposta, è possibile prevedere limiti che vadano ad ampliare l’efficacia del disposto normativo, estendendo l’oggetto del divieto ad attività ulteriori rispetto a quelle già esercitate tramite l’azienda ceduta. In ogni caso, le eventuali deroghe “peggiorative” imposte a carico del cedente non possono essere tali da impedire di fatto lo svolgimento di ogni attività professionale da parte del medesimo.

b) Forza estensiva e applicazione analogica del disposto: la Cassazione ha in più di un’occasione ribadito il carattere non eccezionale del divieto e pertanto ha riconosciuto, a più riprese, l’applicazione analogica dell'articolo 2557 c.c.. Di conseguenza, pare opportuno individuare le fattispecie e le operazioni assimilabili alla cessione d’azienda alle quali è possibile estendere tale divieto.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere possibile l'applicazione analogica del divieto a tutte le ipotesi in cui nella sostanza si realizzino operazioni assimilabili e analoghe alla cessione di azienda o di un ramo di essa. La giurisprudenza ha riconosciuto l’applicazione automatica del divieto anche nel caso della cessione di partecipazioni di maggioranza di una società. La violazione di tale divieto, inoltre, si realizzerebbe sia nel caso in cui i soci cedenti costituiscano una nuova società con medesimo oggetto sociale di quella ceduta sia nel caso in cui gli stessi assumano la qualifica di amministratori in una società concorrente. L’esigenza di tutela del cessionario è sempre la medesima, si pensi, ad esempio, alla possibilità di sviamento della clientela derivante dal subentro nella gestione aziendale di un soggetto che, essendo noto alla clientela, della quale conosce tendenze e abitudini, può avere sulla stessa un a considerevole capacità di attrazione . Pertanto, al fine di valutare la possibile applicazione analogica del disposto dell’art. 2557 c.c., anche in ragione della sua applicazione automatica, occorre valutare caso per caso la volontà sottesa delle parti e il risultato economico che intendono perseguire con una determinata operazione. Non di rado, infatti, la scelta fra cessione d'azienda o di partecipazioni sociali è determinata principalmente da ragioni di opportunità fiscale o di limitazione delle responsabilità del cessionario.

Occorre precisare che la violazione del divieto di concorrenza disciplinato all’art. 2557 c.c. darebbe titolo al cessionario di richiedere:

a) la risoluzione per inadempimento contrattuale.

b) Il risarcimento del danno patito e subito a conseguenza della violazione (pari, ad esempio, al minor guadagno o alla diminuzione del valore dell’azienda dovuto allo sviamento della clientela);

c) l’inibitoria, in via cautelare, della condotta illecita ai sensi dell’art. 700 c.p.c.

In conclusione, tenuto conto dell’effetto automatico della normativa qui analizzata, quando ci si appresta a operazioni che di fatto realizzano una sostituzione di un soggetto a un altro nella conduzione dell'impresa e nell’esercizio di una data attività, è necessario, onde evitare di incorrere in spiacevoli sorprese, muoversi di conseguenza, disciplinando l’applicazione e la portata del divieto.

La tutela del modello registrato assorbe quella di concorrenza sleale e look alike

Il mercato dei prodotti per la cura delle piante vede fronteggiarsi imprese che condividono i medesimi punti vendita specializzati: si tratta di garden center e vivai, che offrono in vendita i prodotti per tipologia, allocandoli in scaffali o settori contigui.

Per distinguere i propri prodotti da quelli dei concorrenti, Vigorplant, che produce e commercializza terricci e fertilizzanti, aveva lanciato nel 2019 una nuova gamma di cinque terricci caratterizzata da un packaging con un colore diverso per tipologia di prodotto e un nuovo prodotto top di gamma.

Il packaging presentava, oltre a una colorazione specifica secondo la categoria di terriccio che conteneva, una peculiare suddivisione del sacchetto in due parti e la collocazione di tre pittogrammi esemplificativi della performance del prodotto in una zona specifica del sacchetto.

Il terriccio top di gamma, aveva, a sua volta, uno specifico packaging di riferimento, composto di uno speciale materiale che rendeva il sacchetto di colorazione blu cangiante ed era stato anche registrato come modello semplice.

Poco tempo dopo il lancio sul mercato di questi packaging, Vigorplant rinveniva sul mercato i prodotti di un concorrente, Tercomposti S.p.A., presentati in dei contenitori che riproducevano la suddivisione per colori, la rappresentazione stilizzata dei prodotti di riferimento e gli stessi pittogrammi collocati nella medesima posizione di quelli dei packaging Vigorplant.

Ravvisando un pregiudizio per il successo commerciale dei propri terricci, Vigorplant proponeva un ricorso cautelare per inibitoria e sequestro nei confronti dei packaging di Tercomposti e inquadrava giuridicamente la vicenda come atto di concorrenza sleale confusoria, parassitaria sinronica e per look-alike (art. 2598 c.c.) e, con riferimento specifico al packaging del terriccio top di gamma, come violazione del proprio modello registrato (art. 31 c.p.i.) proprio di quel packaging.

Esaminando il fumus boni iuris, il Tribunale ha esaminato per prima cosa la doglianza relativa alla violazione del modello registrato, stabilendo che la privativa azionata da Vigorplant possedeva tutti i requisiti di validità stabiliti dagli artt. 32 - 33 bis del codice di proprietà industriale, ovvero: liceità, novità e carattere individuale.

Con specifico riferimento a quest’ultimo requisito - nonostante non sia possibile fare un uso esclusivo di elementi presenti sul packaging quali fiori, terra, pittogrammi informativi, colore blu - l’aspetto generale del sacchetto è stato ritenuto ben caratterizzato dalla specifica disposizione di questi elementi e dalla predominanza del colore blu con effetto cangiante, caratteristiche che, se non potevano essere rinvenute in altri prodotti lanciati sul mercato in epoca antecedente la registrazione, si ritrovavano invece nei sacchetti Tercomposti, che suscitavano la medesima impressione generale del modello di Vigorplant.

Alla luce del fatto che i sacchetti di Tercomposti non si discostavano sufficientemente dal modello di packaging Vigorplant, l’ordinanza in commento ha ritenuto sussistente una violazione della privativa del ricorrente e ha concesso la misura dell’inibitoria, assistita da penale, nei confronti della resistente con riferimento al packaging del prodotto “Superterriccio”.

Le altre confezioni commercializzate da Tercomposti non sono state, invece, ritenute in violazione dei packaging di Vigorplant perché si discostavano maggiormente dall’impressione generale suscitata dal modello registrato azionato.

Sotto il profilo della concorrenza sleale, il Tribunale ha ritenuto che le censure di parassitarietà e imitazione servile non fossero state supportate da prove sufficienti da parte della ricorrente.

Infatti, per quanto riguarda proprio l’imitazione servile, il ricorrente avrebbe dovuto – a detta del Tribunale - valorizzare tutti quegli elementi che potevano provare la distintività del proprio packaging.

Allo stesso modo la concorrenza sleale per look alike (ripresa delle caratteristiche di un prodotto noto) non è stata ritenuta provata sulla base del rilievo per cui non vi erano sulle confezioni Tercomposti elementi sufficienti a creare un collegamento tra i due prodotti, trattandosi di elementi decorativi con colori e con una disposizione diversa.

Anche per quanto riguarda la concorrenza parassitaria sincronica (che si sostanzia nella ripresa simultanea di tutti i prodotti o di molti prodotti di un concorrente), l’ordinanza in commento ha rilevato l’assenza di una ripresa generalizzata delle proposte commerciali di Vigorplant da parte di Tercomposti.

A fronte dei rilievi relativi al caso di specie, appare evidente che un’azione per concorrenza sleale, in tutte le sue declinazioni (parassitaria, imitazione servile, agganciamento) deve essere sempre suffragata da prove idonee a costituire quel substrato di indizi necessari a sostanziare la pretesa .

Tribunale di Milano, ordinanza 4 maggio 2021.