concorrenza sleale

Thom Browne vince contro adidas nella guerra delle strisce

L’azienda dello stilista newyorkese Thom Browne (dal 2018 parte del Gruppo Ermenegildo Zegna) ha recentemente avuto la meglio in un contenzioso promosso da adidas innanzi al Tribunale del Distretto sud di New York per tutelare il proprio famoso marchio costituito dalle caratteristiche tre strisce parallele. Il tribunale americano ha infatti riconosciuto che Thom Browne, stilista conosciuto per i suoi capi di abbigliamento sartoriali di alta gamma, non ha commesso alcuna violazione dei diritti di marchio della multinazionale tedesca nell’apporre sui propri capi di abbigliamento e modelli calzature un motivo costituito da quattro strisce parallele.

In realtà, il contenzioso in materia di marchi tra le due aziende pendeva già da qualche anno. Infatti, già 2018 adidas aveva avviato innanzi all’Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) un’opposizione contro una domanda di marchio comunitario depositata da Thom Browne per tutelare un segno costituito da quattro strisce parallele. A tale opposizione ne erano poi seguite nel 2020 altre innanzi allo United States Patent and Trademark Office con cui adidas aveva contestato tre domande di marchio aventi ad oggetto strisce rosse, bianche e blu destinate a contraddistinguere le calzature prodotte dallo stilista newyorkese. adidas riteneva infatti che tutti i sopra menzionati marchi di cui Thom Browne aveva chiesto la registrazione fossero confondibili con le proprie registrazioni anteriori rivendicanti, appunto, le famose tre strisce.

Tornando all’attuale decisione della corte distrettuale di New York, nel giugno del 2021 il colosso tedesco dell'abbigliamento sportivo aveva intentato una causa contro Thom Browne sostenendo che l’utilizzo da parte di quest’ultimo di un segno costituito da strisce parallele violasse i propri diritti di marchio, oltre a costituire un’attività di concorrenza sleale confusoria nell’ambito dell’abbigliamento sportivo.

L’azienda tedesca sosteneva infatti che l’utilizzo da parte di Thom Browne di un marchio simile al proprio celebre marchio a tre strisce utilizzato da oltre cinquant’anni adidas, ingenerava confusione nei consumatori sull’origine dei prodotti stessi, o che comunque li inducesse a credere che tra le due aziende vi fosse una qualche collaborazione o affiliazione. In particolare, adidas contestava a Thom Browne l’utilizzo delle strisce in modalità similari al proprio marchio a tre strisce, creando così confusione sia nell'aspetto estetico che nell'impressione commerciale complessiva che tali prodotti fornivano. adidas sosteneva che, in particolare i prodotti nella categoria dell'abbigliamento e delle scarpe sportive fabbricati dall’azienda americana, fossero identici alle medesime categorie di prodotti da tempo contraddistinti sul mercato dal proprio marchio a tre strisce.

A parte gli evidenti elementi di similarità dei marchi dei due contendenti, l’impianto accusatorio di adidas era inoltre fortemente incentrato sull’elemento concorrenziale perché, per fondare la propria richiesta risarcitoria di circa 8 milioni di dollari, l’azienda tedesca aveva evidenziato al giudice statunitense che Thom Browne non si limitava al solo utilizzo delle quattro strisce nel proprio core business, ovvero l’abbigliamento di alta moda, ma stava invadendo in modo sempre più aggressivo il segmento dell'abbigliamento sportivo ed in genere i settori dove adidas è leader di mercato. E ciò non solo con l’ampliamento della propria gamma di abbigliamento sportivo, ma anche tramite accordi promozionali come ad esempio quello concluso da Thom Browne con il famoso club spagnolo del F.C. Barcelona.

Eccependo la totale differenza tra i rispettivi canali distributivi del luxury e dello sportswear, nonché dell’ampio divario tra i prezzi dei rispettivi prodotti, la tesi difensiva dell’azienda americana era ovviamente incentrata sull’insussistenza di qualsiasi rischio di confusione per i consumatori. Forse più interessante e meno scontato è quanto inoltre argomentato dalla difesa di Thom Browne nel rilevare come adidas abbia aspettato molto tempo prima di intraprendere un'azione legale contro il proprio utilizzo delle strisce. Come già avvenuto precedentemente in altre sedi, anche davanti alla corte newyorkese Thom Browne ha evidenziato come adidas già nel 2007 avesse immediatamente contestato l'uso di Thom Browne di tre bande orizzontali sui propri capi di abbigliamento, ma abbia poi invece tollerato per molto tempo l'uso di quattro bande orizzontali parallele sui capi di abbigliamento che successivamente Thom Browne aveva appositamente intrapreso proprio per allontanarsi quanto più possibile dai marchi dell’azienda tedesca.

In sostanza, Thom Browne ha quindi sostenuto che il ritardo di adidas nell’intervenire per impedirgli di utilizzare il proprio marchio a quattro strisce è stato irragionevolmente lungo in quanto il colosso tedesco dello sportswear sapeva, o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere, che Thom Browne utilizzava un design a quattro bande orizzontali. Per la difesa dello stilista newyorkese, ciò avrebbe peraltro anche costituito un’implicita dimostrazione che i rispettivi marchi a strisce sono di fatto coesistiti sul mercato per molto tempo senza che adidas avesse subito alcun danno. Se da una parte Thom Browne ha ovviamente accolto con favore la propria assoluzione facendo notare come da oltre vent’anni anni la propria azienda sia un brand innovativo nel segmento della moda di lusso, dove propone un design del tutto unico e distintivo che combina la sartoria classica con la sensibilità dell'abbigliamento sportivo americano. Dall’altra, adidas ha già dichiarato che impugnerà la sentenza della Corte distrettuale di Manhattan, decisione che non a caso si aggiunge ad altre negative subite dalla multinazionale tedesca in sede EUIPO e che hanno già messo in discussione il carattere distintivo del proprio marchio a tre strisce.

Concorrenza sleale – pubblicazione sul proprio sito internet di liste clienti altrui

Gaia Bellomo - Senior AssociateMaria Sole Torno - Stagista

Gaia Bellomo - Senior Associate

Maria Sole Torno - Stagista

I nomi di clienti prestigiosi rappresentano un vanto per l’impresa?

La rinomanza presso il pubblico e la capacità distintiva dei propri marchi rappresentano fattori di indubbia rilevanza per le imprese e sono asset concorrenziali che possono essere messi a rischio da comportamenti scorretti sul mercato. Per tutelare il corretto svolgersi delle dinamiche di mercato il codice civile, tramite gli articoli riservati alla regolamentazione della concorrenza, regolamenta il comportamento delle imprese a livello individuale e tutela le imprese, da comportamenti scorretti.

La Corte di Cassazione ha recentemente preso posizione sul tema della concorrenza sleale, esprimendosi in particolare sul divieto di appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente, sancito dall’art. 2958, comma 1, n. 2 c.c..

Il caso preso in esame dalla Corte, ha visto contrapporsi l’agenzia pubblicitaria 055 Communication S.r.l. e la Senza Filtro S.n.c., alla quale veniva contestata la pubblicazione sul proprio sito internet aziendale dei nomi di numerosi clienti che erano, invece, clienti di 055 Communication.

Alla Corte di Cassazione veniva chiesto di pronunciarsi sulla questione se i nomi dei clienti di un’impresa fossero da considerarsi un pregio della stessa. A tale riguardo si era precedentemente espressa la Corte d’appello di Firenze che aveva respinto la tesi secondo cui i nomi dei clienti configurano un “pregio” aziendale, ritenendoli invece meri elementi storici del livello imprenditoriale raggiunto.

A seguito di tale decisione, 055 Communication s.r.l. aveva fatto ricorso al giudice di legittimità per violazione o falsa applicazione dell’art. 2598, comma 1, n.2, c.c., in quanto sosteneva che la condotta di un imprenditore, il quale indichi, contrariamente al vero, sul sito internet aziendale come propri i clienti che sono di un altro imprenditore, consistesse in un atto di concorrenza sleale contrario alla correttezza professionale. Inoltre, secondo la ricorrente, sarebbe stato violato anche l’art. 2598, comma 1, n. 3, c.c., poichè il comportamento della resistente avrebbe integrato anche la violazione dei principi della correttezza professionale, in quanto indice dell’approfittamento del lavoro altrui.

Nel giudizio di legittimità, il Collegio ha reputato opportuna la trattazione congiunta dei motivi, che pur invocando differenti fattispecie, miravano entrambi all’affermazione del principio di diritto secondo cui la condotta posta in essere dalla Senza Filtro s.n.c. integrasse la fattispecie di cui all’art. 2598 c.c..

La Corte aveva già affrontato la questione evidenziando nell’ordinanza n. 25607 del 2018 che la condotta tipica di concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui ricorre quanto “un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od all’impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, qualità, indicazioni, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.”

Nell’ordinanza in esame, il Collegio ha precisato che l’imprenditore concorrente si appropria di pregi di un’altra impresa, quando opera, in una comunicazione destinata a terzi, un’auto-attribuzione di qualità, peculiarità o caratteristiche riconosciute ad altrui impresa. L’avere un imprenditore vantato un carnet di clienti con i quali non aveva in passato intrattenuto rapporti professionali, che erano invece in essere con un diverso imprenditore, lasciando però intendere di avere curato per essi le campagne pubblicitarie, integra, secondo la Cassazione, la fattispecie della norma predetta sotto il profilo dell’appropriazione di qualità altrui.

Alla stregua di tali considerazioni, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, alla luce del principio secondo cui “la condotta di “appropriazione di pregi”, contemplata dall’art. 2598, comma 1, n. 2 c.c., è integrata dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, mutuate da quelle di un altro imprenditore, tutte le volte in cui detto vanto abbia l’attitudine di far indebitamente acquisire al primo meriti non posseduti, realizzando una concorrenza sleale per il c.d. agganciamento, quale atto illecito di mero pericolo: tale situazione si verifica allorchè un’agenzia pubblicitaria, con la quale pur abbia iniziato a collaborare un soggetto che aveva realizzato campagne pubblicitarie per un’altra impresa, vanti sul proprio sito internet il carnet di clienti di quest’ultima, lasciando intendere di aver curato essa stessa le precedenti campagne pubblicitarie”.

Cassazione Civile, ordinanza 19 maggio 2021

La tutela del modello registrato assorbe quella di concorrenza sleale e look alike

Il mercato dei prodotti per la cura delle piante vede fronteggiarsi imprese che condividono i medesimi punti vendita specializzati: si tratta di garden center e vivai, che offrono in vendita i prodotti per tipologia, allocandoli in scaffali o settori contigui.

Per distinguere i propri prodotti da quelli dei concorrenti, Vigorplant, che produce e commercializza terricci e fertilizzanti, aveva lanciato nel 2019 una nuova gamma di cinque terricci caratterizzata da un packaging con un colore diverso per tipologia di prodotto e un nuovo prodotto top di gamma.

Il packaging presentava, oltre a una colorazione specifica secondo la categoria di terriccio che conteneva, una peculiare suddivisione del sacchetto in due parti e la collocazione di tre pittogrammi esemplificativi della performance del prodotto in una zona specifica del sacchetto.

Il terriccio top di gamma, aveva, a sua volta, uno specifico packaging di riferimento, composto di uno speciale materiale che rendeva il sacchetto di colorazione blu cangiante ed era stato anche registrato come modello semplice.

Poco tempo dopo il lancio sul mercato di questi packaging, Vigorplant rinveniva sul mercato i prodotti di un concorrente, Tercomposti S.p.A., presentati in dei contenitori che riproducevano la suddivisione per colori, la rappresentazione stilizzata dei prodotti di riferimento e gli stessi pittogrammi collocati nella medesima posizione di quelli dei packaging Vigorplant.

Ravvisando un pregiudizio per il successo commerciale dei propri terricci, Vigorplant proponeva un ricorso cautelare per inibitoria e sequestro nei confronti dei packaging di Tercomposti e inquadrava giuridicamente la vicenda come atto di concorrenza sleale confusoria, parassitaria sinronica e per look-alike (art. 2598 c.c.) e, con riferimento specifico al packaging del terriccio top di gamma, come violazione del proprio modello registrato (art. 31 c.p.i.) proprio di quel packaging.

Esaminando il fumus boni iuris, il Tribunale ha esaminato per prima cosa la doglianza relativa alla violazione del modello registrato, stabilendo che la privativa azionata da Vigorplant possedeva tutti i requisiti di validità stabiliti dagli artt. 32 - 33 bis del codice di proprietà industriale, ovvero: liceità, novità e carattere individuale.

Con specifico riferimento a quest’ultimo requisito - nonostante non sia possibile fare un uso esclusivo di elementi presenti sul packaging quali fiori, terra, pittogrammi informativi, colore blu - l’aspetto generale del sacchetto è stato ritenuto ben caratterizzato dalla specifica disposizione di questi elementi e dalla predominanza del colore blu con effetto cangiante, caratteristiche che, se non potevano essere rinvenute in altri prodotti lanciati sul mercato in epoca antecedente la registrazione, si ritrovavano invece nei sacchetti Tercomposti, che suscitavano la medesima impressione generale del modello di Vigorplant.

Alla luce del fatto che i sacchetti di Tercomposti non si discostavano sufficientemente dal modello di packaging Vigorplant, l’ordinanza in commento ha ritenuto sussistente una violazione della privativa del ricorrente e ha concesso la misura dell’inibitoria, assistita da penale, nei confronti della resistente con riferimento al packaging del prodotto “Superterriccio”.

Le altre confezioni commercializzate da Tercomposti non sono state, invece, ritenute in violazione dei packaging di Vigorplant perché si discostavano maggiormente dall’impressione generale suscitata dal modello registrato azionato.

Sotto il profilo della concorrenza sleale, il Tribunale ha ritenuto che le censure di parassitarietà e imitazione servile non fossero state supportate da prove sufficienti da parte della ricorrente.

Infatti, per quanto riguarda proprio l’imitazione servile, il ricorrente avrebbe dovuto – a detta del Tribunale - valorizzare tutti quegli elementi che potevano provare la distintività del proprio packaging.

Allo stesso modo la concorrenza sleale per look alike (ripresa delle caratteristiche di un prodotto noto) non è stata ritenuta provata sulla base del rilievo per cui non vi erano sulle confezioni Tercomposti elementi sufficienti a creare un collegamento tra i due prodotti, trattandosi di elementi decorativi con colori e con una disposizione diversa.

Anche per quanto riguarda la concorrenza parassitaria sincronica (che si sostanzia nella ripresa simultanea di tutti i prodotti o di molti prodotti di un concorrente), l’ordinanza in commento ha rilevato l’assenza di una ripresa generalizzata delle proposte commerciali di Vigorplant da parte di Tercomposti.

A fronte dei rilievi relativi al caso di specie, appare evidente che un’azione per concorrenza sleale, in tutte le sue declinazioni (parassitaria, imitazione servile, agganciamento) deve essere sempre suffragata da prove idonee a costituire quel substrato di indizi necessari a sostanziare la pretesa .

Tribunale di Milano, ordinanza 4 maggio 2021.

Auto, Sneakers e Social Media: Ferrari vs. Philipp Plein.

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L’origine della causa tra il cavallino di Maranello e Philipp Plein risale allo scorso agosto a seguito di alcuni post (foto e video) pubblicati dallo stilista tedesco sul suo profilo Instagram ufficiale.

Le immagini oggetto della controversia sono alcune foto pubblicate da Philipp Plein che mostrano una delle sue Ferrari con un paio di sneakers (modello Moneybeast della collezione 2019 in vendita a circa 5000€) appoggiate sul cofano dell’auto.

Solo pochi giorni dopo la pubblicazione dei post, gli avvocati di Ferrari diffidano Plein invitandolo a rimuovere entro 48 ore i suddetti contenuti per illecito utilizzo del marchio Ferrari.

Ferrari accusa dunque Philipp Plein di aver sfruttato la notorietà del proprio marchio per fare pubblicità ai suoi prodotti e di confondere il consumatore portandolo a presumere l’esistenza di una partnership tra Ferrari e il brand di Plein in relazione a quello specifico modello di scarpe.

La casa di Maranello riteneva inoltre che i post pubblicati da Plein tramite il suo profilo social fossero offesivi, “strumentalizzassero” il corpo femminile e pertanto non fossero in linea con i valori condivisi da Ferrari che non intendeva essere associata alla divulgazione di quel tipo di contenuto.

In risposta Plein si è rivolto direttamente al CEO di Ferrari dichiarandosi un cliente insoddisfatto e di non voler procedere alla rimozione dei post in questione.

Sulla vicenda è stato chiamato a pronunciarsi il Tribunale di Milano che a giugno 2020 ha condannato Philipp Plein alla rimozione di tutti i post in cui era stato illegittimamente raffigurato il marchio Ferrari e al pagamento di 300.000€ a titolo di risarcimento del danno.

Ogni utente per fare un uso consapevole dei social network non può prescindere dalla consapevolezza che un post pubblicato online potrebbe costituire una violazione dei diritti di proprietà intellettuale di terze parti.

Questa consapevolezza dovrebbe essere propria dell’utente “comune” ma dovrebbe essere maggiore per gli influencer e per coloro che godono di popolarità online e sarebbero tenuti a prestare estrema attenzione nel pubblicare contenuti che raffigurano segni distintivi senza l’espressa autorizzazione del titolare.

Il profilo Instagram di Philipp Plein conta più di 2 Milioni di followers e pertanto i post in violazione del marchio Ferrari hanno potenzialmente diffuso il contenuto illecito ad un numero elevatissimo di utenti, non raggiungibile attraverso i media tradizionali.

Ciò che funge da elemento di discrimine per determinare l’illiceità dei contenuti condivisi sui social media raffiguranti segni distintivi altrui senza consenso del titolare, è la finalità commerciale e pubblicitaria per cui viene effettuato il singolo post.

Il Tribunale di Milano ha ritenuto che i post pubblicati su Instagram da Plein avessero finalità commerciale (nonostante fossero sul profilo personale del designer e mostrassero un’auto di sua proprietà) e che vi fosse la volontà di approfittare della notorietà del marchio Ferrari per promuovere il prodotto “Moneybeast” che accostato al cavallino rampante sarebbe apparso più esclusivo e desiderabile.

ARBRE MAGIQUE CITA BALENCIAGA IN GIUDIZIO.

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Nuovi problemi legali per Balenciaga. La maison del gruppo Kering continua a far discutere per la scelta di ispirarsi a prodotti di consumo ‘pop’ per le sue creazioni. Dopo le versioni luxury della borsa Ikea, Balenciaga, che ha a capo la stilista Demna Gvasalia, ha proposto stavolta un portachiavi a forma di pino che sembra ispirato ai celebri diffusori di profumo per automobili Arbre Magique. Il portachiavi Balenciaga è in vendita a 195 euro nei colori azzurro, rosa, verde e nero ed è realizzato in morbida pelle di vitello, mentre il diffusore di profumo costa 1,66 euro.

L’azienda Car-Freshner Corporation and Julius Sämann Ltd, detentrice dei prodotti Arbre magique, ha così deciso di fare causa alla maison del gruppo Kiering per non aver chiesto il permesso di usare il celebre pino colorato, come invece hanno fatto altri marchi avviando una collaborazione.

Il famoso abete stilizzato è stato già adottato da altre aziende produttrici di merci differenti dai diffusori di profumo, tra cui la griffe Anya Hindmarch ma sempre in accordo con Car-Freshner Corporation and Julius Sämann Ltd.

Il punto dopo il primo round della battaglia legale Diesel/Zara.

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Otb il gruppo fondato da Renzo Rosso che raggruppa marchi come Diesel, Maison Margiela e  Marni ha recentemente vinto un giudizio avanti al tribunale di Milano contro il gruppo Inditex che controlla il noto marchio Zara. L'azienda fondata da Renzo Rosso ha visto accogliere dal Tribunale di Milano le proprie argomentazioni sostenute nella causa avviata nel 2015 contro la società spagnola, accusata di aver riprodotto con il marchio Zara dei jeans prodotti da di Diesel e dei sandali ideati da Marni.

Nonostante il gruppo iberico sostenesse l'esistenza di differenze sostanziali tra i propri prodotti e quelli di Otb, rivendicando l'impossibilità da parte della Corte di costringere a un risarcimento dei danni in quanto azienda straniera priva di sede in Italia, i giudici hanno decretato la violazione del design registrato del modello di jeans Skinzee-sp e del design non registrato delle calzature Fussbett.

Non è la prima volta che il gruppo iberico si trova coinvolto in simili accuse. Poco più di un anno fa il label danese “Rains” specializzata in e abbigliamento da pioggia ha intentato una causa a Inditex. avanti la Corte del Commercio danese per violazione dei design e concorrenza sleale chiedendo l’immediata cessazione delle vendite di un modello asseritamente contraffatto ed il risarcimento dei danni per la perdita dei corrispondenti profitti.

Concessa la registrazione del marchio "Steve Jobs" per la produzione di abbigliamento.

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L'Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) ha recentemente confermato una sua precedente decisione di concedere la registrazione del marchio STEVE JOBS, a nome di due fratelli napoletani, Vincenzo e Giacomo Barbato.

La registrazione del marchio non riguardava solo la parola STEVE JOBS, ma anche una stilizzazione e una lettera molto particolare J, che probabilmente ricorda ai consumatori il logo di un'altra azienda.

Nel 2012 i due fratelli napoletani notarono che Apple aveva trascurato la registrazione del nome del suo fondatore come marchio e, pertanto depositarono domanda di registrazione di marchio come mostrato sopra prima dell'EUIPO (numero di registrazione 011041861), in International Classes 9, 18, 25 , 38 e 42.

Apple Inc. ha prontamente opposto la domanda di registrazione avanti all'EUIPO, sostenendo che la lettera J era una copia del marchio Apple di Apple Inc., con un disegno molto simile e un morso , come questo:

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Dopo anni di discussioni, l'EUIPO si è pronunciata a favore dei fratelli Barbato, sostenendo che la lettera J non è commestibile, e di conseguenza non vi è alcuna relazione tra la mela morsicata dell'azienda tecnologica e la lettera J "morsa" ideata dai fratelli italiani.

Di conseguenza, la registrazione è stata ammessa e quindi è iniziata la commercializzazione di capi di abbigliamento  con il marchio STEVE JOBS.

La domanda di marchio STEVE JOBS è stata depositata  anche negli USA davanti all'USPTO (numero di serie 79141888), ma l’ufficio ha rigettato la domanda dei due fratelli napoletani. 

L'orologio Royal Oak di Audemars Piguet non è un marchio tridimensionale.

Il Tribunale di Milano si è recentemente espresso sulla tutelabilità della forma del noto orologio “Royal Oak” creato nel 1972 dall’azienda svizzera Audermars Piguet  inizialmente protetto come marchio tridimensionale.

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L’Audemars Piguet aveva registrato come marchio internazionale figurativo la forma della relativa lunetta e lamentava la contraffazione di marchio e la concorrenza sleale per imitazione servile da parte degli orologi commercializzati dalla start-up milanese D One s.r.l.

In un primo momento il tribunale ha emesso un provvedimento inaudita altera parte inibendo la futura commercializzazione ma dopo che la D One  si è costituita in giudizio e ha esposto le proprie difese, tuttavia, il Giudice adito ha ribaltato la propria decisione iniziale e rigettato il ricorso di Audermars Piguet sulla base del fatto che “sussistono numerosi elementi di dubbio sulla validità del marchio azionato”, come testimoniato dal fatto che la sua registrazione come marchio comunitario sia stata negata dall’ufficio competente (UAMI).

In particolare, secondo il Tribunale il marchio sembra privo di capacità distintiva, ovvero della capacità di “distinguere i prodotti rispetto a quelli di un altro fabbricante e, dunque, svolgere la funzione di identificazione dell’origine imprenditoriale del prodotto”;

Sempre secondo la corte milanese il segno distintivo tridimensionale non sembra nemmeno avere acquisito capacità distintiva attraverso l’uso (c.d. “secondary meaning”), “non essendo stato documentato un utilizzo uniforme” del segno medesimo”.

Da ultimo la registrazione della forma in questione come marchio non sembra nemmeno compatibile con il dettato dell’art. 9 CPI, secondo il quale “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni costituiti esclusivamente … dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto”.

 In tema di concorrenza sleale, il Giudice ha ricordato che, per integrare l’illecito di concorrenza sleale ex art. 2598 co. 1 n. 1 c.c., l’imitazione servile del prodotto altrui deve “investire caratteristiche del tutto inessenziali rispetto alla funzione che sono destinate ad assolvere”, ovvero quelle caratteristiche “arbitrarie e capricciose” e “nuove rispetto al già noto” che conferiscono originalità al prodotto e hanno capacità distintiva, così che il pubblico è portato a ricondurle all’impresa da cui il prodotto origina: solo quando riguarda queste caratteristiche, l’imitazione servile investe “elementi idonei ad ingenerare confusione nel pubblico” e integra quindi concorrenza sleale confusoria.

Nel caso di specie, il Giudice non ha ravvisato la sussistenza di una simile imitazione, affermando sostanzialmente – sulla scorta di quanto rilevato in punto di contraffazione di marchio – che le forme imitate sarebbero “strutturali del prodotto e non distintive”, nonché in alcuni casi “ormai acquisite al gusto collettivo, avendo subito una certa standardizzazione”, e che comunque vi sarebbero “significative differenze” tra i due prodotti.

ANCHE UNA GUIDA DI VINI E' UN OPERA CREATIVA.

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Somiglianze “significative” tra la guida di Bibenda Editore - ex “Duemilavini”, oggi “Bibenda” - e “Vitae” dell’AIS. sia relative al formato fisico che nelle schede descrittive per i dati relativi alle aziende e alle loro produzioni, e “forti elementi di assonanza nella sequenza degli argomenti”: è con queste parole, presenti nel testo della sentenza emessa dai giudici della IX Sezione Civile del Tribunale di Roma, che si conclude il primo grado di giudizio relativo alla denuncia per plagio sporta da Bibenda Editore nei confronti di Ais, a valle della conclusione, nel 2015, della collaborazione tra Bibenda e l’Ais.

Subito dopo l’interruzione dei rapporti che avevano visto per anni Ais acquistare la guida Bibenda per distribuirla ai propri soci, l’Associazione diede alle stampe una sua guida, battezzata “Vitae”, che però apparve agli autori di “Bibenda” troppo simile, sotto una molteplicità di punti di vista, a quella da loro creata secondo criteri redazionali ben precisi. Criteri che, secondo la sentenza, sono sufficientemente simili a quelli adottati da Ais per “Vitae” da giustificare una sua condanna: il Tribunale ha accolto le istanze di Bibenda Editore e ha inibito la pubblicazione di future edizioni di “Vitae” a meno che queste somiglianze non vengano sostanzialmente eliminate. Ais è stata condannata, inoltre, a risarcire i danni (ancora da quantificare) in favore di Bibenda Editore.

Secondo la sentenza del Tribunale, “l’esame della guida pubblicata dalla convenuta (ais) evidenzia significative somiglianze con la guida Bibenda in relazione alle dimensioni del volume, al materiale utilizzato per la copertina, alla rilegatura e ai caratteri di stampa adoperati e al formato.

Ulteriori rilevanti somiglianze si colgono nelle schede descrittive delle aziende, in entrambe le guide si rinvengono, con la stessa sequenza e all’interno di un identico contesto strutturale e secondo una comune presentazione grafica, i dati relativi a nome azienda, indirizzo, sito internet, indirizzo mail, anno di fondazione, proprietà, bottiglie prodotte, ettari vitati, vendita diretta, visite all’azienda, pezzo introduttivo, nome vino, tipologia, uve, gradazione alcolica, prezzo, bottiglie prodotte, degustazione, vinificazione e abbinamento.

È comune, inoltre, la valutazione dei prodotti con simboli posizionati sul lato destro delle pagine.

Come già rilevato le due guide presentano forti elementi di assonanza nella sequenza degli argomenti (…)”.

In base a tali argomentazioni, il Tribunale ha accolto le domande proposte da Bibenda Editore e ha inibito all’Associazione Italiana Sommelier di pubblicare per le annualità future la guida Vitae, salvo adeguamenti idonei a differenziarla in maniera sostanziale dalla guida Bibenda.

Continua la causa contro Facebook a Milano.

Il prossimo 4 aprile a Milano, davanti alla Corte d'Appello Civile, si aprirà la causa di secondo grado nei confronti di Facebook, condannata per la prima volta in Italia la scorsa estate per concorrenza sleale e per violazioni del diritto di autore sulla banca dati rappresentata da Faround, applicazione di geolocalizzaizone creata nel 2012 con il nome di Facearound dalla società milanese Business Competence Srl. La Sezione Specializzata in materia di Impresa del Tribunale di Milano con sentenza n. 9549 del primo agosto 2016 aveva statuito che l'applicazione Nearby di Facebook utilizzerebbe la stessa banca dati elettronica dell’applicazione Faround. Faround seleziona i dati presenti sui profili Facebook degli utenti registrati organizzandoli e visualizzandoli poi su una mappa interattiva, dove vengono indicati gli esercizi commerciali più vicini alla posizione dell’utilizzatore, con anche recensioni e informazioni su sconti ed offerte. Per quanto tali dati non siano di proprietà di Faround che, anzi, li ha ottenuti accedendo a Facebook in veste di sviluppatore indipendente, la modalità della loro organizzazione detiene un certo grado di originalità che permette di tutelarli come banca dati coperta da diritto d'autore. Infatti, “i precedenti programmi elaborati da Facebook (Facebook Places) e da terzi (Foursquare e Yelp) non avevano le stesse funzionalità di Faround: il primo era una sorta di cerca-persona che consentiva solo di rilevare la presenza di amici nelle vicinanze e non, piuttosto, una geolocalizzazione di esercizi commerciali vicini all'utente, mentre gli altri erano studiati sulla base di algoritmi logici che lavoravano sui dati inseriti dai soggetti iscritti ai rispettivi social network, e non di Facebook, ben più diffuso". Proprio per questo motivo, la Business Competence Srl aveva accusato Facebook di avere rubato il concept e il format dell’applicazione, lanciando la sua Nearby, identica nel contenuto. Inoltre, essendo stata sviluppata in breve tempo, Nearby attirò anche i principali inserzionisti professionali, perpetrando una condotta sleale nella forma dello storno di clientela in riferimento al business pubblicitario. Il Tribunale di Milano, dopo aver constatato l’effettiva uguaglianza delle funzionalità delle due applicazioni e averle definite “sovrapponibili”, con la suddetta sentenza ha condannato la società di Zuckerberg alla pubblicità della decisione attraverso la sua pubblicazione su il "Corriere della Sera" e "Il Sole 24 Ore" nonché, per almeno quindici giorni, sulla pagina iniziale di facebook.com. Ha, inoltre, proibito ogni ulteriore utilizzo in Italia dell'applicazione Nearby disponendo una penale pari a 45mila euro per ogni giorno di violazione di tali disposizioni. Non sono, invece, ancora stati liquidati i danni dovuti alla parte offesa. Facebook ha impugnato la decisione davanti alla Corte d'Appello di Milano, la quale, nonostante debba ancora pronunciarsi sul ricorso, ha rigettato l'istanza di sospensione della misura provvisoria decisa in primo grado.