L’andamento del settore Food Retail nel 2021 avverte segnali positivi anche se ovviamente risente ancora del negativo riverbero socio-economico della pandemia Covid-19. Nel corso del 2020 l’emergenza sanitaria ha colpito duramente tutto il settore della ristorazione che a causa delle prolungate e intermittenti fasi di lock down ha vissuto momenti drammatici. Sotto l’aspetto dell’attività legale di assistenza e consulenza al settore Food Retail il 2020 è stato segnato da una prolungata attività negoziale rivolta alla ricerca dell’equilibrio tra le ragioni dei locatori e le richieste di riqualificazione del canone da parte delle aziende. Il risultato di questa attività è stato mediamente positivo, in termini di raggiungimento di accordi equilibrati di revisione del canone, ma nel complesso l’impatto del fattore pandemico è stato molto severo in termini di calo dei fatturati per tutto il comparto, che ha visto anche il susseguirsi di numerose chiusure di attività che sicuramente hanno colpito per lo più, ma non solo, quelle aziende che avevano pregresse problematiche di capitalizzazione e di instabilità finanziaria già in epoca pre-covid. Gli operatori del settore hanno, peraltro, riscontrato una scarsa efficacia e proporzionalità delle misure economiche di sostegno disposte dal Governo. Nel 2021, soprattutto nel secondo semestre, pur nella permanenza di una diffusa incertezza sugli scenari economici a breve e medio termine e in concomitanza con un inizio di ripresa dei flussi di cassa delle aziende, anche se non certamente pari ai livelli pre-covid, si sono avvertiti segnali incoraggianti anche per quanto riguarda la ripresa dei piani di sviluppo. L’attività di negoziazione si è così maggiormente rivolta alle trattative per le nuove aperture, che hanno visto un cauto risveglio delle iniziative di acquisizione di locali commerciali e di altri posizionamenti in ambito Retail. D’altra parte anche le evidenti e in certi casi favorevoli opportunità offerte dal mercato spesso vengono affrontate con una certa prudenza, determinata dalla consapevolezza che il periodo di emergenza è tutt’altro che terminato. Quanto al target del posizionamento si segnala una netta predisposizione alla ricerca di location dotate di ampi dehors esterni, in ragione delle mutate abitudini della clientela che predilige senz’altro un’offerta con caratteristiche di maggiore vivibilità outdoor. Un possibile freno allo sviluppo è invece costituito dal fenomeno della ormai cronica indisponibilità di personale qualificato.
Divieto di concorrenza nella cessione d’azienda: il silenzio può costare caro
Importante disposizione che occorre tener in considerazione quando ci si appresta a una cessione di azienda, di un ramo di azienda o in ogni caso ad un’operazione assimilabile alla stessa, è l’art. 2557 del codice civile in materia di concorrenza.
L’art. 2557 c.c. sancisce, a specifica tutela dell’acquirente di un’azienda, il divieto per il cedente, in seguito al perfezionamento dell’operazione, di condurre attività concorrenziale, per un periodo di tempo massimo di cinque anni dall’avvenuta cessione. Pertanto, quale effettuo naturale ed automatico della cessione, chiunque proceda all’alienazione di un’azienda dovrà astenersi dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta.
Due sono le questioni che occorre evidenziare: da una parte l’applicazione automatica del divieto e dall’altra la forza estensiva e l’applicazione analogica dello stesso.
Analizzando per punti:
a) L’applicazione automatica del divieto: il divieto di concorrenza è posto dal legislatore quale effetto naturale della cessione d’azienda, alla base della funzione economica sociale dell’operazione stessa. Pertanto, nel silenzio delle parti, tale divieto dispiegherà i propri effetti indipendentemente da una esplicita volontà in tal senso. Di conseguenza, se non disposto diversamente, si applicherà automaticamente il divieto nei limiti e alle condizioni imposte dal legislatore.
Tuttavia, è concesso alle parti di derogare al divieto di concorrenza sia nell’ipotesi di un affievolimento che di un irrobustimento dello stesso. Innanzitutto, con riguardo alla durata del medesimo, è possibile prevedere una durata inferiore ai 5 anni previsti dal legislatore, ma mai superiore e ciò in ragione della tutela dell’iniziativa privata del cedente. Inoltre, l’ambito di applicazione del divieto può essere limitato da un punto di vista dell’oggetto o dell’ubicazione e pertanto si potrà impedire al cedente di esercitare l’attività in concorrenza soltanto in un delimitato territorio e per specifiche attività. Al contrario, in maniere specularmente opposta, è possibile prevedere limiti che vadano ad ampliare l’efficacia del disposto normativo, estendendo l’oggetto del divieto ad attività ulteriori rispetto a quelle già esercitate tramite l’azienda ceduta. In ogni caso, le eventuali deroghe “peggiorative” imposte a carico del cedente non possono essere tali da impedire di fatto lo svolgimento di ogni attività professionale da parte del medesimo.
b) Forza estensiva e applicazione analogica del disposto: la Cassazione ha in più di un’occasione ribadito il carattere non eccezionale del divieto e pertanto ha riconosciuto, a più riprese, l’applicazione analogica dell'articolo 2557 c.c.. Di conseguenza, pare opportuno individuare le fattispecie e le operazioni assimilabili alla cessione d’azienda alle quali è possibile estendere tale divieto.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere possibile l'applicazione analogica del divieto a tutte le ipotesi in cui nella sostanza si realizzino operazioni assimilabili e analoghe alla cessione di azienda o di un ramo di essa. La giurisprudenza ha riconosciuto l’applicazione automatica del divieto anche nel caso della cessione di partecipazioni di maggioranza di una società. La violazione di tale divieto, inoltre, si realizzerebbe sia nel caso in cui i soci cedenti costituiscano una nuova società con medesimo oggetto sociale di quella ceduta sia nel caso in cui gli stessi assumano la qualifica di amministratori in una società concorrente. L’esigenza di tutela del cessionario è sempre la medesima, si pensi, ad esempio, alla possibilità di sviamento della clientela derivante dal subentro nella gestione aziendale di un soggetto che, essendo noto alla clientela, della quale conosce tendenze e abitudini, può avere sulla stessa un a considerevole capacità di attrazione . Pertanto, al fine di valutare la possibile applicazione analogica del disposto dell’art. 2557 c.c., anche in ragione della sua applicazione automatica, occorre valutare caso per caso la volontà sottesa delle parti e il risultato economico che intendono perseguire con una determinata operazione. Non di rado, infatti, la scelta fra cessione d'azienda o di partecipazioni sociali è determinata principalmente da ragioni di opportunità fiscale o di limitazione delle responsabilità del cessionario.
Occorre precisare che la violazione del divieto di concorrenza disciplinato all’art. 2557 c.c. darebbe titolo al cessionario di richiedere:
a) la risoluzione per inadempimento contrattuale.
b) Il risarcimento del danno patito e subito a conseguenza della violazione (pari, ad esempio, al minor guadagno o alla diminuzione del valore dell’azienda dovuto allo sviamento della clientela);
c) l’inibitoria, in via cautelare, della condotta illecita ai sensi dell’art. 700 c.p.c.
In conclusione, tenuto conto dell’effetto automatico della normativa qui analizzata, quando ci si appresta a operazioni che di fatto realizzano una sostituzione di un soggetto a un altro nella conduzione dell'impresa e nell’esercizio di una data attività, è necessario, onde evitare di incorrere in spiacevoli sorprese, muoversi di conseguenza, disciplinando l’applicazione e la portata del divieto.
Operazioni a premio: rapporti con Facebook e Instagram
Accade sempre più spesso di imbattersi sui Social Network, quali Facebook e Instagram, in operazioni e concorsi che prevedono l’assegnazione di premi, sconti e rimborsi attribuiti agli utenti in cambio della pubblicazione di un “post” o della condivisione di una “storia” su Instagram.
Questi fenomeni, sempre più in crescita, sono infatti vincenti attività di Marketing che hanno come idea centrale quella di rendere protagonisti dell’attività promozionale gli utenti stessi, invitandoli a realizzare contenuti e a promuovere in prima persona un determinato prodotto.
Dal punto di vista giuridico però, la normativa applicabile è piuttosto rigida e, al contrario delle manifestazioni a premio, non fa sconti.
Il nostro ordinamento prevede una disciplina (DPR 430/2001) che ricomprende la maggior parte delle manifestazioni a premio che siamo abituati a vedere sui Social Network e le distingue tra: •concorsi a premio •operazioni a premio I primi consistono in iniziative promozionali attraverso le quali vengono aggiudicati premi senza alcuna condizione d’acquisto, perciò l’attribuzione del premio dipenderà unicamente dalla sorte, da un sistema informatico o da un algoritmo. Le seconde, invece, consistono nell’indizione di un contest con il quale viene offerto un premio a tutti coloro che abbiano acquistato un prodotto durante il periodo di indizione della promozione. Sono previste solo poche eccezioni e deroghe alla disciplina, ad esempio, restano escluse dall’applicazione della normativa i concorsi che hanno finalità sociali, quelli che prevedano la produzione di opere letterarie, scientifiche o artistiche oppure nel caso in cui il premio sia rappresentato da uno sconto o da oggetti di minimo valore.
Occorre inoltre considerare che per organizzare un concorso sui principali Social Network, quali Facebook e Instagram, è necessario rispettare le specifiche condizioni previste in materia dal Social Network stesso ed in particolare, escludere esplicitamente nel regolamento della promozione ogni associazione allo stesso, manlevandolo da responsabilità che possano derivare dall’indizione dell’operazione o del concorso.
Inoltre, il Ministero dello Sviluppo Economico, mediante le FAQ aggiornate e pubblicate il 13 febbraio 2020, ha chiarito alcuni punti particolarmente spinosi della normativa.
Si è infatti evidenziato come sia possibile escludere l’associazione con i Social Network e di conseguenza dispensarli da ogni responsabilità, solo nel caso in cui si garantiscano le pari opportunità per tutti i partecipanti. Pertanto, l’iscrizione al Social Network non può costituire un limite alla partecipazione all’iniziativa promozionale e sarà, quindi necessario riservare la partecipazione al concorso solo a coloro che erano già iscritti al Social Network prima dell'inizio della promozione oppure offrire agli utenti la possibilità di partecipare anche mediante modalità diverse e alternative.
Altro elemento importante e particolarmente limitante è la localizzazione del server di acquisizione delle partecipazioni alla promozione che necessariamente deve trovarsi sul territorio italiano.
In conclusione, l’organizzazione di operazioni o concorsi a premio può a volte non risultare semplice ed immediata. Sarà necessario un lasso di tempo minimo di preparazione ad esempio per provvedere alla redazione di un dettagliato regolamento e talvolta, nei casi richiesti dalla normativa, per comunicare avviso dell’indizione del concorso al Ministero delle Attività produttive, per versare la cauzione pari al valore dei premi nel loro complesso o per dotarsi di una privacy policy a prova di GDPR.
Diritto di ripensamento del consumatore nei contratti di vendita a distanza e protezione del venditore: una tutela asimmetrica?
L’art. 52 del D. Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) disciplina il c.d. diritto di recesso o di ripensamento a favore dei consumatori, ovvero delle persone fisiche che agiscono per scopi estranei alla propria attività professionale ed imprenditoriale. Tale recesso - cui consegue la restituzione del corrispettivo pagato per l’acquisto del bene - è esercitabile nei contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali e può avvenire senza alcuna penalità e senza specificazione del motivo, ma necessariamente entro il termine di quattordici giorni decorrente, nei contratti di vendita di beni, dalla data di materiale consegna al consumatore degli stessi.
La ratio della disciplina relativa al diritto di recesso (di matrice europea) è quella di tutelare il consumatore che ha effettuato un acquisto a distanza (ad esempio online) e non ha potuto visionare il prodotto prima della conclusione del contratto. Per utilizzare le parole della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sent. n. 430/17 del 23 gennaio 2019) “si reputa che il diritto di recesso compensi lo svantaggio che risulta per il consumatore da un contratto a distanza, accordandogli un termine di riflessione appropriato durante il quale egli ha la possibilità di esaminare e testare il bene acquistato”.
Tale diritto non è però sempre ed indistintamente garantito in quanto l’art. 59 del Codice del Consumo elenca delle fattispecie tassative in cui viene escluso per legge a priori. Tra le esclusioni previste dalla norma non è tuttavia contemplata la semplice e diversa fattispecie in cui la confezione e l’imballaggio del prodotto siano materialmente aperti e questa omissione ha creato nel corso del tempo una c.d. zona grigia interpretativa non risultando chiaro se, in tale caso, fosse ancora possibile per il consumatore recedere legittimamente dal contratto ed esigere la restituzione del corrispettivo pagato.
Dopo diversi contrasti ed interpretazioni difformi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è però intervenuta sul punto precisando che il recesso è consentito anche dopo aver utilizzato l’oggetto e aperto l’imballaggio (così Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sent. n. 681/17 del 27 marzo 2019). La Corte ha infatti ritenuto che non si possa subordinare l’esercizio del diritto di recesso all’integrità del prodotto: salve specifiche eccezioni, anche chi rimuove materialmente l’intero imballaggio o la semplice pellicola protettiva deve poter sempre restituire la merce a seguito dell’uso, purché sia rispettato il suddetto termine di legge di quattordici giorni e la merce non sia stata in altro modo danneggiata dall’acquirente.
Alla luce dell’esponenziale incremento degli acquisti online degli ultimi anni, la fattispecie qui discussa si verifica ormai in un numero di casi sempre maggiore, ponendo i venditori (che non sono sempre piattaforme di vendita in posizione dominante sul mercato) in una complicata e problematica gestione del processo di vendita. Il prodotto oggetto di restituzione e privato del suo imballaggio originario non è infatti, nella maggioranza dei casi, considerabile come nuovo e non può pertanto essere venduto come tale sul mercato alle condizioni originarie con conseguente riduzione del prezzo della successiva vendita.
Quando ciò si verifica, l’esercizio del c.d. diritto del consumatore si trasforma simmetricamente in un pregiudizio evidente per il venditore che si trova, suo malgrado, a dover subire un danno inevitabile collegato al mero ripensamento dell’acquisto. Quest’ultimo, al fine di eliminare o quantomeno mitigare gli effetti negativi del diritto di ripensamento, potrebbe in definitiva valutare di porre in essere autonomamente azioni di “autotutela” della propria posizione contrattuale (ad esempio predisponendo, ove possibile, un nuovo imballaggio e ponendo in vendita come nuovi beni che in realtà non lo sono) con pregiudizio, in definitiva, proprio del consumatore che la normativa intendeva a tutti i costi tutelare.
La determinazione giudiziale dei compensi degli amministratori di società di capitali
L’ordinamento italiano riconosce agli amministratori delle società di capitali il diritto ad ottenere un compenso per le attività svolte in adempimento del mandato ricevuto. Al riguardo, infatti, come qualsiasi attività professionale, anche tale incarico è da considerarsi conferito, quantomeno in via presuntiva, a titolo oneroso.
L'amministratore di una società, con l'accettazione della carica, acquisisce pertanto il diritto ad essere remunerato per l'attività svolta in esecuzione dell'incarico affidatogli e l’entità del compenso potrà essere determinata, alternativamente o cumulativamente, nell’atto costitutivo, nell'atto di nomina o da una successiva autonoma delibera dell’assemblea dei soci (non potendo considerarsi implicita la determinazione del compenso nella delibera di approvazione del bilancio).
Nel caso in cui vengano invece a mancare tali atti formali, il compenso deve intendersi non definito, rimanendo prive di effetti eventuali ulteriori e diverse forme di determinazione, tra cui ad esempio l'accordo orale eventualmente intervenuto fra l’amministratore stesso ed il socio di maggioranza.
Pertanto, ove l’atto costitutivo nulla disponga al riguardo ovvero l’assemblea dei soci ometta di procedere alla relativa quantificazione o, ancora, la determini in misura assolutamente inadeguata, l’amministratore potrà ricorrere all’Autorità giudiziaria al fine di richiedere una specifica determinazione giudiziale anche mediante una liquidazione in via equitativa dello stesso.
Quanto ai profili legati alla menzionata determinazione giudiziale, è necessario chiarire che non esiste un compenso minimo, tanto è vero che gli amministratori possono rinunciare integralmente al compenso o accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguata al lavoro svolto. In tali ultime ipotesi, deve essere però ravvisabile il loro consenso, anche se desumibile da tacite condotte che siano interpretabili in modo univoco circa tale volontà abdicativa, non essendo viceversa sufficiente la mera inerzia o il silenzio.
Come è stato recentemente chiarito da una pronuncia del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di imprese (pubblicata il 22 giugno 2020), ai fini della liquidazione in via equitativa del compenso dovuto ad un professionista, il giudice di merito investito della relativa domanda giudiziale dovrà tener conto, oltre che della natura dell’incarico, anche della quantità e qualità dell’attività concretamente svolta dall’amministratore.
In particolare, il giudice adito dovrà quantificare l’ammontare del compenso dovuto all’amministratore in maniera proporzionale all'entità delle prestazioni eseguite da quest’ultimo ed al risultato utile effettivamente conseguito dal mandante (ovvero la società), posto che la determinazione concreta del compenso non può, per sua natura, che essere effettuata con giudizio di tipo equitativo, lasciando ampia facoltà discrezionale in capo all’Organo giudicante.
In un giudizio di liquidazione del compenso azionato da un amministratore di società di capitali, non si può pertanto prescindere dall’allegazione e dalla prova specifica della qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte, risultando insufficiente la mera indicazione del compenso pattuito in esercizi sociali di anni diversi o a favore di diversi amministratori in analoghe posizioni.
La determinazione equitativa del compenso spettante all’amministratore dovrà basarsi, in definitiva, sull’apprezzamento dei dati ricavabili dai documenti prodotti, elementi dai quali, congiuntamente valutati, potrà ricavarsi l’effettiva entità, estensione e rilevanza dell’attività in concreto svolta dal singolo amministratore.
Società di capitali e attività agricola
1) L’azienda agricola nella forma di società di capitali
L’attività agricola, che storicamente in Italia ha assunto perlopiù la forma dell’impresa individuale o dell’impresa familiare, può essere esercitata in realtà anche sotto altre forme societarie. Queste ultime, infatti, da un lato, consentono l’esercizio aggregato dell’impresa e dall’altro, sono capaci di fornire una maggiore tutela del patrimonio personale.
2) Criticità: il diritto di prelazione agraria
La prelazione agraria consiste nel diritto di essere preferiti ad altri per l’acquisto di un terreno agricolo, quando il proprietario decide di venderlo.
In base al disposto all’art. 8 della L. 590/1965, il diritto di prelazione spetta innanzitutto al coltivatore diretto (o società agricola in cui almeno la metà dei soci è coltivatore diretto) che conduce in affitto, da almeno due anni, il terreno offerto in vendita. Ai sensi dell’art. 7 della L. 817/1971, inoltre, ove il terreno non sia concesso in affitto ad un coltivatore diretto (o società agricola), il diritto di prelazione sorge in capo ai coltivatori diretti (o società agricole in cui almeno la metà dei soci è coltivatore diretto) proprietari di terreni confinanti. Sono invece escluse dal diritto di prelazione le società agricole di persone in cui meno della metà dei soci è coltivatore diretto, indipendentemente dalla presenza di imprenditori agricoli professionali, e sono sempre escluse le società di capitali, anche in presenza di soci coltivatori diretti.
La ratio di queste norme è stata individuata, in passato, nell’esigenza di favorire l’acquisto di terreni agricoli da parte dei coltivatori diretti. Il legislatore si era posto infatti come scopo quello di migliorare le strutture produttive dell’agricoltura. In particolare, nella prelazione del conduttore, si realizza la promozione (o costituzione) di nuova proprietà, mediante la riunione nella stessa persona del conduttore della titolarità dell’impresa agricola e della titolarità del terreno su cui questa è esercitata, favorendo così la continuazione della stessa; nella prelazione del confinante si realizza un ampliamento della proprietà diretta coltivatrice, mediante l’accorpamento di terreni confinanti, tali da creare aziende agrarie maggiormente dimensionate e più efficienti sotto il profilo tecnico ed economico.
Il difetto di prelazione agraria in capo alle società di capitali sarà dunque un elemento da valutare attentamente nella scelta della forma societaria da adottare nel caso concreto.
3) I requisiti della società agricola costituita nelle forme di società di capitali
Come già anticipato, le società agricole possono certamente essere costituite anche nelle forme di società di capitali. Il nostro ordinamento prevede infatti la possibilità che S.r.l. (Società a responsabilità limitata), S.r.l.s. (Società a responsabilità limitata semplificata) e S.p.a. (Società per azioni), possano assumere la qualifica di “Società agricola” a condizione, però, che posseggano i seguenti tre essenziali requisiti: a) esercizio esclusivo di attività agricole e attività connesse; b) indicazione obbligatoria della qualità di “Società Agricola”; c) possesso di determinate qualifiche professionali.
A. Esercizio esclusivo di attività agricole e attività connesse
Quanto al primo requisito, le società devono avere come oggetto sociale esclusivo l’esercizio dell’agricoltura e delle attività ad essa connesse.
A tal proposito, l’art. 2135 c.c. introduce una definizione di queste attività che, in sintesi, riguardano:
la coltivazione del fondo;
la silvicoltura;
l’allevamento di animali;
tutte le altre attività connesse.
La norma letteralmente specifica che “Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.
Per quanto riguarda le attività connesse, quest’ultime sono definite quali:
- attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali;
- attività dirette alla fornitura di beni o servizi utilizzando prevalentemente le attrezzature o risorse dell’azienda agricola;
- altre attività dirette, ad esempio, alla gestione degli agriturismi.
Le attività connesse, dunque, affiancandosi alle attività principali, hanno lo scopo di rendere l'impresa agricola polifunzionale. Per essere considerate connesse, inoltre, si prende in considerazione sia l'elemento oggettivo, e dunque l'attività svolta, che l'elemento soggettivo, cioè che l'attività debba essere svolta dal medesimo imprenditore che esercita l'attività principale.
B. Indicazione obbligatoria della qualità di “Società Agricola”
Quanto al secondo requisito, l’art. 2 del D. Lgs. n. 99/2004 stabilisce che l’indicazione di “società agricola”, ossia di società che abbia come oggetto sociale l’esclusivo esercizio di attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., deve risultare dalla ragione o dalla denominazione sociale. Al primo comma si stabilisce, infatti, che la ragione sociale o la denominazione sociale delle società che hanno quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività di cui all'articolo 2135 c.c. deve contenere l'indicazione di “Società agricola”. Va precisato che non si tratta ovviamente di un nuovo tipo di società: le società costituibili sono sempre quelle indicate nel codice civile, le quali, nel caso di esercizio esclusivo delle attività agricole, dovranno recare nella denominazione o ragione sociale l’indicazione di “Società agricola”.
C. Possesso di qualifiche professionali
Quanto al terzo ed ultimo requisito, a norma dell’art. 1 del D. Lgs. n. 99/2004, almeno un amministratore deve possedere il requisito di imprenditore agricolo professionale (I.A.P.) (o di coltivatore diretto se a sua volta munito dei requisiti per assumere la qualifica di I.A.P.). Data la possibilità che, nelle società di capitali, l’amministrazione possa anche essere affidata a non soci, si potrebbe avere il caso di una società agricola in cui nessuno dei soci sia un imprenditore agricolo o coltivatore diretto. Anche nel caso in cui la società sia unipersonale, la presenza di almeno un amministratore con i suddetti requisiti, permette alla società di maturare la qualifica di società agricola e l’accesso alle agevolazioni connesse.
Va precisato, inoltre, che la qualifica di imprenditore agricolo professionale I.A.P. può essere apportata dall’amministratore ad una sola società, con lo scopo di evitare la creazione di cariche amministrative fittizie, al solo fine di ottenere le agevolazioni spettanti alle società agricole.
4) Il percorso per costituire una società agricola nelle forme delle società di capitali
La società agricola può dunque essere costituita nella forma di società di capitali ricorrendo i tre requisiti sopra indicati.
Particolare attenzione va pertanto prestata alla figura dell’amministratore qualificato.
Anzitutto è “imprenditore agricolo professionale (I.A.P.) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999, dedichi alle attività agricole di cui all'art. 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.
Normalmente chi è coltivatore diretto ha anche tutti i requisiti per essere considerato imprenditore agricolo professionale, ma ciò non avviene necessariamente, perché i requisiti richiesti dall’ordinamento per queste due figure professionali operano su due piani differenti.
Di seguito riportiamo, senza pretesa di completezza, la sequenza degli adempimenti più significativi per la costituzione di una società agricola nella forma di S.r.l. ordinaria e/o semplificata:
1. costituzione della società agricola sotto forma di S.r.l. ordinaria e/o semplificata;
2. apertura della Partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate;
3. attivazione di una casella di posta elettronica certificata;
4. iscrizione della società nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese e nel REA repertorio economico amministrativo della provincia dove è situata la sede legale della società;
5. acquisizione da parte della società di un’azienda agricola avviata e/o avvio di un’azienda agricola da parte della Società, mediante la conduzione in affitto del fondo rustico e/o comodato d’uso dello stesso;
6. presentazione della domanda di “Inizio attività” presso il Registro delle Imprese della provincia dove è situata la sede legale della società, con contestuale iscrizione della Società nella “sezione speciale Agricola”;
Per concludere, l’incombente più rilevante e successivo alla costituzione della società, all’apertura della partita IVA e agli ulteriori adempimenti non inclusi nell’elenco di cui sopra (quali ad esempio la scelta del regime IVA applicabile) consisterà, ovviamente, nell’acquisizione o nell'avvio ex novo di un’azienda agricola.
Il deposito abusivo di una domanda di concordato preventivo c.d. “in bianco” e la conseguente responsabilità dell’organo gestorio.
Capita sempre più spesso che le società in stato di crisi ricorrano - anche nel caso in cui siano già state proposte nei loro confronti delle istanze di fallimento - al deposito una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo con riserva (anche noto come concordato c.d. in bianco).
L’art. 161 R.D. 267/1942 (“Legge Fallimentare”) riconosce infatti all’imprenditore in stato di crisi la possibilità di depositare un ricorso contenente la domanda di concordato preventivo - accompagnata dai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e dall’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei relativi crediti - riservandosi invece di presentare la proposta, il piano e la specifica documentazione prevista dalla Legge fallimentare entro uno specifico momento fissato dal giudice. Entro detto termine, che è per legge compreso tra 60 e 120 giorni ed è prorogabile per un periodo non superiore a 60 giorni in presenza di giustificati motivi, l’impresa ha facoltà di depositare alternativamente una proposta di ristrutturazione dei debiti oppure di concordato preventivo. In caso invece di inutile decorso del termine, il debitore perde i vantaggi connessi e può essere dichiarato fallito.
La motivazione ed i benefici connessi a tale procedura sono ormai noti.
La stessa consente infatti al debitore di ottenere immediatamente il beneficio della tutela del proprio patrimonio, in virtù dell’applicabilità – decorrente dalla data di pubblicazione presso il registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo presentato in tribunale e sino alla data di eventuale omologazione – del divieto, posto in capo ai creditori, di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore (art. 168 Legge Fallimentare).
Come è noto, però, non sempre le finalità che animano il deposito della domanda di concordato preventivo in bianco sono realmente genuine e finalizzate all’ordinata soddisfazione, anche se parziale, dei creditori, ma piuttosto lo scopo è quello di posticipare in modo strumentale il momento del fallimento. Questo modus operandi, ove venga accertato, può essere però fonte di responsabilità a carico dell’organo gestorio della società.
Sul tema è infatti intervenuta una recente sentenza del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di imprese (pubblicata in data 1 giugno 2020), che ha esaminato i profili di responsabilità insiti nella condotta dell’organo gestorio, chiarendo che il comportamento dell’amministratore che presenta una domanda di concordato in presenza del presupposto dello stato di insolvenza della società non può essere considerato di per sé ed automaticamente generatore di responsabilità per il risarcimento del danno, anche nel caso in cui la proposta di concordato venga, in ipotesi, dichiarata inammissibile o l’ammissione venga successivamente revocata (artt. 162 e 173 l.f.). Una responsabilità degli amministratori in questo senso può invece configurarsi solo quando la domanda sia da considerarsi abusiva e cioè unicamente finalizzata, con ragionevole probabilità, a posticipare fraudolentemente il fallimento della società in danno dei creditori.
Il danno connesso a questa fattispecie può essere ad esempio ricavato dai costi “inutilmente” sopportati dalla società a seguito della presentazione della domanda di concordato preventivo, depositata in uno specifico momento in cui, non sussistendo in concreto i presupposti per accedere al concordato preventivo, gli amministratori avrebbero viceversa dovuto chiedere il fallimento in proprio della società gestita.
Una ulteriore pronuncia del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di imprese (pubblicata in data 30 ottobre 2019), di poco precedente a quella summenzionata, ha inoltre chiarito che l’adozione di tattiche dilatorie – fra cui il deposito di una domanda di concordato in bianco senza redazione del piano – può comportare una specifica responsabilità del liquidatore per l’aggravamento del dissesto. In tale ipotesi il danno derivante potrebbe ricavarsi proprio dall’incremento, altrimenti evitabile, della situazione debitoria dell’impresa.
Si evidenzia ad ogni modo che la nomina anticipata del Commissario Giudiziale - di recente introdotta nella Legge Fallimentare - ha contribuito a ridurre il numero di ricorsi depositati da parte di quelle imprese che, abusando dell’istituto ed avvalendosi del vantaggio concesso di sospensione delle eventuali azioni esecutive, avevano come unica finalità quella di cercare di posticipare la dichiarazione di fallimento e quindi impedire ai creditori di soddisfare le loro pretese sui beni residui.