La tutela del modello registrato assorbe quella di concorrenza sleale e look alike

Il mercato dei prodotti per la cura delle piante vede fronteggiarsi imprese che condividono i medesimi punti vendita specializzati: si tratta di garden center e vivai, che offrono in vendita i prodotti per tipologia, allocandoli in scaffali o settori contigui.

Per distinguere i propri prodotti da quelli dei concorrenti, Vigorplant, che produce e commercializza terricci e fertilizzanti, aveva lanciato nel 2019 una nuova gamma di cinque terricci caratterizzata da un packaging con un colore diverso per tipologia di prodotto e un nuovo prodotto top di gamma.

Il packaging presentava, oltre a una colorazione specifica secondo la categoria di terriccio che conteneva, una peculiare suddivisione del sacchetto in due parti e la collocazione di tre pittogrammi esemplificativi della performance del prodotto in una zona specifica del sacchetto.

Il terriccio top di gamma, aveva, a sua volta, uno specifico packaging di riferimento, composto di uno speciale materiale che rendeva il sacchetto di colorazione blu cangiante ed era stato anche registrato come modello semplice.

Poco tempo dopo il lancio sul mercato di questi packaging, Vigorplant rinveniva sul mercato i prodotti di un concorrente, Tercomposti S.p.A., presentati in dei contenitori che riproducevano la suddivisione per colori, la rappresentazione stilizzata dei prodotti di riferimento e gli stessi pittogrammi collocati nella medesima posizione di quelli dei packaging Vigorplant.

Ravvisando un pregiudizio per il successo commerciale dei propri terricci, Vigorplant proponeva un ricorso cautelare per inibitoria e sequestro nei confronti dei packaging di Tercomposti e inquadrava giuridicamente la vicenda come atto di concorrenza sleale confusoria, parassitaria sinronica e per look-alike (art. 2598 c.c.) e, con riferimento specifico al packaging del terriccio top di gamma, come violazione del proprio modello registrato (art. 31 c.p.i.) proprio di quel packaging.

Esaminando il fumus boni iuris, il Tribunale ha esaminato per prima cosa la doglianza relativa alla violazione del modello registrato, stabilendo che la privativa azionata da Vigorplant possedeva tutti i requisiti di validità stabiliti dagli artt. 32 - 33 bis del codice di proprietà industriale, ovvero: liceità, novità e carattere individuale.

Con specifico riferimento a quest’ultimo requisito - nonostante non sia possibile fare un uso esclusivo di elementi presenti sul packaging quali fiori, terra, pittogrammi informativi, colore blu - l’aspetto generale del sacchetto è stato ritenuto ben caratterizzato dalla specifica disposizione di questi elementi e dalla predominanza del colore blu con effetto cangiante, caratteristiche che, se non potevano essere rinvenute in altri prodotti lanciati sul mercato in epoca antecedente la registrazione, si ritrovavano invece nei sacchetti Tercomposti, che suscitavano la medesima impressione generale del modello di Vigorplant.

Alla luce del fatto che i sacchetti di Tercomposti non si discostavano sufficientemente dal modello di packaging Vigorplant, l’ordinanza in commento ha ritenuto sussistente una violazione della privativa del ricorrente e ha concesso la misura dell’inibitoria, assistita da penale, nei confronti della resistente con riferimento al packaging del prodotto “Superterriccio”.

Le altre confezioni commercializzate da Tercomposti non sono state, invece, ritenute in violazione dei packaging di Vigorplant perché si discostavano maggiormente dall’impressione generale suscitata dal modello registrato azionato.

Sotto il profilo della concorrenza sleale, il Tribunale ha ritenuto che le censure di parassitarietà e imitazione servile non fossero state supportate da prove sufficienti da parte della ricorrente.

Infatti, per quanto riguarda proprio l’imitazione servile, il ricorrente avrebbe dovuto – a detta del Tribunale - valorizzare tutti quegli elementi che potevano provare la distintività del proprio packaging.

Allo stesso modo la concorrenza sleale per look alike (ripresa delle caratteristiche di un prodotto noto) non è stata ritenuta provata sulla base del rilievo per cui non vi erano sulle confezioni Tercomposti elementi sufficienti a creare un collegamento tra i due prodotti, trattandosi di elementi decorativi con colori e con una disposizione diversa.

Anche per quanto riguarda la concorrenza parassitaria sincronica (che si sostanzia nella ripresa simultanea di tutti i prodotti o di molti prodotti di un concorrente), l’ordinanza in commento ha rilevato l’assenza di una ripresa generalizzata delle proposte commerciali di Vigorplant da parte di Tercomposti.

A fronte dei rilievi relativi al caso di specie, appare evidente che un’azione per concorrenza sleale, in tutte le sue declinazioni (parassitaria, imitazione servile, agganciamento) deve essere sempre suffragata da prove idonee a costituire quel substrato di indizi necessari a sostanziare la pretesa .

Tribunale di Milano, ordinanza 4 maggio 2021.

La restituzione delle addizionali provinciali alle accise sull'energia elettrica versate nel 2010 e 2011: ultima chiamata per i "consumatori finali"?

Fino al dicembre 2012 i fornitori di energia elettrica hanno automaticamente addebitato in bolletta alle imprese utilizzatrici l’imposta addizionale provinciale alle accise sull’energia elettrica, per un importo variabile in base alla provincia di erogazione.

Nel 2011, tuttavia, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato l’incompatibilità tra la normativa europea e quella italiana istitutiva dell’imposta addizionale provinciale all’accisa e quest’ultima è stata conseguentemente abrogata nel territorio italiano con decorrenza dal 1 dicembre 2012.

Ne è derivato un esteso e travagliato contenzioso che ha avuto epilogo nel 2019, quando la Suprema Corte di Cassazione, con alcune pronunce del tutto analoghe tra di loro e riguardanti fattispecie nelle quali le imprese utilizzatrici finali avevano generalmente agito nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per richiedere il rimborso delle accise versate, ha affrontato e risolto due temi specifici: (i) l’incompatibilità della disciplina nazionale sulle accise con la legislazione comunitaria e (ii) il conseguente possibile rimborso al consumatore finale delle imposte addizionali indebitamente riscosse.

La Suprema Corte ha in tale sede espresso i seguenti principi:

1) il soggetto obbligato al pagamento delle accise nei confronti dell’Amministrazione doganale è unicamente il fornitore;

2) il fornitore può addebitare integralmente le accise pagate al consumatore finale;

3) i rapporti tra fornitore e Amministrazione doganale, da una parte, e fornitore e consumatore finale, dall’altra, sono autonomi e non interferiscono tra loro;

4) in ragione della menzionata autonomia, il consumatore finale, anche in caso di addebito del tributo da parte del fornitore, non ha diritto a chiedere il rimborso delle accise indebitamente corrisposte direttamente all’Amministrazione finanziaria;

5) il diritto al rimborso nei confronti dell’Amministrazione finanziaria spetta unicamente al fornitore, che può eccezionalmente esercitarlo:

a. nel caso in cui non abbia addebitato l’imposta al consumatore finale, entro due

anni dalla data del pagamento (che diventa dies a quo per la prescrizione del diritto a chiedere il rimborso);

b. nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente nei suoi confronti una azione giudiziaria di ripetizione di indebito ed entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza;

6) nel caso di addebito delle accise e delle addizionali al consumatore finale, quest’ultimo può esercitare l’azione civilistica di ripetizione di indebito direttamente nei confronti del fornitore.

Le menzionate pronunce della Cassazione hanno pertanto riconosciuto l’inequivocabile diritto del consumatore finale, che ha un rapporto diretto di natura privatistica con il fornitore del servizio, di agire esclusivamente in sede civile nei confronti delle società fornitrici di energia elettrica al fine di accertare l’indebito pagamento effettuato a titolo di addizionale provinciale sull’accisa sull’energia elettrica nel periodo di riferimento 2010-2011 e richiederne quindi il rimborso integrale.

Ne è inoltre indirettamente emersa l’impossibilità sostanziale, per le medesime imprese fornitrici, di addivenire ad un accordo transattivo – conciliativo con il consumatore finale, sia stragiudizialmente che in giudizio, potendo le prime a propria volta esercitare la domanda di rimborso nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria soltanto nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente l’azione giudiziaria di ripetizione di indebito ed entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. Ciò implica che il consumatore finale, per quanto gliene sia stato chiaramente riconosciuto il diritto, potrà ottenere il rimborso delle accise e delle addizionali indebitamente versate al proprio fornitore nel biennio in questione (2010-2011) solamente promuovendo vittoriosamente la relativa azione giudiziale.

Ne sono seguite, a fine 2020, le prime rilevanti sentenze applicative di merito (Tribunale di Milano e Tribunale di Mantova) dove, accogliendo integralmente le domande di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ. promosse dalle società consumatrici finali nei confronti del fornitore di energia elettrica, i Tribunali hanno conseguentemente condannato il fornitore di energia elettrica a restituire alle società ricorrenti le somme versate a titolo di addizionali alle accise versate negli anni 2010 e 2011.

Accertata la debenza delle addizionali indebitamente versate, rimane a questo punto onere delle imprese utilizzatrici finali, prima di poter avviare l’eventuale iter giudiziario di rimborso,

adoperarsi al fine di interrompere tempestivamente e correttamente la decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito, che è pari a 10 anni.

Decorso questo termine, infatti, ogni pretesa e diritto del consumatore finale nei confronti delle società fornitrici di energia elettrica potrebbe essere definitivamente pregiudicata.

Ad oggi quindi, per chi non avesse interrotto il termine di prescrizione per l’anno 2010, rimane ancora la possibilità di farlo quantomeno per l’anno 2011.

La Corte di giustizia ritiene valido il marchio per la forma di una singola scanalatura di pneumatico (Yokohama Rubber vs Pirelli Tyre)

Alcuni giorni orsono la Corte di Giustizia della Comunità Europea (“CGCE”) ha emesso un provvedimento con il quale ha respinto l'azione di nullità proposta dal costruttore di pneumatici Yokohama contro la domanda marchio depositata da Pirelli per proteggere una mera parte del battistrada di un pneumatico come marchio.

Con tale decisione la CGCE ha riformato un precedente provvedimento della divisione di appello dell’EUIPO che aveva ritenuto che il disegno di una parte del battistrada non costituisse di per sé un marchio valido in relazione alla classe n. 12 della classificazione di Nizza, in quanto la scanalatura assolveva una funzione meramente tecnica e non distintiva. Tuttavia, nel 2018, la CGCE ha ribaltato questa decisione e ha confermato la registrazione del marchio contestato in particolare anche per questi prodotti.

Yokohama ha impugnato questa decisione davanti Corte di Giustizia Europea, che ha ora emesso una decisione finale in questa controversia (EU:C:2021:431). Anche l'Ufficio europeo dei marchi (EUIPO) e l'Associazione europea dei proprietari di marchi del Regno Unito sono intervenuti nella causa.

Come nei casi precedenti, la possibile funzione tecnica di una parte del battistrada Pirelli è stata ancora una volta oggetto di discussione davanti alla CGCE. Formalmente, sia Yokohama che l'EUIPO hanno fatto valere la violazione dell'articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), del regolamento 40/94 nella sentenza del Tribunale di primo grado del 2018 poi impugnata.

Secondo la CGCE, il Tribunale di primo grado ha erroneamente ritenuto che una singola scanalatura di un pneumatico, che costituiva il marchio contestato, non fosse di per sé in grado di svolgere una funzione tecnica ai sensi dell'articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), del regolamento n. 40/94 perché la scanalatura appariva in un battistrada di pneumatico in combinazione con altri elementi.

Contrariamente all'opinione della ricorrente, il Tribunale di primo grado non aveva escluso la possibilità che l'articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), del regolamento n. 40/94 si applichi a un segno la cui forma è necessaria per ottenere un risultato tecnico che contribuisce al funzionamento di un prodotto, anche se tale forma non è di per sé sufficiente per ottenere il risultato tecnico previsto di tale prodotto. La CGCE ha aggiunto che, al contrario, il Tribunale di primo grado aveva constatato che le prove presentate dalla Yokohama dinanzi all'EUIPO non dimostravano che una sola scanalatura di forma identica a quella rappresentata dal marchio in questione fosse in grado di ottenere il risultato tecnico ipotizzato nella decisione impugnata.

In sostanza, la Corte ha confermato le valutazioni del Tribunale secondo cui il marchio controverso non rappresenta il disegno di un battistrada e quindi non è costituito esclusivamente dalla forma dei prodotti in questione (in particolare pneumatici) ai sensi dell’articolo 7(e)(ii) del Regolamento (CE) n.ro 40/94. Esso rappresenta al massimo una singola scanalatura di un battistrada di pneumatico e non un battistrada di pneumatico, poiché non incorpora gli altri elementi di un battistrada di pneumatico.

Decreto Sostegni-bis: cosa cambia in tema di licenziamenti?

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Sostegni bis (D.L. 73/2021) si è giunti alla definizione di nuove linee guida su uno dei temi certamente più accesi e urgenti dall’inizio dell’”era Covid-19”. Il “nuovo” Decreto tiene fermo il termine del 30 giugno 2021, con una articolata rimodulazione del divieto dei licenziamenti in relazione all’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Cosa cambierà dunque a decorrere dal 1° luglio 2021?

  • Fino al 30 giugno 2021: Blocco dei licenziamenti generalizzato
  • Dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021: Blocco per aziende che beneficiano di CIGD, ASO o CISOA prevista dal Decreto Sostegni
  • Dal 1° luglio 2021 al 31 dicembre 2021 Blocco dei licenziamenti per aziende che beneficiano della CIGO senza pagare i contributi addizionali

Dunque:

Sino al 30 giugno 2021 (termine generale):

  1. resta precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo, ex artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991;
  2. restano sospese le procedure di licenziamento pendenti avviate in data successiva al 23 febbraio 2020;
  3. resta vietato il recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966;
  4. restano sospese le procedure in corso ex articolo 7 della medesima legge (L. n. 604/1966).

Dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021 ai datori di lavoro aventi diritto a FIS e CIGD:

  1. resta precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo, ex artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991;
  2. restano sospese le procedure di licenziamento pendenti avviate in data successiva al 23 febbraio 2020;
  3. resta vietato il recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966;
  4. restano sospese le procedure in corso ex articolo 7 della medesima legge (L. n. 604/1966).

Dal 1° luglio 2021 al 31 dicembre 2021 ai datori di lavoro che attivano la CIGO o la CIGS, per la durata del trattamento fruito e fino al 31 dicembre 2021:

  1. resta precluso l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo, ex artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991;
  2. restano sospese le procedure di licenziamento pendenti avviate in data successiva al 23 febbraio 2020;
  3. resta vietato il recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966;
  4. restano sospese le procedure in corso ex articolo 7 della medesima legge (L. n. 604/1966).

A quanto sopra appare opportuno aggiungere che il nuovo decreto (D.L. 73/2021) in alternativa agli ammortizzatori sociali ordinari, introduce la possibilità per i datori di lavoro di accedere a 26 settimane di Cassa integrazione guadagni straordinaria in deroga, nel periodo tra il 26 maggio 2021 (data di entrata in vigore del decreto) ed il 31 dicembre 2021. Tuttavia, la predetta misura è riservata solo ai datori di lavoro privati (di cui all’articolo 8 comma 1, D.L. Sostegni 1) che, terminate le 13 settimane di interventi Covid, potrebbero accedere solo alla CIG ordinaria. Limiti alla fruizione di questa CIGS speciale i seguenti:

  • la riduzione media dell’orario di lavoro per i dipendenti in CIGS non potrà essere superiore all’80% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile;
  • ciascun lavoratore non potrà subire una riduzione di orario superiore al 90%, con riferimento all’intero periodo interessato dalla CIGS.

Il datore di lavoro che abbia attivato la CIGS in deroga, fino al 31 dicembre 2021, è esonerato dal versamento del contributo addizionale, così come chi accederà alla CIGO o alla CIGS dal 1° luglio 2021, successivamente al periodo di fruizione delle 13 settimane Covid. In ultima analisi, il comma 5 dell’articolo 40 del D.L. Sostegni bis prevede in ogni caso la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro nelle seguenti ipotesi:

  1. cessazione definitiva dell’attività di impresa, conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione (anche parziale) dell’attività, nel caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.;
  2. vigenza di un accordo collettivo aziendale stipulato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale con il datore di lavoro che abbia ad oggetto l’incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro;
  3. fallimento, quando non è previsto l’esercizio provvisorio dell’impressa ovvero ne sia disposta la cessazione. Non resta che attendere l’auspicata cessazione dello “stato di emergenza” ad oggi prorogato sino al 31 luglio 2021 e la fine dell’anno per valutare possibili nuovi scenari in materia.

Operazioni a premio: rapporti con Facebook e Instagram

Mattia Raffaelli - PartnerSofia Mercedes Bovoli– Trainee

Mattia Raffaelli - Partner

Sofia Mercedes Bovoli– Trainee

Accade sempre più spesso di imbattersi sui Social Network, quali Facebook e Instagram, in operazioni e concorsi che prevedono l’assegnazione di premi, sconti e rimborsi attribuiti agli utenti in cambio della pubblicazione di un “post” o della condivisione di una “storia” su Instagram.

Questi fenomeni, sempre più in crescita, sono infatti vincenti attività di Marketing che hanno come idea centrale quella di rendere protagonisti dell’attività promozionale gli utenti stessi, invitandoli a realizzare contenuti e a promuovere in prima persona un determinato prodotto.

Dal punto di vista giuridico però, la normativa applicabile è piuttosto rigida e, al contrario delle manifestazioni a premio, non fa sconti.

Il nostro ordinamento prevede una disciplina (DPR 430/2001) che ricomprende la maggior parte delle manifestazioni a premio che siamo abituati a vedere sui Social Network e le distingue tra: •concorsi a premio •operazioni a premio I primi consistono in iniziative promozionali attraverso le quali vengono aggiudicati premi senza alcuna condizione d’acquisto, perciò l’attribuzione del premio dipenderà unicamente dalla sorte, da un sistema informatico o da un algoritmo. Le seconde, invece, consistono nell’indizione di un contest con il quale viene offerto un premio a tutti coloro che abbiano acquistato un prodotto durante il periodo di indizione della promozione. Sono previste solo poche eccezioni e deroghe alla disciplina, ad esempio, restano escluse dall’applicazione della normativa i concorsi che hanno finalità sociali, quelli che prevedano la produzione di opere letterarie, scientifiche o artistiche oppure nel caso in cui il premio sia rappresentato da uno sconto o da oggetti di minimo valore.

Occorre inoltre considerare che per organizzare un concorso sui principali Social Network, quali Facebook e Instagram, è necessario rispettare le specifiche condizioni previste in materia dal Social Network stesso ed in particolare, escludere esplicitamente nel regolamento della promozione ogni associazione allo stesso, manlevandolo da responsabilità che possano derivare dall’indizione dell’operazione o del concorso.

Inoltre, il Ministero dello Sviluppo Economico, mediante le FAQ aggiornate e pubblicate il 13 febbraio 2020, ha chiarito alcuni punti particolarmente spinosi della normativa.

Si è infatti evidenziato come sia possibile escludere l’associazione con i Social Network e di conseguenza dispensarli da ogni responsabilità, solo nel caso in cui si garantiscano le pari opportunità per tutti i partecipanti. Pertanto, l’iscrizione al Social Network non può costituire un limite alla partecipazione all’iniziativa promozionale e sarà, quindi necessario riservare la partecipazione al concorso solo a coloro che erano già iscritti al Social Network prima dell'inizio della promozione oppure offrire agli utenti la possibilità di partecipare anche mediante modalità diverse e alternative.

Altro elemento importante e particolarmente limitante è la localizzazione del server di acquisizione delle partecipazioni alla promozione che necessariamente deve trovarsi sul territorio italiano.

In conclusione, l’organizzazione di operazioni o concorsi a premio può a volte non risultare semplice ed immediata. Sarà necessario un lasso di tempo minimo di preparazione ad esempio per provvedere alla redazione di un dettagliato regolamento e talvolta, nei casi richiesti dalla normativa, per comunicare avviso dell’indizione del concorso al Ministero delle Attività produttive, per versare la cauzione pari al valore dei premi nel loro complesso o per dotarsi di una privacy policy a prova di GDPR.

Abusi di dominanza. Google/Android

L’Autorità antitrust italiana (AGCM) ha mostrato rinnovata attenzione nel combattere gli abusi di dominanza, sanzionando pesantemente Google (€102 milioni) per aver ostacolato l’accesso su Android Auto (AA - di proprietà di Google) ad un’applicazione (Juicepass) sviluppata da Enel e finalizzata alla ricerca/prenotazione di colonnine di ricarica elettrica per auto. La negata interoperabilità tra JuicePass e AA comportava che quando l’utente/conducente cercava le colonnine di ricarica su AA per localizzarle e prenotarsene una, quelle di JuicePass non gli apparivano.

Google, in tal modo, ha favorito la propria app Google Maps (e i suoi clienti inserzionisti di pubblicità, concorrenti di Enel), che poteva essere utilizzata su Android Auto, consentendo servizi funzionali alla ricarica dei veicoli elettrici in concorrenza con JuicePass. Quanto alla soglia di dominanza, ricordiamo che Android, e quindi AA, è utilizzato da circa il 75% degli utilizzatori, una quota che rende certamente difficile confutare la dominanza di Google su questo mercato.

Questo caso mostra nuovamente la necessaria cautela per le prescrizioni del diritto antitrust che deve guidare le imprese dominanti nella definizione delle loro politiche commerciali.

Valore artistico e tecniche innovative di scultura

La stampa 3D, è uno strumento versatile, che si presta a realizzare qualsiasi cosa, da una semplice matita a un intero edificio, che può essere scannerizzato, trasformato in algoritmo e infine ri-materializzato da un macchinario che lo scolpisce letteralmente in sole 48 ore.

In ambito artistico, le applicazioni sono potenzialmente infinite e oggi, studi di architettura e case di moda fanno sempre più spesso utilizzo di stampanti 3D per realizzare i propri progetti, contenendo i costi e riducendo anche l’impatto ambientale della produzione.

Ma è nel mondo della scultura che l’utilizzo di tecniche di fresatura tridimensionale sono venute alla ribalta con un caso giudiziario di contraffazione di opera d’arte, perché, sé è vero che la stampa 3D è una grandissima opportunità di innovazione per il mondo artistico, la circolazione su larghissima scala di internet di file contenenti informazioni idonee alla riproduzione attraverso le stampanti 3D, crea nuove possibilità di conflitti con i diritti altrui.

E’ quello che è avvenuto con una scultura realizzata con tecniche innovative e progettata in uno dei centri europei di eccellenza della lavorazione in legno: la Val Gardena, che è conosciuta in Italia e all’estero come la patria delle lavorazioni artigianali a carattere religioso; in questo mercato, la famiglia Demetz è attiva da generazioni nella realizzazione di sculture che oggi progetta e realizza attraverso l’impiego di metodi d’avanguardia.

Per realizzare una statua commissionatale da un rivenditore americano nel 2019, la Demetz Art Studio S.r.l., una volta ultimata la realizzazione di un disegno e di un primo esemplare in legno, si è rivolta ad un’impresa fiorentina perché realizzasse la fresatura robotica dalla statua a partire da una scansione 3D, che le ha consegnato in un apposito file, con l’espressa indicazione di restituirlo o distruggerlo e, in ogni caso, di non realizzare altri esemplari della statua.

A fresa ultimata e consegnata la statua negli Stati Uniti, la famiglia Demetz notava su Facebook il post di una fotografia, scattata nello stesso stabilimento in cui era stata realizzata la fresatura e che raffigurava proprio la statua che aveva commissionato; da un’ispezione a sorpresa, rinveniva sul posto anche un’altra copia in lavorazione della statua e la sua immagine inserita in un depliant.

Dopo aver chiesto inutilmente la restituzione del file della scansione 3D, che consentiva di realizzare le copie delle statua, la Demetz Art Studio S.r.l. instaurava un procedimento d’urgenza dinnanzi al Tribunale di Firenze, chiedendo descrizione, sequestro ed inibitoria del file della scansione, delle copie della statua e del materiale promozionale su cui era raffigurata.

Il Tribunale accoglieva le richieste della ricorrente con decreto inaudita altera parte e, in sede di conferma del provvedimento, metteva in luce alcuni aspetti relativi alla tutela riconosciuta dal diritto d’autore alle opere creative.

Il primo aspetto interessante del provvedimento riguarda, in termini generali, il rapporto tra creazione artistica e nuove tecnologie di realizzazione dell’opera: a detta del Tribunale, la creatività e la paternità di un’opera non vengono meno nel momento in cui ne avviene la trasposizione in immagine digitale e poi la riproduzione meccanica, nemmeno quando la realizzazione di queste fasi di lavorazione abbiano comportato l’intervento esecutivo di terzi.

Prendendo posizione nello specifico sull’uso illecito dell’opera altrui, il Tribunale ha disatteso la tesi della resistente che sosteneva di aver utilizzato l’immagine della statua sui depliant e sulle brochure solo a dimostrazione delle proprie capacità realizzative; infatti, anche la rappresentazione e l’utilizzo di un’opera altrui come esempio della propria abilità esecutiva costituisce ugualmente un uso finalizzato ad ottenere un vantaggio economicamente apprezzabile, anche se solo in termini di risonanza pubblicitaria e, in assenza di autorizzazione dell’autore, integra una violazione dei diritti di privativa di quest’ultimo.

Riconoscendo carattere creativo alla statua realizzata da Demetz, il Tribunale di Firenze ha applicato l’art. 12 comma 2 l.d.a., che stabilisce che spetta all’autore il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo.

Trattandosi di un utilizzo di un’opera altrui diretto a perseguire un vantaggio economico, come quello di ottenere risalto e notorietà presso il pubblico, non poteva trovare applicazione in questo caso quel sistema di eccezioni e limitazioni previsto dalla normativa nazionale sul diritto d’autore per particolari ipotesi meritevoli di tutela.

Infatti, in virtù di norme quali l’art. 70 della legge sul diritto d’autore italiana, è oggi consentito utilizzare liberamente - e senza bisogno di autorizzazione da parte dell’autore - le opere d’arte in tutti i casi in cui occorra la protezione del diritto d’autore si trovi in conflitto con la tutela di obiettivi e valori che, spesso, si pongono in antitesi con esso (per esempio la libertà d’espressione e comunicazione, la tutela della riservatezza degli utenti, il progresso artistico e scientifico, ecc.).

In questo scenario, la Direttiva Copyright del 2019 - di prossimo recepimento in Italia - è intervenuta rendendo gli usi leciti delle opere protette (quali possono essere quelli di citazione, critica, rassegna e gli utilizzi a scopo di caricatura e parodia) oggetto di normazione obbligatoria per tutti gli Stati membri dell’Unione europea.

Tribunale di Firenze, ordinanza 7 gennaio 2021.

Diritto di ripensamento del consumatore nei contratti di vendita a distanza e protezione del venditore: una tutela asimmetrica?

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Stefano Bonacina - Associate

L’art. 52 del D. Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) disciplina il c.d. diritto di recesso o di ripensamento a favore dei consumatori, ovvero delle persone fisiche che agiscono per scopi estranei alla propria attività professionale ed imprenditoriale. Tale recesso - cui consegue la restituzione del corrispettivo pagato per l’acquisto del bene - è esercitabile nei contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali e può avvenire senza alcuna penalità e senza specificazione del motivo, ma necessariamente entro il termine di quattordici giorni decorrente, nei contratti di vendita di beni, dalla data di materiale consegna al consumatore degli stessi.

La ratio della disciplina relativa al diritto di recesso (di matrice europea) è quella di tutelare il consumatore che ha effettuato un acquisto a distanza (ad esempio online) e non ha potuto visionare il prodotto prima della conclusione del contratto. Per utilizzare le parole della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sent. n. 430/17 del 23 gennaio 2019) “si reputa che il diritto di recesso compensi lo svantaggio che risulta per il consumatore da un contratto a distanza, accordandogli un termine di riflessione appropriato durante il quale egli ha la possibilità di esaminare e testare il bene acquistato”.

Tale diritto non è però sempre ed indistintamente garantito in quanto l’art. 59 del Codice del Consumo elenca delle fattispecie tassative in cui viene escluso per legge a priori. Tra le esclusioni previste dalla norma non è tuttavia contemplata la semplice e diversa fattispecie in cui la confezione e l’imballaggio del prodotto siano materialmente aperti e questa omissione ha creato nel corso del tempo una c.d. zona grigia interpretativa non risultando chiaro se, in tale caso, fosse ancora possibile per il consumatore recedere legittimamente dal contratto ed esigere la restituzione del corrispettivo pagato.

Dopo diversi contrasti ed interpretazioni difformi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è però intervenuta sul punto precisando che il recesso è consentito anche dopo aver utilizzato l’oggetto e aperto l’imballaggio (così Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sent. n. 681/17 del 27 marzo 2019). La Corte ha infatti ritenuto che non si possa subordinare l’esercizio del diritto di recesso all’integrità del prodotto: salve specifiche eccezioni, anche chi rimuove materialmente l’intero imballaggio o la semplice pellicola protettiva deve poter sempre restituire la merce a seguito dell’uso, purché sia rispettato il suddetto termine di legge di quattordici giorni e la merce non sia stata in altro modo danneggiata dall’acquirente.

Alla luce dell’esponenziale incremento degli acquisti online degli ultimi anni, la fattispecie qui discussa si verifica ormai in un numero di casi sempre maggiore, ponendo i venditori (che non sono sempre piattaforme di vendita in posizione dominante sul mercato) in una complicata e problematica gestione del processo di vendita. Il prodotto oggetto di restituzione e privato del suo imballaggio originario non è infatti, nella maggioranza dei casi, considerabile come nuovo e non può pertanto essere venduto come tale sul mercato alle condizioni originarie con conseguente riduzione del prezzo della successiva vendita.

Quando ciò si verifica, l’esercizio del c.d. diritto del consumatore si trasforma simmetricamente in un pregiudizio evidente per il venditore che si trova, suo malgrado, a dover subire un danno inevitabile collegato al mero ripensamento dell’acquisto. Quest’ultimo, al fine di eliminare o quantomeno mitigare gli effetti negativi del diritto di ripensamento, potrebbe in definitiva valutare di porre in essere autonomamente azioni di “autotutela” della propria posizione contrattuale (ad esempio predisponendo, ove possibile, un nuovo imballaggio e ponendo in vendita come nuovi beni che in realtà non lo sono) con pregiudizio, in definitiva, proprio del consumatore che la normativa intendeva a tutti i costi tutelare.

Il “mattoncino” LEGO è tutelabile come modello comunitario.

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Con decisione del 24 marzo 2021 (T- 515/19) il Tribunale dell’Unione Europea ha annullato la precedente decisione della Commissione dei Ricorsi presso l’EUIPO che nel 2019 aveva dichiarato nullo il celebre mattoncino Lego già registrato come modello comunitario.

La pronuncia della Commissione dei Ricorsi dell’EUIPO aveva infatti stabilito che non era possibile tutelare come modello il noto mattoncino della Lego poiché la forma dello stesso risulta imposta dalle caratteristiche funzionali del prodotto.

Nel 2016, la Delta Sport Handelskontor, società tedesca produttrice di giocattoli e concorrente di Lego, aveva avanzato un’azione di nullità avverso il citato modello di Lego sostenendo la contrarietà dello stesso alle disposizioni del Regolamento n. 6/2002 sul design comunitario (“RDC”), che vietano la registrabilità come disegno o modello, di prodotti (o parti di prodotto) il cui aspetto esteriore (oggetto di tutela) è dettato unicamente dalla funzione tecnica del prodotto stesso.

In base alla normativa comunitaria (art. 8 RDC, nonché a quella italiana, art. 36 Codice di proprietà industriale) non possono costituire validamente oggetto di registrazione come disegni o modelli, i prodotti, o le parti di prodotto, le cui caratteristiche esteriori sono necessitate esclusivamente dalla funzione tecnica del prodotto.

In sostanza, la forma di un prodotto può essere protetta anche se alcune delle sue caratteristiche sono funzionali, ma solo qualora il risultato tecnico al quale le stesse sono preordinate sia ottenibile anche con forme alternative: in tali casi infatti la scelta del designer è, seppur condizionata da ragioni funzionali, pur sempre discrezionale.

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Inoltre, non possono costituire oggetto di registrazione come disegni o modelli le caratteristiche dell'aspetto del prodotto che devono necessariamente essere riprodotte nelle loro esatte forme e dimensioni per consentire al prodotto di essere connesso meccanicamente con altro prodotto, ovvero di essere collocato all'interno di un altro prodotto in modo che questo possa svolgere la propria funzione.

La normativa, tuttavia, prevede un importante eccezione per i cosiddetti sistemi modulari: in deroga al divieto di registrazione come modello o disegno di forme imposte dalla funzione tecnica, l’art. 8 ultimo comma RDC consente la registrazione di prodotti o parti di prodotto quando le forme dello stesso hanno “lo scopo di consentire l'unione o la connessione multiple di prodotti intercambiabili nell'ambito di un sistema modulare”. Per prodotti modulari si intendono i prodotti caratterizzati dall’intercambiabilità e dalla componibilità in un sistema di unione multipla. I prodotti in questione devono essere progettati per potersi connettere l’un l’altro secondo diverse combinazioni.

L’eccezione è giustificata dal fatto che nel caso dei sistemi modulari (diversamente dai pezzi di ricambio per i quali non vale l’eccezione), l’imitatore potrebbe inserirsi direttamente nel mercato dei prodotti finiti proponendo egli stesso un sistema completo ed autonomo concorrente con quello del titolare del primo modello. Mentre il pezzo di ricambio, quindi, è una parte del prodotto ad essa funzionale, il pezzo del sistema modulare è esso stesso il prodotto e beneficia dell’eccezione di cui all’art. 8 RDC.

Ebbene, con decisione del 10 aprile 2019, la Commissione dei ricorsi dell’EUIPO, su domanda della società tedesca aveva ritenuto che il modello di Lego fosse nullo in quanto tutte le caratteristiche estetiche del prodotto erano, ad avviso dell’Ufficio, unicamente dettate dalla funzione tecnica del prodotto, vale a dire consentire il montaggio e lo smontaggio con il resto dei mattoncini. Secondo la Commissione tale funzione è l'unico fattore che ha determinato le caratteristiche di aspetto del prodotto interessato dal disegno o modello impugnato.

In particolare, la Commissione aveva tenuto conto dei seguenti elementi: i) la fila di “bottoni” sulla faccia superiore del mattone; ii) la fila di cerchi più piccoli sulla faccia inferiore del mattone; iii) le due file di cerchi più grandi sulla faccia inferiore del mattone; iv) la forma rettangolare del mattone; v) lo spessore delle pareti del mattone e vi) la forma cilindrica delle “bottoni”.

La Commissione quindi aveva ritenuto applicabile al caso di specie l’art. 8 paragrafo 1 RDC.

Inoltre, poiché, per poter svolgere la funzione di montaggio e smontaggio del prodotto interessato dal disegno o modello impugnato, le caratteristiche d'aspetto di tale disegno o modello, quali individuate dalla commissione di ricorso, devono essere riprodotte nelle dimensioni esatte al fine di consentire il loro collegamento, esse rientrano altresì nell'articolo 8, paragrafo 2, RDC.

Inoltre, aveva omesso di considerare l’eccezione proposta da Lego sui sistemi modulari di cui all’art. 8.3 RDC in quanto ritenuta inapplicabile al caso di specie oltre che tardiva.

A fronte della dichiarazione di nullità, la società danese ha quindi adito il Tribunale dell'Unione Europea al fine di ottenere l'annullamento di tale decisione.

Il Tribunale ha accolto la domanda di Lego sulla base delle seguenti considerazioni:

i)             Affinché un disegno o modello sia dichiarato nullo, tutte le caratteristiche esteriori del suo aspetto devono essere considerate ed imposte esclusivamente dalla funzione tecnica del prodotto a cui si riferiscono. Diversamente, se almeno una delle caratteristiche dell'aspetto del prodotto interessato da un disegno o modello non è imposta esclusivamente dalla funzione tecnica di tale prodotto, il disegno o modello non può essere annullato. Nella fattispecie in esame, il mattoncino Lego possiede una superficie liscia su due lati lunghi e tale caratteristica non compare tra quelle prese in esame dalla Commissione dell’EUIPO, pur trattandosi di una caratteristica dell'aspetto del prodotto che pare non incidere sulla funzionalità dello stesso.

ii)            Il Tribunale ha inoltre precisato quale sia il corretto iter di valutazione da seguire rispetto alla validità di un disegno o modello ai sensi dell’art. 8 RDC: è necessario, in primo luogo, determinare la funzione tecnica del prodotto interessato, in secondo luogo, analizzare le caratteristiche dell'aspetto di tale prodotto ai sensi dell'articolo 8, paragrafo 1 del Regolamento e, in terzo luogo, esaminare, alla luce di tutte le circostanze oggettive pertinenti, se tali caratteristiche siano dettate esclusivamente dalla funzione tecnica del prodotto interessato. In altri termini, occorre esaminare se la necessità di soddisfare tale funzione tecnica sia l'unico fattore che ha determinato la scelta di tali caratteristiche da parte del progettista, senza che considerazioni di altra natura, in particolare quelle relative all'aspetto visivo di tale prodotto, abbiano svolto alcun ruolo nella scelta di tali caratteristiche

iii)           Infine, la censura del Tribunale ha riguardato l’omessa presa in considerazione da parte della Commissione dell’EUIPO dell’eccezione ex art. 8.3 RDC sui sistemi modulari che ben può applicarsi al caso di specie.

Il mattoncino di Lego resta quindi valido come modello comunitario registrato con la conseguenza che ad esso si applica la protezione di 25 anni dalla data di registrazione. Inoltre, lo stesso non potrà essere riprodotto nelle sue caratteristiche individualizzanti dai concorrenti ai sensi del Regolamento.

 



Invenzioni del lavoratore dipendente: bilanciamento tra interessi e diritti contrapposti.

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All’interno delle, sempre più, moderne realtà imprenditoriali non è raro imbattersi in dipendenti che tra conoscenze tecniche personali e potenziali abilità creative realizzino invenzioni intellettuali.

Ebbene, nei casi di produzione creativa del lavoratore dipendente, quest’ultimo deve aver chiaro - sin dall’inizio - a chi spettino i diritti di sfruttamento economico delle proprie invenzioni, sull’assunto che la paternità dell’opera ed i diritti morali sono indiscutibilmente a questi riconosciuti anche ai sensi dell’articolo 2590 c.c..

Tuttavia, la tutela del riconoscimento della paternità dell’opera in capo al lavoratore dipendente va bilanciata con la tutela dell’imprenditore datore di lavoro che, stipulando un contratto di lavoro il cui oggetto è lo svolgimento di attività inventiva, sopporta il costo ed il rischio economico che – inevitabilmente – deriva dall’alea del risultato inventivo.

Il nostro attuale ordinamento delinea una specifica distinzione tra diverse tipologie di invenzioni, mantenendo la tripartizione della normativa previgente tra invenzioni di servizio, invenzioni di azienda, invenzioni occasionali.

La disciplina delle invenzioni, che trova riferimento di carattere generale nell’articolo 2590 c.c., era inizialmente contenuta nel R.D. n. 1127/1939, oggi espressamente abrogato dal D.lgs. n. 30/2005 (d’ora in avanti c.p.i.) che analizza le tre tipologie di invenzioni all’articolo 64.

La ratio della disciplina di cui ai commi 1 e 2 e quella di cui al comma 3 dell’art. 64 c.p.i. è del tutto differente: nelle prime due ipotesi si applica il principio basilare giuslavoristico dell’appartenenza al datore di lavoro dei risultati del lavoro subordinato, mentre nella terza ipotesi si applica la regola generale in tema di invenzioni secondo la quale i diritti patrimoniali spettano all’inventore, con il solo limite del riconoscimento del diritto di opzione al datore di lavoro.

Il primo comma dell’articolo 64 c.p.i. disciplina le c.d. invenzioni di servizio e cioè quelle invenzioni alle quali il lavoratore perviene nell’esecuzione e adempimento del rapporto di lavoro in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto dell’obbligazione lavorativa e che sono a tale scopo retribuite: in questo caso la normativa prevede che la titolarità delle invenzioni appartenga in via esclusiva al datore di lavoro, e che nessun compenso aggiuntivo sia dovuto all’inventore, al quale è attribuita unicamente la paternità dell’opera. Relativamente all’elemento della retribuzione, vale la pena di specificare come la dottrina maggioritaria ritenga che al fine dell’inquadramento della fattispecie nell’ambito del primo comma dell’art. 64 si debba guardare alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore, motivo per cui l’elemento caratterizzante la fattispecie dell’invenzione di servizio debba rinvenirsi nell’oggetto del contratto e non nella retribuzione .

In merito alle c.d. invenzioni d’azienda, il secondo comma dell’articolo 64 c.p.i. prevede che le stesse siano realizzate nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro ma non sia prevista una retribuzione ad hoc per l’espletamento dell’attività inventiva. In questo caso, benché i diritti di sfruttamento economico dell’invenzione permangano in capo al datore di lavoro – salvo sempre il diritto morale – il lavoratore ha diritto ad un equo premio per l’attività inventiva svolta qualora il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o utilizzino l’invenzione in regime di segretezza. Per la determinazione dell’equo premio si tiene conto di specifici parametri quali “l’importanza dell’invenzione, le mansioni svolte e la retribuzione percepita dal lavoratore, il contributo ricevuto da quest’ultimo dall’organizzazione del datore di lavoro”.

Infine, il terzo comma dell’articolo 64 c.p.i. disciplina le c.d. invenzioni occasionali realizzate al di fuori del rapporto di lavoro ma aventi ad oggetto l’attività svolta dal datore di lavoro, casi in cui manca ogni connessione oggettiva tra mansioni ed invenzione. Diversamente dalle fattispecie precedenti, nel caso di invenzioni occasionali la titolarità dell’invenzione ed i relativi diritti patrimoniali sull’invenzione spettano al lavoratore dipendente, tuttavia il datore di lavoro ha il diritto di opzione sull’uso, esclusivo e non, o sull’acquisto del relativo brevetto. La legge consente espressamente al datore di lavoro di ottenere il brevetto già conseguito dal dipendente, ma autorevole dottrina ritiene che il datore di lavoro possa ottenere dal dipendente anche il diritto al rilascio del brevetto, nel caso in cui quest’ultimo non voglia presentare la domanda di brevetto.

A fronte dell’eventualità dell’esercizio del diritto di opzione o di acquisto da parte del datore di lavoro, il lavoratore” inventore” ha diritto ad un canone o prezzo che sia commisurato al valore dell’invenzione, al netto delle somme corrispondenti agli aiuti ricevuti dal datore di lavoro per pervenire all’invenzione medesima.

Nel caso di insorgenza di controversie tra datore di lavoro e lavoratore dipendente, la competenza è stata sottratta al Giudice del Lavoro ed è oggi pacificamente attribuita al Giudice ordinario – Sezione Specializzata in materia di Impresa.

Si precisa che, ai sensi dei commi 4 e 5 dell’articolo 64 c.p.i., ferma restando la competenza del giudice ordinario in merito all’accertamento del diritto all’equo premio (invenzioni di azienda) ed al canone o equo prezzo (invenzione occasionale), la determinazione del quantum è rimessa ad un collegio di tre arbitratori, che potrà decidere con equo apprezzamento a sensi dell’art. 1349 c.c. sull’ammontare degli stessi. Gli arbitratori saranno nominati, due da ciascuna delle parti ed il terzo o dai primi due arbitratori o – se in disaccordo – dal Presidente della Sezione specializzata competente in base al criterio del luogo in cui l’inventore svolge abitualmente le sue mansioni.

Distributed Ledger Technology, Not Fungible Tokens e Criptoattività, sistemi autarchici perfetti?

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Le criptoattività come Bitcoin sono una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente. (Direttiva UE 2018/843 del 30 maggio 2018, art. 1 (d). La definizione di “valuta virtuale” è stata recepita nell’ordinamento italiano con il d.lgs. 90/2017 (art. 1, comma 2, lett. qq).

Le criptoattività si realizzano attraverso i gettoni digitali (digital tokens) che operano attraverso un protocollo elettronico gestito in modo decentrato tramite una tecnologia denominata permissionless distributed ledger technology (DLT) detta anche blockchain.

Il Bitcoin (BTC) è la realizzazione del concetto di criptocurrency che fu descritto per la prima volta nel 1998 dall’ingegnere cinese Wei Dai, suggerendo l'idea di una nuova forma di denaro che usa la crittografia per controllare la sua creazione e le transazioni piuttosto che un'autorità centrale.

Nel sistema blockchain l’autorità istituzionale è sostituita da un complesso meccanismo di consenso collettivo tra gli operatori dei computer partecipanti, detti nodi. Esso si basa fondamentalmente su un sistema di incentivi che rende economicamente più vantaggioso ed efficiente per gli operatori di sistema seguire comportamenti corretti. Ogni utente finale opera attraverso una coppia di chiavi crittografiche: una privata, assimilabile ad un codice pin, che permette di utilizzare il wallet e, in particolare, di dare istruzioni di accredito a favore di un altro utente e l’altra pubblica (simile ad un codice iban), necessaria per la validazione di sistema al fine di perfezionare la transazione immessa.

Il Protocollo blockchain del Bitcoin - Aspetti generali del funzionamento della blockchain.

Il Bitcoin protocol è una delle declinazioni della distributed ledger technology che consente la creazione e il trasferimento delle criptovalute. Si tratta di un complesso programma informatico in grado di memorizzare in modo sicuro (crittografico) informazioni accessibili, gestibili e verificabili (anche a ritroso) in modalità condivisa da soggetti che operano on line. La DLT permette di creare registri pubblici digitali di archiviazione. A differenza di un normale database centrale con accesso condiviso tramite password, la DLT permette la registrazione cronologica inalterabile e l’aggiornamento decentrato del processo, senza necessità di ricorrere a una parte terza riconosciuta come garante o come custode affidabile per legge o per consuetudine.

Nello specifico, esistono tre tipi di DLT: protocolli DLT pubblici (o permissionless) a gestione interamente decentrata su internet, attraverso l’azione di soggetti indipendenti ed autonomi, operatori specializzati, detti miners, come nella DLT di Bitcoin; protocolli DLT privati, dove i nodi sono abilitati dal gestore del protocollo informatico “permissioned” (questa classe di DLT può operare anche senza i miners); protocolli ibridi, caratterizzati da un sistema di validazione decentrata tramite nodi (non tutti direttamente abilitati dal gestore), pur lasciando al soggetto che promuove il protocollo pieno controllo dello stesso.

Per decifrare i complessi codici alfanumerici di crittografia sono necessari computer che utilizzano specifici software e hardware capaci di fare milioni di calcoli al secondo. Nel protocollo Bitcoin, ad esempio, ogni volta che un miner risolve uno di questi problemi matematici si perfeziona la transazione ed un nuovo blocco viene completato. Con la soluzione del problema vengono liberati un certo numero di Bitcoin che si distribuiscono proporzionalmente in base alla potenza di calcolo riportata da ciascun miner. I miners, dunque, che sono una delle figure chiave del processo, si incaricano di estrarre (da qui il nome) nuovi Bitcoin e verificare la validità delle operazioni.

Oltre a blocchi e miners, come detto, ci sono i nodi. Si tratta di computer connessi alla rete Bitcoin che hanno il compito di conservare e distribuire una copia aggiornata di ciascun blocco. Nel caso in cui un nodo si perda o smetta di funzionare, non succederà nulla alla catena. Il resto degli anelli conservano tutte le informazioni e non vengono perse. Le informazioni vengono memorizzate in tutti i nodi e quando qualcosa viene inserito nella blockchain si conserva per sempre.

Attualmente il protocollo blockchain assegna circa 12,5 Bitcoin di nuova creazione all’operatore miner che trova per primo la soluzione del puzzle crittografico associato a un blocco di transazioni. Il protocollo blockchain è stato programmato per creare un numero predefinito massimo di bitcoin (21 milioni di unità), dato che ogni 210 mila blocchi il sistema dimezza il numero di Bitcoin assegnati ad ogni blocco di transazioni.

Il creatore del Bitcoin, il fantomatico Satoshi Nakamoto, ha previsto che questo sistema per poter essere efficiente e lucrativo a lungo avrebbe dovuto prevedere un limite. Così è nata l’idea di stabilire l’halving, un processo per cui la ricompensa che i miners ottengono dal mining, cioè i Bitcoin, si dimezza, appunto, ogni 4 anni una volta raggiunti 210.000 blocchi; considerato che il primo blocco di Bitcoin è stato generato nel gennaio del 2009, questo si traduce nel fatto che l'ultimo Bitcoin sarà estratto nel 2140 circa; ma già attorno al 2030 i nuovi BTC saranno molto pochi. Attualmente sono stati minati circa 19 milioni di BTC sui 21 milioni totali

Per tale ragione si sostiene che Bitcoin sia uno strumento deflattivo e – con gli economisti keynesiani in prima linea - che il BTC, mentre rimane un ottimo medium of exchange, non è uno stabile store of value. I keynesiani, inclini per definizione a stampare moneta, pongono l’accento della loro critica proprio sulla tendenza (deflattiva) del BTC che incentiverebbe individui e imprese ad accumulare denaro (hoarding) piuttosto che investirlo.

Le valute virtuali come il BTC sono frazionabili (in c.d. Satoshi) e possono fungere da sottostante per strumenti finanziari o essere usate per finanziare le operazioni c.d. di Initial Coin Offerings (ICOs). Il primo Stato che ha introdotto una legislazione specifica per l’intero settore delle criptoattività e le ICO è Malta.

La DLT, gli NFT e la blockchain nel diritto, nell’economia, nell’arte e nel commercio internazionale

Mentre esiste un aperto contrasto, forse insanabile ancora per qualche anno, tra i soggetti (anche istituzionali) che sostengono l’investimento in criptoattività e chi, invece, come le autorità europee ESMA, EIOPA, EBA e Banca d’Italia, ha sottolineato i rischi derivanti dall’uso di questi strumenti, vi è, invece, uniformità di vedute sul fatto che si debba separare il tema delle criptoattività (nelle diverse tipologie, criptovalute incluse) da quello della tecnologia sottostante: la distributed ledger technology. Questa tecnologia ha grandissime potenzialità soprattutto nell’ambito dell’archiviazione crittografica, dell’uso degli smart contracts e di alcuni tipi di gettoni digitali.

Vi è altresì accordo sul fatto che lo sviluppo tecnologico legato alla DLT apra scenari di vasta portata per i processi di intermediazione e di organizzazione dei mercati su larga scala.

I payment tokens, ad esempio, sono rappresentazioni digitali di valore emessi da una entità giuridica a fronte di una unità di moneta tradizionale;

gli utility tokens, rappresentano diritti amministrativi non trasferibili e non negoziabili;

i security tokens, sono trasferibili e negoziabili e rappresentano diritti quali: diritti di voto, diritti su flussi di cassa, diritti di proprietà su attività finanziarie o quote su beni reali standardizzabili (commodities) (ESMA, 2019).

I Not Fungible Tokens (NFT), tipi particolari di token che rappresentano qualcosa di unico e non replicabile né modificabile. Si tratta di un nuovo filone dell'arte e del collezionismo che nei primi mesi dell'anno è letteralmente esploso. Solo lo scorso mese si sono registrate transazioni per 400 milioni di dollari (peraltro spesso regolate in criptovalute).

Si pensi, ad esempio, che pochi giorni fa l'opera di un artista che si fa chiamare Beeple intitolata "Everydays, the first 5000 days", è andata all’asta da Christie’s per la cifra monstre di 60.250.000 dollari (!). L’opera digitale è una composizione di 5000 file che l'artista ha aggiunto ogni giorno per cinquemila giorni a partire dal 1° maggio del 2007.

Nel digitale è normale riprodurre un file ma l’opera di Beeple è unica perchè è stata autenticata con la tecnologia blockchain. Il 16 febbraio scorso l'artista ha registrato un file di quell'opera tramite blockchain ottenendo un certificato di autenticità che la rende unica per sempre. Non fungibile.

Così come la blockchain è nata per superare la criticità del c.d. double spending (una moneta del tutto virtuale senza un sistema come quello che regola Bitcoin potrebbe essere replicata all’infinito, perdendo così la sua funzione che deriva proprio dal numero limitato) la crypto-art nasce per valorizzare opere che altrimenti sarebbero plagiate e diffuse perdendo inevitabilmente valore.

E’ dunque intuitiva la prorompente applicazione futura della DLT e dei NFT in molti settori del diritto e dell’economia in funzione della certezza, dell’autenticità e dell’originalità di un determinato bene, mobile o immobile.

La DLT permette la registrazione cronologica inalterabile e l’aggiornamento decentrato dei processi, senza necessità di ricorrere a una parte terza garante e/o affidabile come, ad esempio, un pubblico ufficiale, un ente pubblico, una compagnia di assicurazione o un trust.

Ad esempio, si può consentire a un terzo di approvare o rifiutare una transazione, in caso di disaccordo tra le parti, senza che questi debba avere il controllo materiale sul loro denaro e così migliorando in termini di efficienza, tempi e costi, istituti come l’escrow account ovvero schemi contrattuali utilizzati per assicurare crediti e diritti, con applicazione dirompente in tutte le tipologie del commercio internazionale e degli scambi su larga scala.

Internet Service Provider - luci e ombre della giurisprudenza in attesa del recepimento della Direttiva 2019/790

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Con due recenti sentenze del 20 e 22 gennaio 2021, la Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Roma ha condannato in primo grado due internet service providers, Veoh e Dailymotion, per aver trasmesso sulle proprie piattaforme programmi televisivi di titolarità RTI (Reti Televisive Italiane) al risarcimento del danno per violazione del diritto d’autore per una cifra complessiva superiore a 25 milioni di euro.

Si trattava la trasmissione non autorizzata di filmati e spezzoni di alcuni dei programmi più famosi del palinsesto R.T.I., quali “Uomini e Donne”, “C’è posta per te ”, “Casa Vianello”, “Melaverde”.

Il Tribunale ha accolto la tesi di R.T.I., che, in quanto produttore ed emittente dei programmi sopra elencati, sosteneva che Veoh e Dailymotion avessero violato il proprio diritto esclusivo connesso al diritto d’autore di riproduzione e di sfruttamento delle proprie realizzazione (artt. 78-ter e 79 L. n. 633/1941).

La questione giuridica che costituisce il vero cuore della vicenda riguarda il grado di responsabilità attribuibile agli internet service provider per gli illeciti commessi a mezzo internet dagli utenti delle piattaforme: Veoh e Dailymotion sostenevano, infatti, di poter essere qualificati come “hosting providers” e di svolgere un ruolo meramente passivo rispetto ai contenuti condivisi dagli utenti, che, accettando la policy di utilizzo della piattaforma, si impegnano a non porre in essere violazioni dei diritti dei terzi e se ne assumono ogni responsabilità.

A questo proposito, la Direttiva europea “E-Commerce” prevede che l’hosting provider non possa essere ritenuto responsabile per i materiali inseriti dagli utenti della piattaforma a condizione che non sia a conoscenza della loro illiceità e, appena ne sia portato a conoscenza, rimuova immediatamente le informazioni e i contenuti lesivi dei diritti dei terzi (art. 14 Dir. 2000/31/CE).

Il Tribunale ha escluso la natura meramente passiva dell’attività di hosting di Veoh e Dailymotion dando rilievo al fatto che entrambi i portali indicizzassero i contenuti caricati dagli utenti creando dei canali tematici e associando ai programmi numerose inserzioni pubblicitarie; queste attività non sono state ritenute compatibili con un ruolo meramente passivo dei gestori delle piattaforme che mettano a disposizione degli utenti  un servizio senza intervenire, dal momento che, secondo il Tribunale, gli amministratori del sito tramite questo lavoro di catalogazione avrebbero preso necessariamente conoscenza di contenuti dei video catalogati, compresa la circostanza che trattasi di opere protette dal diritto d’autore.

Questa impostazione è compatibile con l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia rispetto al ruolo delle piattaforme di e-commerce, che ha affermato esserci responsabilità del prestatore di servizi di hosting che abbia svolto un’attività di gestione dei contenuti di qualsiasi natura, come ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita e promuoverle.  

In questo senso, l’art. 17 della Direttiva sul diritto d'autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale (Direttiva (UE) 2019/790), di prossimo recepimento in Italia e non ancora in vigore, prevede ora una responsabilità diretta del prestatore di servizi di condivisione per le opere in violazione del diritto d’autore caricati dai propri utenti e pone in capo alle piattaforme di videosharing un onere di diligenza più stringente. La norma europea impone ora alle piattaforme che intendano andare esenti da responsabilità o di negoziare anticipatamente licenze collettive con i titolari dei diritti d’autore o rispettare determinati requisiti cumulativi che consistono nell’aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti, per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto informazioni e dimostrare di aver agito tempestivamente a seguito di segnalazione per disabilitare l’accesso o rimuovere dal sito web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione e per impedirne il caricamento in futuro.

Tornando alle sentenze, anche se si volesse sostenere un ruolo meramente passivo di Veoh e Dailymotion, secondo il Tribunale non potrebbe applicarsi in ogni caso nei loro confronti l’esimente di responsabilità prevista dall’art. 14 della Direttiva dal momento che RTI aveva precedentemente segnalato loro quali contenuti rimuovere, ma le piattaforme non avevano provveduto tempestivamente a rimuovere i contenuti illeciti segnalati.

Sotto questo profilo, le due sentenze del Tribunale di Roma, che hanno ritenuto fosse sufficiente per RTI aver indicato ai provider il nome e il titolo del programma e non l’URL (Uniform Resource Locator, ovvero una sequenza di caratteri che identifica univocamente l'indirizzo di una risorsa) appare non in linea né con l’orientamento del legislatore UE, che ha stabilito che le informazioni fornite dal titolare del diritto d’autore al provider per identificare i contenuti devono essere  pertinenti e necessarie, né con la giurisprudenza nazionale, che ha stabilito che la mancata indicazione dell’URL non fosse  sufficiente a far scaturire l’obbligo del provider di rimuovere i contenuti in violazione (così Tr. Torino, Dailymotion v. Deltatv Programs, sent. 17 novembre 2017, ove si legge che la mancata indicazione dell’URL equivale a: “...pretendere dall’ISP un’attività di “scandagliamento” dei contenuti dei materiali già caricati sulla piattaforma prima della segnalazione con specifico url, va ingiustificatamente oltre il punto di equilibro, sopra individuato, tra i contrapposti ruoli e interessi dell’hosting provider e del titolare dei diritti d’autore che lamenti la violazione dei suoi diritti”).

Tribunale di Roma, sentenze 20 - 22 gennaio 2021

La determinazione giudiziale dei compensi degli amministratori di società di capitali

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L’ordinamento italiano riconosce agli amministratori delle società di capitali il diritto ad ottenere un compenso per le attività svolte in adempimento del mandato ricevuto. Al riguardo, infatti, come qualsiasi attività professionale, anche tale incarico è da considerarsi conferito, quantomeno in via presuntiva, a titolo oneroso.

L'amministratore di una società, con l'accettazione della carica, acquisisce pertanto il diritto ad essere remunerato per l'attività svolta in esecuzione dell'incarico affidatogli e l’entità del compenso potrà essere determinata, alternativamente o cumulativamente, nell’atto costitutivo, nell'atto di nomina o da una successiva autonoma delibera dell’assemblea dei soci (non potendo considerarsi implicita la determinazione del compenso nella delibera di approvazione del bilancio).

Nel caso in cui vengano invece a mancare tali atti formali, il compenso deve intendersi non definito, rimanendo prive di effetti eventuali ulteriori e diverse forme di determinazione, tra cui ad esempio l'accordo orale eventualmente intervenuto fra l’amministratore stesso ed il socio di maggioranza.

Pertanto, ove l’atto costitutivo nulla disponga al riguardo ovvero l’assemblea dei soci ometta di procedere alla relativa quantificazione o, ancora, la determini in misura assolutamente inadeguata, l’amministratore potrà ricorrere all’Autorità giudiziaria al fine di richiedere una specifica determinazione giudiziale anche mediante una liquidazione in via equitativa dello stesso.

Quanto ai profili legati alla menzionata determinazione giudiziale, è necessario chiarire che non esiste un compenso minimo, tanto è vero che gli amministratori possono rinunciare integralmente al compenso o accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguata al lavoro svolto. In tali ultime ipotesi, deve essere però ravvisabile il loro consenso, anche se desumibile da tacite condotte che siano interpretabili in modo univoco circa tale volontà abdicativa, non essendo viceversa sufficiente la mera inerzia o il silenzio.

Come è stato recentemente chiarito da una pronuncia del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di imprese (pubblicata il 22 giugno 2020), ai fini della liquidazione in via equitativa del compenso dovuto ad un professionista, il giudice di merito investito della relativa domanda giudiziale dovrà tener conto, oltre che della natura dell’incarico, anche della quantità e qualità dell’attività concretamente svolta dall’amministratore.

In particolare, il giudice adito dovrà quantificare l’ammontare del compenso dovuto all’amministratore in maniera proporzionale all'entità delle prestazioni eseguite da quest’ultimo ed al risultato utile effettivamente conseguito dal mandante (ovvero la società), posto che la determinazione concreta del compenso non può, per sua natura, che essere effettuata con giudizio di tipo equitativo, lasciando ampia facoltà discrezionale in capo all’Organo giudicante.

In un giudizio di liquidazione del compenso azionato da un amministratore di società di capitali, non si può pertanto prescindere dall’allegazione e dalla prova specifica della qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte, risultando insufficiente la mera indicazione del compenso pattuito in esercizi sociali di anni diversi o a favore di diversi amministratori in analoghe posizioni.

La determinazione equitativa del compenso spettante all’amministratore dovrà basarsi, in definitiva, sull’apprezzamento dei dati ricavabili dai documenti prodotti, elementi dai quali, congiuntamente valutati, potrà ricavarsi l’effettiva entità, estensione e rilevanza dell’attività in concreto svolta dal singolo amministratore.

Il singolo di Prince “The most beautiful girl in the world”: confermato anche il risarcimento del danno morale per il plagio dell’opera.

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La vicenda giudiziaria non è recente, anzi (il tutto ha inizio nel 1995..), ma è di pochi giorni fa l’ultima parola della Corte di Cassazione in merito al se ed al quanto del risarcimento dovuto ai signori Bruno Bergonzi e Michele Vicino da parte degli eredi della celebre pop star americana, Prince Rogers Nelson, meglio noto come Prince, per avere quest’ultimo con il noto brano del “The most beautiful girl in the world” violato i diritti d’autore dei primi.

Il 25 gennaio 2021 infatti, la Corte di Cassazione si è espressa sul ricorso presentato dagli eredi di Prince (nel frattempo deceduto) avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 2018 che riconosceva ai due autori italiani, oltre risarcimento dei danni economici (in Euro 956.608,00…), anche il ristoro morale, seppur nella minor cifra di Euro 40.000,00, per la “frustrazione artistica” sofferta dagli stessi autori in conseguenza del plagio della loro opera originale.

Ma facciamo un passo indietro: nel 1995 Bruno Bergonzi e Michele Vicino insieme a Edizioni Chappell s.r.l. - rispettivamente autori e cessionaria dei diritti di sfruttamento della canzone “Takin' me to paradise” - agivano avanti al Tribunale di Roma per vedere accertato il plagio della suddetta opera musicale da parte Prince Rogers Nelson, di Controversy Inc. e di Fortissimo Gruppo Editoriale s.r.I., rispettivamente autore e cessionarie dei diritti di utilizzazione economica della canzone diffusa con il titolo “The most beautiful girl in the world”, con conseguente condanna al risarcimento dei danni economici e morali.

Il 30 gennaio 2003, il Tribunale di Roma rigettava la domanda di Bruno Bergonzi, Michele Vicino e di Edizioni Chappell s.r.l..

Tuttavia (anche se dopo 7 anni..) la pronuncia  del Tribunale era riformata in appello: la Corte di Roma accertava infatti il plagio, inibiva la diffusione del brano nel territorio dello Stato italiano e condannava in solido Prince e Controversy Inc. al risarcimento del danno liquidato nella misura di Euro 956.608,00 a favore di Bergonzi e Vicino; Fortissimo Gruppo Editoriale era invece condannata al risarcimento nella minor somma di euro 6.888,40; nella prima sentenza la Corte d’Appello rigettava, tuttavia, la domanda di risarcimento del danno per violazione del diritto morale d'autore ritenendo insufficiente l’allegazione delle prove a supporto di tale danno da parte degli attori.

Tale pronuncia veniva impugnata e con sentenza del 29 maggio 2015, n.11225, la Cassazione si pronunciava sia con riguardo all’estensione degli effetti esplicati dalla sentenza di condanna limitatamente al territorio italiano sia per quanto concerne il mancato riconoscimento della violazione del diritto morale d’autore, ritenendo che quest’ultimo avrebbe invece dovuto trovare spazio e riconoscimento.

In particolare, la Corte di Cassazione riteneva apodittica la motivazione con cui la Corte di Appello di Roma valutava insufficienti le prove poste a sostegno del patito danno morale dagli autori nei loro atti difensivi, ribadendo il noto principio, applicabile quindi anche alla violazione del diritto morale d’autore, secondo cui in caso di accertata violazione dello stesso, il danno sofferto dall’autore deve considerarsi in re ipsa e come tale deve essere dimostrato solo nella sua estensione, senza che incomba all’attore altra prova. È sufficiente, secondo la Cassazione, a fondare la domanda volta alla condanna al risarcimento del diritto morale, la “frustrazione artistica” lamentata e subita dagli autori a fronte del plagio.

Ebbene nel 2018, Corte di appello di Roma pronunciava sentenza con cui inibiva all'eredità giacente di Prince e a Controversy ogni ulteriore riproduzione del brano “The most beautiful girl in the world” e, sulla base del rinvio della Cassazione, li condannava, in via equitativa, al pagamento della somma di Euro 40.000,00 ciascuno, oltre interessi a titolo di risarcimento morale.

Pareva dover cessare così la vicenda, ma gli eredi della celebre pop – star hanno nuovamente impugnato la decisione lamentando – per quanto qui di interesse -  l’errata applicazione delle norme sul diritto morale d’autore: tale ultimo ricorso è stato interamente rigettato dalla Corte di Cassazione con la recente pronuncia la quale ha confermato la correttezza del’iter argomentativo seguita dalla Corte di Appello nella liquidazione del danno per violazione del diritto morale d’autore.

La sentenza, che chiude definitivamente la vicenda di The Most Beautiful girl in the world, riguarda non solo, la già ampiamente riconosciuta facoltà del giudice di merito di liquidare in via equitativa il danno, anche morale, conseguente alla violazione del diritto d’autore, ma soprattutto il sicuro collegamento che può e deve sussistere – dice la Corte - fra l’entità del danno morale d’autore (e del relativo risarcimento) e le dimensioni spazio-temporali della condotta plagiaria, e quindi, in definitiva, la diffusione e il successo dell’opera in contraffazione.
La limitazione degli effetti della pronuncia del giudice italiano al solo territorio italiano, anziché a tutti i paesi del mondo dove il brano in contraffazione era stato diffuso – ritiene la Corte di Cassazione del 2015 – essere corretto: non esiste infatti, in materia di diritto d’autore nel caso di specie, alcuna norma che consenta al giudice nazionale di estendere gli effetti della sua pronuncia al di là dei confini nazionali dello stato in cui la decisione è assunta. Tuttavia, ritiene la Corte, la pronuncia del giudice di appello è errata e merita di essere riformulata, nella parte in cui “esclude implicitamente che la stessa pronuncia possa avere esecuzione anche in altri Stati esteri previa delibazione della stessa da parte dei giudici o delle autorità competenti”.

La pronuncia del 2015 inoltre ribadisce il noto principio in materia di diritto d’autore per cui il danno derivante dalla violazione del diritto d’autore è in re ipsa senza che incomba all’attore altra prova se non quella della sua estensione.

Marchio Patronimico - La Cassazione stabilisce i criteri di liceità dell’uso

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Con la sentenza del 6 giugno scorso, la Cassazione ha posto fine alla controversia approdata in tribunale nel 2011 e relativa all’utilizzo del segno distintivo “Salini”, che ha visto opposti due rami della famiglia Salini, entrambi attivi nel settore delle costruzioni, i quali per due generazioni avevano condiviso la medesima storia imprenditoriale.

La questione posta all’attenzione della Suprema Corte riguardava la legittimità dell’uso del patronimico comune nella medesima attività economica (la realizzazione di opere edili), all’indomani della fondazione da parte di uno dei due cugini di una propria impresa autonoma di costruzioni, la Salini Locatelli S.p.A., in concorrenza diretta della Salini Costruzioni S.p.A., sino ad allora la società di famiglia.

Con il proprio ricorso per cassazione, parte ricorrente sosteneva la tesi secondo la quale la norma che disciplina le limitazioni dell’uso del marchio (art. 21 cod. prop. ind.) - che non consente al titolare della privativa di vietare ai terzi l’uso del proprio nome e indirizzo nella loro attività economica – dovesse trovare applicazione anche per tutti i segni distintivi, ovvero per tutti quegli elementi che identificano una certa attività di impresa presso il pubblico, denominazione sociale compresa.

La Cassazione, con la sentenza in commento ha stabilito che se è lecito in linea di principio inserire nella denominazione sociale successiva il patronimico del fondatore, occorre in ogni caso verificare in concreto che l’adozione del patronimico nella denominazione sociale successiva non sia idonea a generare confusione.

Con riferimento poi alle società di capitali, per le quali non trova applicazione l’obbligo previsto per la ditta e per le società di persone di indicare nella ragione sociale il cognome o la sigla dell’imprenditore (art. 2563 c.c.), la Cassazione ha posto in luce che occorre adottare un maggior rigore nel giudizio circa la conformità dell’uso del patronimico ai principi della correttezza professionale, tenendo conto tanto della confondibilità tra i due segni adottati, quanto del pericolo di associazione tra gli stessi, giudizio che non può prescindere da un riscontro in concreto del rapporto concorrenziale tra le due imprese in questione.

Nel caso di specie, le due società condividevano il medesimo “cuore” individualizzante, costituito dal segno “Salini” ed entrambe erano attive nello stesso settore delle costruzioni; in questo contesto, l’inserimento dell’elemento “Locatelli” non era sufficiente a mettere al riparo la società fondata successivamente da un pericolo di confusione o di associazione con la società preesistente.

Facendo riferimento alla propria consolidata giurisprudenza sul punto (Cass. civ., sent. 14 agosto 2019, n. 21403), la Suprema Corte ha ribadito che, nel conflitto tra due società utilizzatrici dello stesso segno identificativo, deve prevalere quella che per prima risulti iscritta nel registro delle imprese con quel segno e

ha respinto il ricorso della Salini Locatelli S.p.A., confermando la sussistenza di un concreto rischio di confusione e di associazione tra le due imprese concorrenti.

I giudici di legittimità hanno dato rilievo alla valenza pro-concorrenziale delle norme che limitano il diritto esclusivo sui segni distintivi (marchio e denominazione sociale, rispettivamente) - e potenzialmente perpetuo – nei confronti degli usi del proprio nome e cognome nell’attività imprenditoriale, ribadendo che il diritto di vietare ai terzi l’utilizzo di un segno simile o confondibile subisce una forte limitazione nel caso in cui il terzo utilizzi nella propria attività economica un segno simile o confondibile il quale, però, sia costituito dal proprio nome e cognome.

Tuttavia, la giurisprudenza è chiara nel ribadire che questa limitazione non deve tradursi in un indebito approfittamento della notorietà dell’altrui segno distintivo: sono infatti consentiti solo quegli usi del segno altrui che siano conformi ai principi della correttezza professionale. Il richiamo all’uso conforme a questi principi, significa che, se taluno usi il segno distintivo altrui - anche se facente parte del proprio nome e cognome - in modo da valorizzare indebitamente il proprio prodotto ed in modo che, configuri un’appropriazione dei pregi altrui, tale uso dovrà considerarsi illecito in quanto non conforme alla correttezza professionale.

Il nome anagrafico del concorrente potrà quindi lecitamente figurare sui prodotti ed essere impiegato nei segni distintivi dell’imprenditore, ma a condizione di escludere agganciamenti parassitari: l’uso del patronimico che riproduce un segno distintivo anteriore è consentito soltanto ai fini di individuazione dell’imprenditore e quindi in funzione descrittiva e non dintiva. Tale uso descrittivo deve, invece, escludersi qualora sussista un rischio di confusione sul mercato, in ragione della funzione concretamente svolta dal nome nell’attività commerciale svolta, onde evitare che il pubblico sia indotto in errore sull’identificazione del produttore e della provenienza dei prodotti.

Cassazione civile, sez. I, sentenza del 6 luglio 2020, n. 13921



Società di capitali e attività agricola

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1) L’azienda agricola nella forma di società di capitali

L’attività agricola, che storicamente in Italia ha assunto perlopiù la forma dell’impresa individuale o dell’impresa familiare, può essere esercitata in realtà anche sotto altre forme societarie. Queste ultime, infatti, da un lato, consentono l’esercizio aggregato dell’impresa e dall’altro, sono capaci di fornire una maggiore tutela del patrimonio personale.

2) Criticità: il diritto di prelazione agraria

La prelazione agraria consiste nel diritto di essere preferiti ad altri per l’acquisto di un terreno agricolo, quando il proprietario decide di venderlo.

In base al disposto all’art. 8 della L. 590/1965, il diritto di prelazione spetta innanzitutto al coltivatore diretto (o società agricola in cui almeno la metà dei soci è coltivatore diretto) che conduce in affitto, da almeno due anni, il terreno offerto in vendita. Ai sensi dell’art. 7 della L. 817/1971, inoltre, ove il terreno non sia concesso in affitto ad un coltivatore diretto (o società agricola), il diritto di prelazione sorge in capo ai coltivatori diretti (o società agricole in cui almeno la metà dei soci è coltivatore diretto) proprietari di terreni confinanti. Sono invece escluse dal diritto di prelazione le società agricole di persone in cui meno della metà dei soci è coltivatore diretto, indipendentemente dalla presenza di imprenditori agricoli professionali, e sono sempre escluse le società di capitali, anche in presenza di soci coltivatori diretti.

La ratio di queste norme è stata individuata, in passato, nell’esigenza di favorire l’acquisto di terreni agricoli da parte dei coltivatori diretti. Il legislatore si era posto infatti come scopo quello di migliorare le strutture produttive dell’agricoltura. In particolare, nella prelazione del conduttore, si realizza la promozione (o costituzione) di nuova proprietà, mediante la riunione nella stessa persona del conduttore della titolarità dell’impresa agricola e della titolarità del terreno su cui questa è esercitata, favorendo così la continuazione della stessa; nella prelazione del confinante si realizza un ampliamento della proprietà diretta coltivatrice, mediante l’accorpamento di terreni confinanti, tali da creare aziende agrarie maggiormente dimensionate e più efficienti sotto il profilo tecnico ed economico.

Il difetto di prelazione agraria in capo alle società di capitali sarà dunque un elemento da valutare attentamente nella scelta della forma societaria da adottare nel caso concreto.

3) I requisiti della società agricola costituita nelle forme di società di capitali

Come già anticipato, le società agricole possono certamente essere costituite anche nelle forme di società di capitali. Il nostro ordinamento prevede infatti la possibilità che S.r.l. (Società a responsabilità limitata), S.r.l.s. (Società a responsabilità limitata semplificata) e S.p.a. (Società per azioni), possano assumere la qualifica di “Società agricola” a condizione, però, che posseggano i seguenti tre essenziali requisiti: a) esercizio esclusivo di attività agricole e attività connesse; b) indicazione obbligatoria della qualità di “Società Agricola”; c) possesso di determinate qualifiche professionali.

A. Esercizio esclusivo di attività agricole e attività connesse

Quanto al primo requisito, le società devono avere come oggetto sociale esclusivo l’esercizio dell’agricoltura e delle attività ad essa connesse.

A tal proposito, l’art. 2135 c.c. introduce una definizione di queste attività che, in sintesi, riguardano:

  • la coltivazione del fondo;

  • la silvicoltura;

  • l’allevamento di animali;

  • tutte le altre attività connesse.

La norma letteralmente specifica che “Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.

Per quanto riguarda le attività connesse, quest’ultime sono definite quali:

- attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali;

- attività dirette alla fornitura di beni o servizi utilizzando prevalentemente le attrezzature o risorse dell’azienda agricola;

- altre attività dirette, ad esempio, alla gestione degli agriturismi.

Le attività connesse, dunque, affiancandosi alle attività principali, hanno lo scopo di rendere l'impresa agricola polifunzionale. Per essere considerate connesse, inoltre, si prende in considerazione sia l'elemento oggettivo, e dunque l'attività svolta, che l'elemento soggettivo, cioè che l'attività debba essere svolta dal medesimo imprenditore che esercita l'attività principale.

B. Indicazione obbligatoria della qualità di “Società Agricola”

Quanto al secondo requisito, l’art. 2 del D. Lgs. n. 99/2004 stabilisce che l’indicazione di “società agricola”, ossia di società che abbia come oggetto sociale l’esclusivo esercizio di attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., deve risultare dalla ragione o dalla denominazione sociale. Al primo comma si stabilisce, infatti, che la ragione sociale o la denominazione sociale delle società che hanno quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività di cui all'articolo 2135 c.c. deve contenere l'indicazione di “Società agricola”. Va precisato che non si tratta ovviamente di un nuovo tipo di società: le società costituibili sono sempre quelle indicate nel codice civile, le quali, nel caso di esercizio esclusivo delle attività agricole, dovranno recare nella denominazione o ragione sociale l’indicazione di “Società agricola”.

C. Possesso di qualifiche professionali

Quanto al terzo ed ultimo requisito, a norma dell’art. 1 del D. Lgs. n. 99/2004, almeno un amministratore deve possedere il requisito di imprenditore agricolo professionale (I.A.P.) (o di coltivatore diretto se a sua volta munito dei requisiti per assumere la qualifica di I.A.P.). Data la possibilità che, nelle società di capitali, l’amministrazione possa anche essere affidata a non soci, si potrebbe avere il caso di una società agricola in cui nessuno dei soci sia un imprenditore agricolo o coltivatore diretto. Anche nel caso in cui la società sia unipersonale, la presenza di almeno un amministratore con i suddetti requisiti, permette alla società di maturare la qualifica di società agricola e l’accesso alle agevolazioni connesse.

Va precisato, inoltre, che la qualifica di imprenditore agricolo professionale I.A.P. può essere apportata dall’amministratore ad una sola società, con lo scopo di evitare la creazione di cariche amministrative fittizie, al solo fine di ottenere le agevolazioni spettanti alle società agricole.

4) Il percorso per costituire una società agricola nelle forme delle società di capitali

La società agricola può dunque essere costituita nella forma di società di capitali ricorrendo i tre requisiti sopra indicati.

Particolare attenzione va pertanto prestata alla figura dell’amministratore qualificato.

Anzitutto è “imprenditore agricolo professionale (I.A.P.) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999, dedichi alle attività agricole di cui all'art. 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.

Normalmente chi è coltivatore diretto ha anche tutti i requisiti per essere considerato imprenditore agricolo professionale, ma ciò non avviene necessariamente, perché i requisiti richiesti dall’ordinamento per queste due figure professionali operano su due piani differenti.

Di seguito riportiamo, senza pretesa di completezza, la sequenza degli adempimenti più significativi per la costituzione di una società agricola nella forma di S.r.l. ordinaria e/o semplificata:

1. costituzione della società agricola sotto forma di S.r.l. ordinaria e/o semplificata;

2. apertura della Partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate;

3. attivazione di una casella di posta elettronica certificata;

4. iscrizione della società nella sezione ordinaria del Registro delle Imprese e nel REA repertorio economico amministrativo della provincia dove è situata la sede legale della società;

5. acquisizione da parte della società di un’azienda agricola avviata e/o avvio di un’azienda agricola da parte della Società, mediante la conduzione in affitto del fondo rustico e/o comodato d’uso dello stesso;

6. presentazione della domanda di “Inizio attività” presso il Registro delle Imprese della provincia dove è situata la sede legale della società, con contestuale iscrizione della Società nella “sezione speciale Agricola”;

Per concludere, l’incombente più rilevante e successivo alla costituzione della società, all’apertura della partita IVA e agli ulteriori adempimenti non inclusi nell’elenco di cui sopra (quali ad esempio la scelta del regime IVA applicabile) consisterà, ovviamente, nell’acquisizione o nell'avvio ex novo di un’azienda agricola.

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Il blocco dei licenziamenti: cosa prevede la legge di bilancio 2021

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Dall’inizio della pandemia da Covid-19, le misure principali in materia di lavoro hanno riguardato il tema degli ammortizzatori sociali ed il tema dei licenziamenti. Da una lettura del quadro di sintesi sugli interventi della Legge di Bilancio per il 2021 redatto dal Senato (ID0014a (senato.it)), appare prevedibile che anche il 2021 darà largo spazio a questi due temi.

I temi sono inevitabilmente connessi in quanto proprio a fronte della concessione di un ulteriore periodo di ulteriori 12 settimane di trattamenti di integrazione salariale “per periodi intercorrenti tra il 1° gennaio 2021 e il 31 marzo 2021 per i trattamenti di Cassa integrazione ordinaria, e tra il 1° gennaio 2021 e il 30 giugno 2021 per i trattamenti di Assegno ordinario e di Cassa integrazione in deroga”, anche il divieto di licenziamenti subirà una proroga sino al 31 marzo 2021 con conseguente

  • divieto dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo;

  • divieto dei licenziamenti collettivi;

  • sospensione delle procedure di licenziamento in corso.

Il presupposto e la ratio della proroga del divieto di licenziamento parrebbero fondarsi proprio sulla possibilità di attivare nei confronti dei lavoratori dipendenti gli ammortizzatori sociali previsti dalla legge (CIGO, CIGS, CIGD, FIS), che consentono al lavoratore di conservare la posizione lavorativa e al datore di lavoro di essere coadiuvato dallo Stato nell’erogazione della retribuzione.

Tuttavia, nulla dice la legge in merito al caso in cui il datore di lavoro non si sia avvalso degli ammortizzatori sociali e ritenga ricorrere un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Nel silenzio della legge e considerato che i due temi sono inevitabilmente collegati, si ritiene sconveniente proseguire le procedure di licenziamento in corso o attivarne altre in costanza dello stato di emergenza.

Sino ad oggi, in costanza di pandemia da Covid-19, sono stati emessi numerosi provvedimenti che espressamente vietano al datore di lavoro di attivare e/o proseguire le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dal Decreto Cura Italia (cfr. art 46 D.L. 18/2020), al Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) al Decreto Rilancio 2 (ex Decreto Agosto D.L. n. 104/2020) e fino all’emissione del Decreto Ristori (D.L. n. 137/2020 del 28 ottobre 2020).

Ebbene, quindi sino al 31 marzo 2021 i datori di lavoro non potranno:

  • avviare la procedura di licenziamento collettivo previsto dalla L. n. 221/1991.

  • avviare la procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1996.

    Ci sono, però, anche dei casi in cui il divieto non è applicabile:

  • cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività;

  • fallimento, senza esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne viene disposta la cessazione;

  • accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro. Da notare che il divieto viene meno solo per i lavoratori che aderiscono all’accordo e che hanno diritto alla NASPI.

Inoltre, restano fuori dal blocco i licenziamenti per giusta causa, ma non solo: anche i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, ivi compresi quelli di natura disciplinare, oltre ai licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia.

Infine, rientrano nell’esclusione:

  • i licenziamenti per la fruizione del pensionamento per quota 100;

  • i licenziamenti dovuti al superamento del periodo di comporto;

  • i licenziamenti per inidoneità;

  • i licenziamenti dei lavoratori domestici, in quanto, in tali casi, il recesso è ad nutum.

Quanto sopra è provvisoriamente contenuto nel disegno di Legge di Bilancio; non resta che attendere la fine dell’anno per verificare eventuali ulteriori e nuove misure in merito al tema del divieto dei licenziamenti.

Stampa 3D e moda. Uno sguardo alle tematiche proprietà intellettuale.

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La tecnologia 3D e le opportunità offerte dall’introduzione delle stampanti 3D stanno sconvolgendo gli schemi standard di fornitura e produzione delle industrie tradizionali come la sanità, l'arte e persino il settore alimentare.

La combinazione dei progressi della tecnologia di stampa, i sempre più potenti personal computer, l’incremento del commercio online, e la domanda crescente sul mercato di oggetti stampati in 3D ha portato alla recente esplosione della tecnologia si stampa 3D.

Con il divenire sempre più accessibile delle stampanti 3D, siti web e piattaforma online che consentono la condivisione di file CAD, sono diventati sempre più popolari, in quanto danno la possibilità di condividere applicazioni con le quali il consumatore può produrre direttamente un oggetto a partire da un file sorgente.

Le opportunità offerte dalla stampa 3D e la possibilità di creare oggetti ha un forte impatto anche sul mondo della moda, che vede sempre più consumatori apprezzare alcuni prodotti stampati proprio in 3D.

Tuttavia, l'industria del "fai da te" sta anche sollevando molti interrogativi sugli effetti e sulla legittimità di questa nuova procedura di produzione e sono sorti diversi problemi legali in settori guidati dal diritto di proprietà intellettuale come quello della moda.

I. Cos'è la stampa 3D?

La stampa 3D è un processo che consiste nel realizzare oggetti solidi tridimensionali a partire da un file digitale, posizionando strati successivi di materiale fino a creare l'intero oggetto. Ognuno di questi strati può essere visto come una sezione trasversale orizzontale sottile dell'oggetto finale. Per creare un prodotto attraverso una stampante 3D, gli utenti realizzano un disegno virtuale dell'oggetto che vogliono stampare o creare, e poi preparano un file digitale in un programma compatibile adatto alla stampa (di solito un file CAD). Gli utenti possono creare file CAD nel momento in cui il file viene caricato nella stampante 3D, e poi questa crea l'oggetto strato per strato.

II.          Stampa 3D e moda

I perfezionamenti della tecnologia 3D ne hanno aumentato l'applicabilità nel settore della moda che ha iniziato a sperimentare la stampa 3D. Recentemente, il produttore di calzature multinazionale New Balance ha avviato una collaborazione con Formlabs per la produzione di una sneaker con l'avampiede stampato in 3D aggiornato. Continuum, con sede a San Francisco, è un'azienda di abbigliamento che permette ai clienti di progettare bikini stampati in 3D (così come altri prodotti) inserendo le loro forme e misure del corpo.  Adidas, il gigante delle calzature, ha collaborato con una società chiamata Carbon per realizzare la sua prima intersuola stampata in 3D prodotta in serie. Carbon è specializzata nella stampa 3D in resina e Adidas ha tonnellate di esperienza nella produzione di scarpe sportive e da corsa.

I consumatori saranno presto in grado di produrre i propri capi d'abbigliamento a casa. È una novità? Non necessariamente, se si considera che prima dell'introduzione del prêt-à-porter, alcuni capi di abbigliamento su misura non venivano necessariamente prodotti dai sarti, ma anche a casa dai familiari dei conusmatori. Tuttavia questo innovativo sistema di produzione sta spostando le capacità dei designer dalla cucitura alla programmazione del software.

Infatti noti istituti di moda e scuole di design di tutto il mondo hanno stampanti 3D nei loro campus. Offrono anche corsi nel campo della moda stampata in 3D. Questi istituti di apprendimento forniscono agli studenti l'accesso alle tecnologie di scansione del corpo e alle tecnologie indossabili. Ci sono buone probabilità che alcuni di questi studenti, con l'esposizione alle nuove tecnologie, finiscano per lanciare prodotti di moda stampati in 3D che accelereranno il mainstreaming di questo concetto e lasceranno le loro macchine da cucire in un armadio.

Inoltre, la moda stampata in 3D comporta la trasformazione di materiale flessibile in abbigliamento. Gli abiti stampati in 3D possono essere potenzialmente tanto rivoluzionari quanto la macchina da cucire lo era quasi duecento anni fa.

Quando la stampa 3D è stata utilizzata per la prima volta nella moda, il processo era piuttosto lento. Uno dei primi tentativi di realizzare un capo di abbigliamento stampato in 3D ha richiesto sette giorni interi con la stampante in funzione 24 ore al giorno. Inoltre, le stampanti 3D di quei tempi non offrivano materiale di stampa flessibile. Tuttavia, la tecnologia è migliorata. Non ci vogliono più 7 giorni e sono disponibili anche materiali di stampa flessibili. Il materiale flessibile è noto come TPU 92A-1 e può essere lavato e stirato come un normale panno. Il FilaFlex è un altro materiale flessibile usato per fare vestiti stampati in 3D.

La maggior parte degli indumenti stampati in 3D è stampata utilizzando il processo di sinterizzazione selettiva al laser. Questo metodo di stampa 3D offre la possibilità di realizzare disegni intricati e di ottenere un alto livello di dettaglio che è un requisito richiesto dalla moda e dall'abbigliamento.

La tecnologia 3D permetterà ai giovani designer di presentare i loro prodotti al mondo. Tali designer hanno diverse sfide, tra cui la necessità di affrontare lunghi tempi di consegna e ordini minimi. Con la tecnologia 3D, i designer emergenti possono semplicemente stampare gli ordini man mano che vengono effettuati, piuttosto che dover scroccare per ottenere finanziamenti sufficienti per gli ordini minimi e rimanere bloccati con le scorte invendute. Se non altro, la stampa 3D consentirà loro di creare un campione in modo rapido ed economico. La tecnologia offre inoltre a questi progettisti l'opportunità di testare il mercato su piccola scala stampando quantità limitate del loro prodotto per determinare se il loro articolo è accettabile per il mercato.

L'impatto della stampa 3D sul sistema della moda presenta diverse implicazioni peculiari tipiche di questo settore. Questi problemi vanno dalla proprietà intellettuale alla distribuzione e alla sostenibilità.

a) Questioni relative alla proprietà intellettuale

La stampa 3D è una tecnologia digitale emergente che, nonostante il suo impatto positivo sull'industria della moda, può perturbare alcune aree del diritto di proprietà intellettuale.

In generale, l'autenticità è anche un potenziale problema che potrebbe interessare i consumatori. Come può una persona sapere con certezza che il design che sta acquistando è effettivamente il lavoro del designer che viene pubblicizzato

Inoltre, la possibilità di creare, riprodurre, modificare, copiare, trasferire, condividere, pubblicare e scaricare rapidamente file CAD per la stampa 3D ha creato complessi problemi di proprietà intellettuale, soprattutto perché il costo delle stampanti 3D diminuisce.

Poiché il processo di produzione è reso più semplice con la stampa 3D, le stampanti 3D minacciano la proprietà intellettuale delle opere/prodotti realizzati da persone/progettisti, poiché i beni contraffatti possono essere prodotti da privati nelle loro case. In effetti, la tecnologia di stampa 3D, è probabile che crei effetti economici negativi sui titolari dei diritti di proprietà intellettuale e sui loro modelli di business basati proprio su quest’ultima.

La situazione non è ancora particolarmente visibile, ma man mano che la tecnologia migliora e i prezzi delle attrezzature e dei materiali di consumo diminuiscono, la stampa 3D può diventare un fenomeno di massa.

La stampa 3D potenzierà il numero di casi di violazione e si sovrapporrà ad altri DPI, mentre le eccezioni, l'invalidità e l'esaurimento saranno probabilmente difese generali contro la violazione.

Questa sezione analizzerà l'effetto della stampa 3D su tre principali beni di proprietà intellettuale: Marchi, modelli e copyright. 

1) Marchi

Un marchio è un tipo di proprietà intellettuale che consiste in un segno, un disegno o un'espressione riconoscibile che identifica prodotti o servizi di una particolare fonte con quelli di altri. Per alcuni autori, il diritto dei marchi è la forma di protezione più importante per le mode e gli accessori, essendo i dispositivi di comunicazione più efficaci[i].

In generale, un marchio identifica il proprietario del marchio e previene la confusione tra i consumatori. Inutile dire che l'industria della moda utilizza vari tipi di marchi. Tradizionalmente la moda ha usato i marchi denominativi per identificare i prodotti dei produttori del settore, dove è comune trovare sia nomi personali che nomi di fantasia.

L'evoluzione dei segni distintivi negli ultimi decenni ha portato a una varietà di identificatori di provenienza diversi dai segni tradizionali (ad esempio, marchi denominativi e marchi stilizzati). Di conseguenza, il legislatore in tutta l'Unione Europea e in tutto il mondo ha ampliato la possibilità di registrare come marchi oggetti, azioni, eventi e modelli, tra gli altri.

Si scopre quindi che l'industria della moda deposita comunemente per la protezione dei marchi di modelli (che possono essere rappresentati da un'immagine che mostra il modello e come viene ripetuto) e posiziona i marchi (che consistono in una specifica collocazione di un marchio su un prodotto). Tuttavia, dove la stampa 3D sembra avere un impatto più profondo, è sui marchi tridimensionali, che sono segni costituiti dalla forma del prodotto.

Tuttavia, molte giurisdizioni (come l'UE) impongono alcune limitazioni alla registrazione dei marchi di forma. Secondo l'articolo 4, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2015/2436 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2015, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, i segni che consistono esclusivamente in marchi: i) la forma, o un'altra caratteristica, che deriva dalla natura dei prodotti stessi; ii) la forma, o un'altra caratteristica, dei prodotti necessaria per ottenere un risultato tecnico; e iii) la forma, o un'altra caratteristica, che conferisce un valore sostanziale ai prodotti, non devono essere registrati. Ciò significa che la forma funzionale non può essere registrata come marchio ai sensi del diritto comunitario.

Poiché le stampanti 3D servono principalmente a scopi funzionali, sembra che la protezione richiesta dagli stilisti di moda con un marchio tridimensionale dell'Unione Europea porrebbe seri ostacoli all'ottenimento della registrazione della forma di un prodotto fabbricato con una stampante 3D. Dobbiamo ricordare che recentemente Nestle ha perso una causa davanti alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE) per la registrazione della forma a quattro dita del suo Kit Kat perché la forma era funzionale e non distintiva.  Allo stesso modo, la forma tridimensionale del mattone rosso a otto punte di Lego non poteva essere registrata come marchio, perché la forma del mattone è necessaria per ottenere un risultato tecnico.

Poiché molte delle stampe 3D saranno forme funzionali, queste sono escluse dalla registrazione del marchio, ma in quella minoranza di casi in cui un'impronta 3D è distintiva ma non ha uno scopo funzionale, può essere registrabile.

Tuttavia il marchio tridimensionale trova un altro ostacolo quando la registrazione viene richiesta per prodotti di moda.  Per essere registrato come marchio tridimensionale, anche la forma non deve avere alcuno scopo estetico o funzionale. In tal caso, la possibilità di proteggere un prodotto fabbricato con una stampante 3D ai sensi del diritto dei marchi si riduce drasticamente e il designer dovrebbe quindi chiedere la protezione attraverso un brevetto di invenzione industriale, un modello di utilità o la registrazione di modelli.

Per quanto riguarda i marchi, un'ultima nota è obbligatoria quando si guarda dalla prospettiva di un produttore "fai da te" che crea prodotti con una stampante 3D. Aghi per dire che il produttore di stampa 3D in genere non ha il diritto di utilizzare il marchio di proprietà di terzi sul prodotto realizzato con una stampante 3D. Tuttavia, egli potrà sempre rivendicare le difese generali contro la violazione del marchio. Secondo il diritto dell'UE, queste sono generalmente difese "difensive" come l'esaurimento, l'uso corretto, l'assenza di un uso genuino e l'acquiescenza, oltre alle difese di "contrattacco" come l'invalidità e la revoca.

2) Disegni e modelli

Un disegno o modello è definito come "l'aspetto dell'insieme o di una parte di un prodotto risultante dalle caratteristiche, in particolare, delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della consistenza e/o dei materiali del prodotto stesso e/o del suo ornamento".

I disegni e modelli possono essere protetti se:

  •  sono nuovi ossia se non è stato reso disponibile al pubblico alcun disegno o modello identico o che differisce solo per dettagli immateriali;

  • hanno carattere individuale, cioè l'"utilizzatore informato" troverebbe l'impressione generale diversa da altri disegni e modelli disponibili al pubblico. Quando un disegno o modello fa parte di un prodotto più complesso, la novità e il carattere individuale del disegno o modello sono giudicati sulla parte del disegno o modello visibile durante il normale uso.

I disegni o modelli comunitari registrati e non registrati sono disponibili ai sensi del Regolamento UE 6/2002, che prevede un diritto unitario che copre l'Unione Europea. La protezione di un disegno o modello comunitario registrato ha una durata massima di 25 anni, soggetta al pagamento di tasse di rinnovo ogni cinque anni. Il disegno o modello comunitario non registrato dura tre anni dopo che il disegno o modello è stato reso disponibile al pubblico e la violazione si verifica solo se il disegno o modello protetto è stato copiato.

Pertanto, la legge sul disegno o modello comunitario protegge semplicemente l'aspetto dei prodotti come definito dalle loro "caratteristiche" specifiche. Queste caratteristiche possono essere il risultato di un "ornamento" applicato a un prodotto (cioè un'immagine bidimensionale - 2D - o il prodotto stesso (un modello - 3D).

Oltre ai disegni e modelli comunitari, ogni Stato membro ha adottato una legislazione per proteggere disegni e modelli a livello nazionale.

Va notato che, ai sensi del regolamento sui disegni e modelli, l'esclusività concessa ha alcune limitazioni. Le limitazioni più rilevanti si trovano nell'articolo 20 del regolamento sui disegni e modelli, che sono: a) atti compiuti in ambito privato e a fini non commerciali; b) atti compiuti a fini sperimentali; e c) atti di riproduzione a scopo di citazione o di insegnamento, purché tali atti siano compatibili con la prassi del commercio equo e solidale e non pregiudichino indebitamente il normale sfruttamento del disegno o modello e sia fatta menzione della fonte.

Per quanto riguarda l'industria della moda, un caso notevole secondo la giurisprudenza olandese è la decisione di Nadia Plesner del Tribunale dell'Aia.

Qui il tribunale ha bilanciato il diritto fondamentale di Louis Vuitton di godere pacificamente del suo diritto di proprietà (cioè il diritto al design) con la libertà artistica. La corte ha stabilito che un artista poteva utilizzare il disegno di una tela multicolore di LV applicata a una delle sue costose borse come parte di un disegno chiamato Simple Living, dove la borsa di LV veniva portata da un bambino africano malnutrito (insieme a un "cane Paris Hilton-dog"). Per lo stesso motivo, anche l'uso dello stesso disegno del motivo su una maglietta era consentito. L'artista ha spiegato che la borsa è stata usata come simbolo e come parte di un tentativo di attirare l'attenzione su quella che, a suo avviso, era una problematica differenza di attenzione verso le celebrità e la carestia che si stava verificando in Darfur.

 

In questo quadro, gli utenti della stampa 3D per scopi artistici, politici o satirici o per altri scopi privati e anche per i pezzi di ricambio, troveranno una certa libertà di espressione al di là della struttura limitata della normativa europea sul design.

3) Copyright

In generale, sappiamo tutti che il diritto d'autore protegge l'originalità di un'opera e il diritto del creatore di riprodurla. Ciò significa che se le copie di un oggetto originale vengono stampate in 3D senza autorizzazione, il creatore può ottenere un sollievo ai sensi della legge sul diritto d'autore.

Come abbiamo detto, chiunque abbia accesso a una stampante 3D (a casa o in una tipografia locale) è in grado di produrre un prodotto tangibile e utilizzabile a partire da file di progettazione digitale (di solito file CAD). I file CAD sono tipicamente protetti dalla legge sul diritto d'autore e, per molte aziende, rappresentano un bene di proprietà intellettuale di grande valore.

D'altra parte, nonostante la sua attuale e futura importanza potenziale per l'economia, in alcune giurisdizioni la moda può ottenere lo stesso livello di protezione del copyright di altre industrie creative.

Questo tipo di protezione è ricercata dalle case di moda per estendere i diritti di proprietà intellettuale ai prodotti protetti dal regolamento sul design (che di solito dura fino a 25 anni) a un periodo di tempo solitamente pari a 70 anni dopo la morte dell'autore.

Un produttore di moda che crea prodotti con un con una stampante 3D deve sempre tenere presente che la creazione di un prodotto di moda con una stampante 2D può portare a una violazione del copyright in due fasi: il file del software e gli elementi artistici e creativi del prodotto di moda.

 

b) Catena di fornitura e distribuzione.

La produzione tradizionale si basa sulla premessa di una produzione identica e ad alto volume. Tuttavia, tali strutture si stanno rivelando sempre più insufficienti di fronte alla crescente domanda di personalizzazione, ai tempi di consegna più rapidi e alle catene di fornitura più efficienti.  L'approccio tradizionale alla produzione vede la provenienza delle materie prime e la fabbricazione dei prodotti in grandi fabbriche centralizzate. Dopo la produzione, i prodotti vengono spediti al consumatore.

La stampa 3D introduce il concetto di "produzione distribuita", che prevede una rete digitale di siti di produzione decentralizzati, distribuiti in più sedi e collegati da tecnologia digitale. Guidata dalla connettività digitale, la produzione distribuita permette ai produttori di semplificare e ridurre al minimo le loro catene di fornitura di materiali attraverso piattaforme digitali online e la condivisione dei dati. La produzione distribuita potrebbe anche comportare la produzione di parti in diverse località prima di essere assemblate in una sede centrale.

La produzione distribuita può rendere le catene di fornitura più efficienti.

Essa può ridurre le scorte, la logistica e i costi di produzione in diversi modi. Poiché le merci vengono prodotte vicino o nel punto di necessità, la produzione può avvicinarsi/riguardare da vicino/ direttamente il consumatore.

Questo non solo elimina le costose spese logistiche, ma permette anche alle aziende di produrre merci vicine ai rispettivi mercati. Inoltre, immagazzinando un inventario digitale al posto dei magazzini di scorte fisiche, le aziende possono anche ridurre significativamente i costi di inventario. Per quanto riguarda l'industria della moda, una migliore gestione dell'inventario e delle scorte permette importanti risparmi e riduce lo spreco di collezioni e prodotti invenduti. 

Con la crescente domanda di prodotti personalizzati, i produttori devono trovare sempre più spesso il modo di adattare le loro merci alle esigenze specifiche dei loro clienti. Tradizionalmente, avere un unico articolo personalizzato progettato, prodotto e consegnato significherebbe lunghi tempi di attesa e costi più elevati per il consumatore. Tuttavia, la produzione distribuita, con la sua produzione decentralizzata e "ridimensionata", offre una maggiore flessibilità e agilità per produrre prodotti personalizzati, aggiungendo valore a un prezzo paragonabile a quello dei prodotti di massa. Un buon esempio è Adidas: il colosso dell'abbigliamento sportivo ha recentemente aperto quelle che chiama "fabbriche Speedfactories" in Germania e negli Stati Uniti. Queste fabbriche completamente automatizzate sono state create per produrre rapidamente piccoli lotti di scarpe da ginnastica personalizzate, e secondo Adidas, l'azienda è in grado di portare sul mercato il suo abbigliamento sportivo tre volte più velocemente che con la produzione tradizionale. Mentre la maggior parte delle scarpe Adidas sono prodotte in Asia, la costruzione delle sue fabbriche Speedfactories più vicine ai consumatori sia nel mercato americano che in quello europeo ha portato ad una spedizione molto più veloce e, quindi, ad una migliore esperienza del cliente.

La produzione distribuita offre l'opportunità di ripensare le catene di fornitura tradizionali. Le materie prime potrebbero essere spedite in località distribuite invece che in una struttura centralizzata, offrendo una maggiore flessibilità, ad esempio. Un'altra opportunità è quella di spostare le spedizioni più vicino al cliente finale, il che avrebbe un impatto sia sui produttori che sulle compagnie di spedizione, che potrebbero passare a un servizio di produzione "on-demand" invece che allo stoccaggio di scorte fisiche. 

Infine, la stampa 3D permetterà alle aziende e ai marchi di creare, in tempo reale, articoli ottimizzati e personalizzati dal consumatore.

Il deposito abusivo di una domanda di concordato preventivo c.d. “in bianco” e la conseguente responsabilità dell’organo gestorio.

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Capita sempre più spesso che le società in stato di crisi ricorrano - anche nel caso in cui siano già state proposte nei loro confronti delle istanze di fallimento - al deposito una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo con riserva (anche noto come concordato c.d. in bianco).

L’art. 161 R.D. 267/1942 (“Legge Fallimentare”) riconosce infatti all’imprenditore in stato di crisi la possibilità di depositare un ricorso contenente la domanda di concordato preventivo - accompagnata dai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e dall’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei relativi crediti - riservandosi invece di presentare la proposta, il piano e la specifica documentazione prevista dalla Legge fallimentare entro uno specifico momento fissato dal giudice. Entro detto termine, che è per legge compreso tra 60 e 120 giorni ed è prorogabile per un periodo non superiore a 60 giorni in presenza di giustificati motivi, l’impresa ha facoltà di depositare alternativamente una proposta di ristrutturazione dei debiti oppure di concordato preventivo. In caso invece di inutile decorso del termine, il debitore perde i vantaggi connessi e può essere dichiarato fallito.

La motivazione ed i benefici connessi a tale procedura sono ormai noti.

La stessa consente infatti al debitore di ottenere immediatamente il beneficio della tutela del proprio patrimonio, in virtù dell’applicabilità – decorrente dalla data di pubblicazione presso il registro delle imprese del ricorso per concordato preventivo presentato in tribunale e sino alla data di eventuale omologazione – del divieto, posto in capo ai creditori, di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore (art. 168 Legge Fallimentare).

Come è noto, però, non sempre le finalità che animano il deposito della domanda di concordato preventivo in bianco sono realmente genuine e finalizzate all’ordinata soddisfazione, anche se parziale, dei creditori, ma piuttosto lo scopo è quello di posticipare in modo strumentale il momento del fallimento. Questo modus operandi, ove venga accertato, può essere però fonte di responsabilità a carico dell’organo gestorio della società.

Sul tema è infatti intervenuta una recente sentenza del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di imprese (pubblicata in data 1 giugno 2020), che ha esaminato i profili di responsabilità insiti nella condotta dell’organo gestorio, chiarendo che il comportamento dell’amministratore che presenta una domanda di concordato in presenza del presupposto dello stato di insolvenza della società non può essere considerato di per sé ed automaticamente generatore di responsabilità per il risarcimento del danno, anche nel caso in cui la proposta di concordato venga, in ipotesi, dichiarata inammissibile o l’ammissione venga successivamente revocata (artt. 162 e 173 l.f.). Una responsabilità degli amministratori in questo senso può invece configurarsi solo quando la domanda sia da considerarsi abusiva e cioè unicamente finalizzata, con ragionevole probabilità, a posticipare fraudolentemente il fallimento della società in danno dei creditori.

Il danno connesso a questa fattispecie può essere ad esempio ricavato dai costi “inutilmente” sopportati dalla società a seguito della presentazione della domanda di concordato preventivo, depositata in uno specifico momento in cui, non sussistendo in concreto i presupposti per accedere al concordato preventivo, gli amministratori avrebbero viceversa dovuto chiedere il fallimento in proprio della società gestita.

Una ulteriore pronuncia del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di imprese (pubblicata in data 30 ottobre 2019), di poco precedente a quella summenzionata, ha inoltre chiarito che l’adozione di tattiche dilatorie – fra cui il deposito di una domanda di concordato in bianco senza redazione del piano – può comportare una specifica responsabilità del liquidatore per l’aggravamento del dissesto. In tale ipotesi il danno derivante potrebbe ricavarsi proprio dall’incremento, altrimenti evitabile, della situazione debitoria dell’impresa.

Si evidenzia ad ogni modo che la nomina anticipata del Commissario Giudiziale - di recente introdotta nella Legge Fallimentare - ha contribuito a ridurre il numero di ricorsi depositati da parte di quelle imprese che, abusando dell’istituto ed avvalendosi del vantaggio concesso di sospensione delle eventuali azioni esecutive, avevano come unica finalità quella di cercare di posticipare la dichiarazione di fallimento e quindi impedire ai creditori di soddisfare le loro pretese sui beni residui.

L’Autorità di Concorrenza avvia istruttoria per abuso di dipendenza economica nel franchising.

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L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato un’istruttoria nei confronti del gruppo Benetton (ramo vestiti) per un abuso di dipendenza economica ai sensi dell’articolo 9, comma 3 bis, della legge 18 giugno 1998, n. 192, riguardo ai suoi contratti di franchising stipulati con rivenditori indipendenti (franchisee) di prodotti a marchio Benetton.

È questo un provvedimento del tutto inusuale che mostra l’attenzione dell’Autorità per questo tipo di condotta e che per questo motivo segnaliamo.

Secondo l’Autorità Benetton avrebbe imposto ai suoi rivenditori di mantenere una struttura di vendita e un’organizzazione commerciale rigorosamente disegnata sulle sue esigenze, in considerazione del fatto che si garantisce contrattualmente la possibilità di fissare regole e parametri organizzativi idonei a irrigidire la struttura aziendale del franchisee, fino a ostacolarne, se non impedirne, di fatto la sua eventuale riconversione con altro fornitore.

L’Autorità censura l’uso discrezionale da parte di Benetton di alcune clausole contrattuali invasive e che le consentirebbero di incidere su scelte strategiche del rivenditore, quali la definizione delle proposte e/o degli ordini di acquisto, non solo in termini di tempistica, ma anche di quantitativi.

In tal modo, Benetton potrebbe avere condizionato in maniera significativa l’attività economica del franchisee, al quale sarebbe di fatto impedito di gestire in autonomia la propria attività commerciale.

Il Gruppo Benetton detiene una posizione di sicuro rilievo nel mercato dell’abbigliamento, con un marchio che gode di una forte attrattiva commerciale, e dunque la vicenda è rilevante non solo sul piano del singolo rapporto contrattuale, ma anche per la tutela della concorrenza e del mercato. L’utilizzo del modello contrattuale in esame da parte di un soggetto che gestisce una significativa rete commerciale in franchising potrebbe avere, infatti, un impatto significativo su tutti gli imprenditori che costituiscono la rete in questione, a danno del gioco concorrenziale nel mercato.

Ciò lascerebbe, peraltro, credere che, allorquando l’impresa che abusa non gode di una posizione di rilievo nazionale, l’Autorità non si reputerebbe competente, lasciando che del caso se ne occupi eventualmente il giudice civile.

L’indagine, per il momento, non copre l’eventuale imposizione di un prezzo di rivendita, la cui liceità nel franchising è da sempre oggetto di discussione, diversamente dagli altri contratti di distribuzione/rivendita dove essa è, invece, considerata sempre illecita.