L’ordinamento italiano riconosce agli amministratori delle società di capitali il diritto ad ottenere un compenso per le attività svolte in adempimento del mandato ricevuto. Al riguardo, infatti, come qualsiasi attività professionale, anche tale incarico è da considerarsi conferito, quantomeno in via presuntiva, a titolo oneroso.
L'amministratore di una società, con l'accettazione della carica, acquisisce pertanto il diritto ad essere remunerato per l'attività svolta in esecuzione dell'incarico affidatogli e l’entità del compenso potrà essere determinata, alternativamente o cumulativamente, nell’atto costitutivo, nell'atto di nomina o da una successiva autonoma delibera dell’assemblea dei soci (non potendo considerarsi implicita la determinazione del compenso nella delibera di approvazione del bilancio).
Nel caso in cui vengano invece a mancare tali atti formali, il compenso deve intendersi non definito, rimanendo prive di effetti eventuali ulteriori e diverse forme di determinazione, tra cui ad esempio l'accordo orale eventualmente intervenuto fra l’amministratore stesso ed il socio di maggioranza.
Pertanto, ove l’atto costitutivo nulla disponga al riguardo ovvero l’assemblea dei soci ometta di procedere alla relativa quantificazione o, ancora, la determini in misura assolutamente inadeguata, l’amministratore potrà ricorrere all’Autorità giudiziaria al fine di richiedere una specifica determinazione giudiziale anche mediante una liquidazione in via equitativa dello stesso.
Quanto ai profili legati alla menzionata determinazione giudiziale, è necessario chiarire che non esiste un compenso minimo, tanto è vero che gli amministratori possono rinunciare integralmente al compenso o accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguata al lavoro svolto. In tali ultime ipotesi, deve essere però ravvisabile il loro consenso, anche se desumibile da tacite condotte che siano interpretabili in modo univoco circa tale volontà abdicativa, non essendo viceversa sufficiente la mera inerzia o il silenzio.
Come è stato recentemente chiarito da una pronuncia del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di imprese (pubblicata il 22 giugno 2020), ai fini della liquidazione in via equitativa del compenso dovuto ad un professionista, il giudice di merito investito della relativa domanda giudiziale dovrà tener conto, oltre che della natura dell’incarico, anche della quantità e qualità dell’attività concretamente svolta dall’amministratore.
In particolare, il giudice adito dovrà quantificare l’ammontare del compenso dovuto all’amministratore in maniera proporzionale all'entità delle prestazioni eseguite da quest’ultimo ed al risultato utile effettivamente conseguito dal mandante (ovvero la società), posto che la determinazione concreta del compenso non può, per sua natura, che essere effettuata con giudizio di tipo equitativo, lasciando ampia facoltà discrezionale in capo all’Organo giudicante.
In un giudizio di liquidazione del compenso azionato da un amministratore di società di capitali, non si può pertanto prescindere dall’allegazione e dalla prova specifica della qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte, risultando insufficiente la mera indicazione del compenso pattuito in esercizi sociali di anni diversi o a favore di diversi amministratori in analoghe posizioni.
La determinazione equitativa del compenso spettante all’amministratore dovrà basarsi, in definitiva, sull’apprezzamento dei dati ricavabili dai documenti prodotti, elementi dai quali, congiuntamente valutati, potrà ricavarsi l’effettiva entità, estensione e rilevanza dell’attività in concreto svolta dal singolo amministratore.