Dior deposita la domanda di registrazione della borsa Saddle quale marchio tridimensionale.

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A 20 anni dal lancio di un modello oramai divenuto iconico, Dior ha deposiato all’Us Patent and Trademark Office domanda per la registrazione della famosa borsa ‘Saddle’ quale marchio tridimensionale.

La Saddle bag è stata riproposta a partire dalla collezione A/I 2018-19 con l’aggiunta di nuovi dettagli, stampe e materiali all’accessorio che riprende il profilo di una sella.

Si ricorda che il marchio tridimensionale è un segno costituito dalla forma tridimensionale di un prodotto o del suo aspetto ed è disciplinato da una specifica regolamentazione, sia a livello europeo che italiano, che prevede l’esclusione della registrabilità per i segni che:

a)            sono costituiti dalla forma, o altra caratteristica, imposta dalla natura stessa del prodotto;

b)           dalla forma, o altra caratteristica, del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico;

c)            dalla forma, o altra caratteristica, che dà un valore sostanziale al prodotto.

Quanto alla prima limitazione, la ratio di tale norma è quella di voler impedire che un diritto rinnovabile, potenzialmente illimitato nel tempo, come quello del marchio, possa finire con il monopolizzare delle forme che derivano dalla forma naturale del prodotto, o che in ogni caso siano prive di capacità distintiva in quanto coincidenti con una forma standard nell’opinione dei consumatori.

In riferimento al divieto di registrare una forma funzionale, la ratio della norma è quella di tutelare il mercato evitando che un soggetto possa divenire titolare di una privativa perpetua su delle soluzioni tecniche o delle caratteristiche funzionali di un prodotto le quali, al contrario, possono essere tutelate tramite dei brevetti per invenzioni.

Infine, per quanto attiene al divieto di registrare una forma sostanziale, la norma è volta ad impedire la registrazione di una forma che, da sola, sia in grado di determinare la scelta dei consumatori. Tale caratteristica, infatti, rientra nella tutela dei brevetti per modelli privativa che, contrariamente al marchio, è temporalmente limitata.

Sul punto la giurisprudenza ha statuito che il marchio tridimensionale possa essere registrato qualora le forme per le quali si richiede la tutela abbiano una valenza funzionale, o estetica, tale da non configurare un particolare carattere di ornamento o utilità. In un caso, è stata negata la registrazione come marchio tridimensionale in quanto nel medesimo era possibile cogliere l’elemento estetico come preponderante se non addirittura esclusivo e comunque con un rilievo tale da determinare la scelta del consumatore.

Qualora Dior volesse estendere la tutela del marchio tridimensionale, anche a livello comunitario, molto probabilmente sarà questo terzo requisito lo scoglio più arduo da superare per la maison francese. Del resto vale la pena ricordare che con due sentenze del 2013, il Tribunale dell’Unione Europea negò a Bottega Veneta la registrazione come marchi comunitari tridimensionali di due diverse forme di borsetta, caratterizzate l’una dalla particolare conformazione dei manici e l’altra dall’assenza di dispositivi di chiusura. Nel caso di specie, i giudici ritennero che le forme di cui Bottega Veneta chiedeva la registrazione non assolvevano alla funzione essenziale di un marchio, ovvero quella di indicatore d’origine di un prodotto.

Il progetto Pepp-pt e il ruolo di Google ed Apple nel contact tracing.


Con l’apertura della Fase 2 si avvia un periodo di transizione verso una nuova normalità che prevede l’allentamento di alcune misure restrittive imposte dal Governo. Tutti i paesi membri dell’Unione Europea hanno avviato studi per lo sviluppo di soluzioni tecnologiche che possano coadiuvare i governi nazionali a monitorare la curva di contagio e permettere il tempestivo isolamento dei soggetti a rischio.

Ai vari progetti nazionali si è aggiunta una proposta pan-europea. Tale iniziativa definisce le linee guida che i singoli governi nazionali devono seguire e fornisce uno strumento condiviso per velocizzare lo sviluppo di applicazioni per il monitoraggio e il contenimento del contagio, nel rispetto dei principi fondamentali dell’Unione Europea.

Il progetto Pan-europeo

Il progetto Pepp-pt (Pan European Privacy- Preserving Proximity Tracing) è stato elaborato da un gruppo internazionale di ricercatori coinvolgendo oltre 130 realtà (aziende ed organizzazioni) di 8 nazioni (per ora: Italia, Francia, Germania, Spagna, Austria, Belgio, Danimarca e Svizzera) e si pone come obiettivo lo sviluppo di un software che potrà essere implementato nelle applicazioni rilasciate dai singoli governi nazionali.

La tecnologia prescelta dai ricercatori del Pepp-pt per il concact tracing è quella Bluetooth, che permette di trasmettere e rilevare il codice identificativo anonimo dell’applicazione scaricata ed associata ad ogni smartphone.

Ciò renderà possibile ricostruire la rete dei soggetti con cui un individuo è venuto a contatto e tentare di interrompere la catena dei possibili contagi.

Il gruppo di ricercatori ha anche rivolto un appello direttamente alle tech giant della Silicon Valley, incluse Google ed Apple, affinché queste contribuissero con il loro know-how a individuare strategie volte a rendere più efficaci gli strumenti di contact tracing sviluppati nei diversi paesi.

Google Maps: uno strumento per le autorità

Google aveva già manifestato la volontà di dare il proprio contributo nella gestione dell’emergenza Covid, mettendo a disposizione delle autorità le mappe di 131 paesi che riportano i trend degli spostamenti degli individui sul territorio, così da segnalare i luoghi che necessitano di maggiore presidio da parte delle forze dell’ordine.

Le statistiche elaborate da Google Maps permettono di suddividere i luoghi per categorie (supermercati, farmacie, stazioni, mezzi pubblici) e vengono aggiornate ogni 48-72 ore.

I dati messi a disposizione delle autorità sono in forma aggregata e anonimizzata, rendendo pertanto impossibile risalire all’identità dei singoli soggetti. Tali informazioni, quindi, non ricadono nell’ambito di applicazione del regolamento europeo in materia di data protection.

Apple e Google insieme contro il Covid 19

Google ed Apple hanno annunciato una storica collaborazione per lavorare ad un piano condiviso di monitoraggio del contagio attraverso i rispettivi sistemi operativi, Android e iOS. Le due piattaforme vengono utilizzate da quasi il 99% degli utenti mobile e possono potenzialmente tracciare gli spostamenti di circa 3 miliardi di persone in tutto il mondo (obiettivo che sarebbe impossibile da raggiungere con la cooperazione di tutti i governi delle nazioni colpite dalla pandemia).

Ad oggi, l’ambizioso progetto di Google ed Apple sembra che si articolerà in due fasi:

  • Condivisione di API: a maggio Google ed Apple metteranno a disposizione delle application programming interface (API) che consentiranno l’interoperabilità tra i dispositivi Android e iOS delle applicazioni sviluppate in ciascun paese, permettendo così alle autorità competenti di elaborare con maggiore facilità tutti i dati raccolti, indipendentemente dal tipo di device utilizzato dai cittadini;

  • Implementazione della tecnologia Bluetooth: successivamente, è prevista l’implementazione di una più ampia piattaforma di contact tracing basata sulla tecnologia Bluetooth, che dovrebbe permettere ai sistemi operativi iOS e Android di interagire direttamente con le app sviluppate dai governi dei diversi paesi, con il potenziale coinvolgimento anche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

  • Preoccupazioni in materia di data protection

Le modalità di tracciamento del sistema Pepp-pt, così come quelle di Google ed Apple, appaiono (ad oggi ed in linea teorica) conformi alle direttive emanate dal comitato delle autorità privacy europee. Le autorità garanti hanno definito le 3 principali linee guida che devono essere seguite per assicurare ai cittadini europei che il monitoraggio avvenga nel rispetto dei principi della normativa europea in materia di data protection:

  • volontarietà: l’utilizzo di qualsiasi applicazione non può essere coercitivo ma potrà avvenire unicamente su base volontaria;

  • uso di dati anonimi: i dati raccolti ed elaborati dalle autorità potranno essere unicamente dati anonimizzati, cioè dati che non consentiranno in alcun modo di risalire all’identità dei singoli utenti.

  • decentralizzazione: i dati raccolti saranno conservati unicamente sul dispositivo del singolo utente che potrà, qualora fosse incorso nel rischio di contagio, dare il proprio consenso affinché le autorità accedano ed elaborino i dati salvati sul suo dispositivo.

Nello scenario così delineato, tutela della privacy e trasparenza sul trattamento delle informazioni devono essere le colonne portanti di qualsiasi progetto di contact tracing.

In proposito, perplessità permangono circa la reale possibilità di “anonimizzare” i dati, in maniera da garantire una completa de-identificazione dell’utente che impedisca di risalire all’individuazione di soggetti specifici.

Analogamente, dovrà essere verificata l’eventuale esistenza di server centralizzati, anche solo per il backup delle informazioni archiviate nei singoli dispositivi.

Una particolare attenzione dovrà poi essere dedicata, da parte delle autorità garanti, a sorvegliare il rispetto dei principi in materia di data protection da parte dei giganti del tech che mettano a disposizione la propria tecnologia per l’attività di contact tracing, ottenendo in questo modo un’ulteriore significativa estensione del volume e della tipologia di dati trattati.    

Fase due: misure di contenimento del contagio da Sars Cov-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione.

Siamo alla soglia del secondo tempo e l’Italia non può trovarsi impreparata ma deve puntare alla rimonta per vincere questa difficile partita contro un nemico invisibile particolarmente arduo da sconfiggere.

Le manovre del Governo per fornire alla squadra italiana i mezzi migliori per scendere in campo sono molteplici e puntano ad un graduale sviluppo di schemi volti a prevenire e mitigare il rischio di contagio per i lavoratori che ricominceranno a fornire la propria prestazione lavorativa.

Meritano attenzione il DPCM del 26 aprile 2020 che, dal 4 maggio 2020, modifica e sostituisce il DPCM 10 aprile 2020, con le dovute eccezioni; il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, già sottoscritto il 14 marzo 2020 su invito del Presidente del Consiglio dei ministri e sottoscritto con la partecipazione e l’accordo tra le parti sociali, e aggiornato al 26 aprile 2020; il documento tecnico INAIL sulla rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e le strategie di prevenzione; il tutto in accordo con il T.U. sulla sicurezza per il lavoro (D.Lgs. n. 81/2008) ed il c.d. Decalogo delle misure igieniche contenute nelle indicazioni del Ministero della Salute.

Ebbene, unico obiettivo comune è la ripartenza delle attività produttive ma in presenza di condizioni che assicurino ai lavoratori adeguati (ed elevati) livelli di protezione.

In primo luogo, il Protocollo sottoscritto tra governo e parti sociali emana linee guida condivise per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio e si compone di 13 articoli relativi rispettivamente a: obbligo d’informazione; modalità di ingresso in azienda; modalità di accesso dei fornitori esterni; pulizia e sanificazione in azienda; precauzioni igieniche personali; dispositivi di protezione individuale; utilizzo e la gestione degli spazi comuni; organizzazione aziendale (turnazione, trasferte e smart work, rimodulazione dei livelli produttivi);gestione entrata e uscita dei dipendenti; spostamenti interni, riunioni, eventi interni e formazione; gestione di una persona sintomatica in azienda; sorveglianza sanitaria/ medico competente/ RLS.

Il già menzionato Protocollo costituisce un allegato del DPCM del 26 aprile 2020 e deve essere adottato presso la totalità delle attività produttive, pena la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.

Con ciò si è inteso rendere univoco l’obbligo di focus sugli standard di sicurezza al fine di evitare che, al contrario, la tristemente famosa curva dei contagi possa nuovamente subire un’impennata.

Per tale ragione resta di fondo l’obbligo di favorire il massimo utilizzo possibile di modalità di lavoro a distanza o lavoro agile (smart working).  Per le attività che non possano essere svolte in smart working, previa valutazione del rischio sarà necessario: (i) adozione delle misure di sicurezza da riflettere in (ii) protocolli aziendali di sicurezza anti-contagio; (iii) adozione di adeguati strumenti di protezione individuale ed ambientale; (iv) adozione di ogni misura ritenuta utile al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori, anche suggerita dal medico competente, in considerazione del suo ruolo nella valutazione dei rischi e nella sorveglianza sanitaria; (v) limitazione al massimo degli spostamenti all’interno dei siti e contingentamento dell’accesso agli spazi comuni;  (vi) sanificazione periodica dei luoghi di lavoro, anche utilizzando, a copertura della sospensione delle attività, gli ammortizzatori sociali(vii) stipulazione di intese con le organizzazioni sindacali; (viii) nomina di un responsabile aziendale per la gestione del rischio, con cui i dipendenti possano interfacciarsi per richiedere chiarimenti[1]; (ix) nomina di un responsabile per le comunicazioni con le autorità e i servizi sanitari per la segnalazione tempestiva di casi di contagio e di sospetto contagio.

Appare peraltro opportuno specificare che l’eventuale mancato adeguamento interno delle attività produttive al Protocollo comporterà non solo la sospensione dell’attività ma anche eventuale addebito di responsabilità, civile e penale, al datore di lavoro per i danni subiti dal lavoratore.[2]

A tutto quanto sopra si aggiunga che ad oggi, (e già sulla scorta dell’articolo 42 del Decreto Cura Italia, come modificato dalla relativa legge di conversione), i casi accertati di infezione da COVID-19 “in occasione di lavoro” sono equiparati ad infortunio sul lavoro con conseguente copertura INAIL.[3]

Ecco che, come si evince dalla tavola sinottica che si allega, l’INAIL ha provveduto ad emettere un documento tecnico sulla rimodulazione delle misure di contenimento del contagio di Covid19 nei luoghi di lavoro e le strategie di prevenzione.

Le misure di prevenzione prese in esame dall’Istituto posso essere cosi classificate:

- misure organizzative: estremamente importanti per molti aspetti nell’ottica dell’eliminazione del rischio che riguardano la gestione degli spazi di lavoro (rimodulati nell’ottica del distanziamento sociale perseguito dallo scoppio della pandemia); la rimodulazione degli orari di lavoro con articolazione in turni al fine di evitare aggregazioni sociali.

- misure di prevenzione e protezione: in accordo con quanto previsto dal T.U. sulla sicurezza sul lavoro dovranno essere adottate isure di carattere generale e specifico commisurate al rischio di esposizione al contagio da Covid19 negli ambienti di lavoro privilegiando misure di prevenzione primaria.

Con ciò si intende non solo una adeguata ed incisiva attività di informazione e formazione, con particolare riferimento al complesso delle misure adottate cui il personale deve attenersi, ma anche l’obbligo per i datori di lavoro di fornire le mascherine (ormai ritenuti DPI) ai propri dipendenti, nonché l’obbligo di sanificazione degli ambienti.

- Misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici: considerato che l’inizio di questo “secondo tempo” è particolarmente incerto, bisogna purtroppo considerare il rischio di una riattivazione di focolai nei luoghi di lavoro. Appare, quindi, opportuno mettere in atto una serie di misure volte a contrastarli.

Vanno rafforzate tutte le misure di igiene già richiamate e va altresì attuata la procedura del controllo della temperatura corporea sui lavoratori, prima dell’accesso al luogo di lavoro: se tale temperatura risulterà superiore ai 37,5° C, non sarà consentito l’accesso ai luoghi di lavoro.

Si attendono nuove linee guida per la fase successiva al 17 maggio 2020.



[1] il citato Protocollo 24 aprile 2020 prevede altresì la creazione di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo, con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), in alternativa è previsto un Comitato Territoriale costituito dagli Organismi Paritetici per la salute e la sicurezza.

[2] Il che evidentemente comporterà una modifica con maggiore attenzione del Modello organizzativo di cui al D. Lgs. n. 231/2001, al fine di evitare una ri-organizzazione aziendale confusa ed improvvisata, che improvvidamente tralasci alcuni profili di prevenzione del rischio che invece, negli ultimi anni, le imprese italiane avevano imparato a considerare.

I legali sono già pronti ad assistere i propri clienti nella fase riorganizzativa al fine di evitare scomodi e problematici contenziosi in sede giudiziale.

[3] Si precisa, altresì, che con la circolare INAIL 13/2020 è stato previsto che la tutela assicurativa opera anche nei casi di infezione da Covid-19 contratta nel tragitto casa-lavoro (c.d. infortunio in itinere). Per alcune categorie di lavoratori, particolarmente esposte al rischio di contagio, sussiste una presunzione semplice dell’origine professionale dell’infezione contratta (es. personale sanitario, lavoratori che operano in front-office).




Fotografia e Moda. Clovers ottiene una pronuncia favorevole dal Tribunale di Milano in materia di indebito utilizzo di una fotografia.


Uno degli abiti della collezione.

Uno degli abiti della collezione.

È di pochi giorni fa la sentenza con cui il Tribunale di Milano ha condannato una nota società di moda italiana (la Antonio Marras Srl) al risarcimento del danno in favore del fotografo statunitense, Daniel J. Cox, per la riproduzione non autorizzata di una fotografia di quest’ultimo su dei capi di abbigliamento.

Daniel J Cox è tra i più affermati fotografi naturalistici nonché autore di diverse copertine della rivista National Geographic. Negli anni passati, il fotografo ha realizzato una nota fotografia raffigurante un lupo ululante sotto una bufera di neve.

La controversia sorge quando la società di moda, convenuta poi nel giudizio avanti al tribunale di Milano, utilizza senza consenso dell’autore tale immagine per sviluppare la sua collezione di moda.

L’opera fotografica di Daniel J, Cox. Copyright Daniel J. Cox.

L’opera fotografica di Daniel J, Cox. Copyright Daniel J. Cox.

L’immagine oggetto della controversia, che il Tribunale ha riconosciuto quale opera artistica tutelabile ai sensi della Legge sul Diritto d’Autore risultava in particolare chiaramente riprodotta su una serie di capi donna, distribuiti e commercializzati nel mondo e su alcune piattaforme d’abbigliamento on line, tra le quali quella gestita dall’altra convenuta.

Esaurita senza successo la fase stragiudiziale volta alla composizione della lite, il fotografo ha invocato la tutela inibitoria contro l’utilizzo non autorizzato dell’immagine nonché per il risarcimento del danno quantificato su istanza dello stesso nel cd. prezzo del consenso.

Il Collegio ha ritenuto che l’immagine stampata sul capo d’abbigliamento realizzato dalla convenuta, oltre a coincidere con lo scatto fotografico dell’attore, possedesse quel carattere artistico e creativo necessario per accedere alla tutela “rafforzata” prevista dalla Legge sul diritto d’autore.

Come noto, la legge italiana sul diritto d’autore attribuisce alle fotografie un duplice livello di protezione, distinguendo tra opere fotografiche (o fotografie artistiche) e fotografie semplici.

Il discrimine – non sempre agevole nella pratica - viene tracciato in prima istanza dalla lettera della legge: gli articoli da 87 ss lda definiscono come fotografie semplici “le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell’arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche” e riconoscono alle stesse tutela in quanto oggetto di un cd. “diritto connesso”.

Manca per converso, un’espressa definizione legislativa di opera fotografica (se non per quel che si può ricavare “a contrario” dalla definizione precedente) la quale è invece demandata al valutazione “pratica” del giudice sulla base di una serie di indici.

Le fotografie artistiche dunque accedono alla tutela autorale e sono protette fino a 70 dopo la morte del loro autore, laddove invece, le fotografie semplici, godono di una tutela limitata (20 anni dalla data di produzione) ed al fotografo spetta unicamente un equo compenso in caso di utilizzo illegittimo.

Un primo e fondamentale snodo della decisione riguarda il riconoscimento del valore artistico della fotografia: a parere del Collegio giudicante nel caso di specie, tale riconoscimento risiede “nella capacità creativa dell’autore, vale a dire nella sua impronta personale, nella scelta e studio del soggetto da rappresentare (Cass. Civ. 21 gennaio 2000, n. 8425), così come nel momento esecutivo di realizzazione e rielaborazione dello scatto, tali da suscitare suggestioni che trascendono il comune aspetto della realtà rappresentata (Trib. Roma, Sez. Spec. Impresa, 2 maggio 2011; App. Milano, 7 novembre 2000)”.

La scelta di ritrarre l’animale nel suo ambiente naturale ed in condizioni climatiche avverse rende lo scatto “frutto di studio e di attenta analisi fotografica da parte dell’autore” e contribuisce al riconoscimento del valore artistico della stessa secondo il Tribunale.

È anche la tecnica che viene in questo caso in rilievo al fine del corretto inquadramento dell’immagine nell’ambito delle opere fotografiche tutelate e tutelabili: “una sapiente sfocatura dell’ambiente circostante, esaltando così l’espressione del soggetto rappresentatoed evocando, in questo modo, peculiari suggestioni nell’osservatore tali da travalicare la mera rappresentazione grafica dell’animale (…) “un sapiente uso del chiaroscuro e l’utilizzo, con finalità creative, dei giochi di luce”.

A fare propendere il Collegio per la valutazione in senso artistico dell’opera vi sono in via “ausiliaria” anche lo specifico riconoscimento autorale in territorio statunitense dell’artista e la collocazione dell’immagine all’interno di un’opera monografica alla quale è stata data dignità di pubblicazione e stampa.

Una volta quindi accertata la natura artistica dell’opera, l’utilizzo da parte della società convenuta a fini commerciali della fotografia, mediante la sua collocazione su un capo di abbigliamento inserito nella collezione donna, in assenza di autorizzazione alcuna da parte dell’autore, “costituisce aperta violazione delle privative autorali, cui consegue il diritto del fotografo ad ottenere il risarcimento del danno”.

È interessante notare come il Tribunale rigetti le eccezioni sollevate dal convenuto circa la presunta legittimità dell’utilizzo dello scatto, essendo lo stesso reperibile sul motore di ricerca Google.

“Ed invero” – precisa il Collegio – “la mera disponibilità sul web di una fotografia non costituisce certamente presunzione di assenza di privative autorali, gravando semmai sull’internauta l’onere di accertare l’esistenza, o meno, di diritti in capo a soggetti terzi”.

Il passaggio appare fondamentale nell’era di massima espansione della comunicazione e della promozione da parte delle aziende tramite social network che fanno massivo uso delle immagini.

Altro aspetto che ha rivestito una certa importanza, è stato quello afferente la “responsabilità del distributore” della merce contraffatta. A tal proposito, infatti, il Collegio ha rilevato la sussistenza della culpa in vigilando dello stesso in quanto quest’ultimo non ha fornito alcuna dimostrazione di aver ottenuto, da parte della Antonio Marras specifica attestazione circa la piena titolarità dei diritti di sfruttamento commerciale dei capi d’abbigliamento e delle immagini sugli stessi riprodotte.

Il Collegio, in conclusione, ha deciso che l’opera del fotografo Daniel J. Cox debba ritenersi tutelata dalla normativa sul diritto d’autore, in quanto opera dell’ingegno con carattere creativo nel particolare settore della fotografia, condannando le convenute, in solido tra loro, al risarcimento del danno in favore dell’attore e disponendo la pubblicazione del dispositivo della sentenza a cura e a spese delle parti convenute sul periodico Vanity Fair.

Attraverso questa pronuncia il Tribunale di Milano ha affrontato una pluralità di questioni oggetto di continui dibattiti tra gli esperti del mondo della proprietà intellettuale. Rimane vivido, dunque, l’auspicio di continuare ad ottenere sempre più risposte.

“Immuni”: funzioni e criticità dell’ app di contact tracing prescelta dalle autorità.

Andrea Antognini - Of Counsel

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A seguito dell’invito che il Ministero dell’Innovazione Tecnologica ha rivolto a tutte le aziende operanti nel settore digitale italiano, sono stati più di 300 i progetti presentati per monitorare la diffusione del Covid-19 durante la fase di allentamento del lockdown.

L’applicazione di contact tracing prescelta dal Ministero e dalla task force guidata da Vittorio Colao si chiama “Immuni” ed è il risultato della partnership tra la società Bending Spoons, il Centro Medico Santagostino e la società di e-marketing Jakala.

Come funziona “Immuni”

Immuni, app con codice open source che sarà scaricabile sulle principali piattaforme Android e Apple, presenta due principali funzionalità: il diario clinico e il sistema di contact tracing.

Diario clinico

Ogni utente potrà compilare quotidianamente un questionario in cui inserire tutti i dati rilevanti circa il proprio stato di salute (età, malattie pregresse, assunzione di farmaci) e segnalare l’insorgenza dei sintomi correlati all’infezione da Covid-19.

Questa funzionalità consentirà agli esperti di lavorare sui dati aggregati di un campione significativo della popolazione italiana, così da poter individuare e gestire con tempestività eventuali nuovi focolai epidemici.

Contact Tracing

Il sistema di contact tracing di “Immuni” si basa sull’utilizzo della tecnologia Bluetooth, che consente di rilevare la vicinanza tra due smartphone (sui i quali sia stata installata l’app) e di identificare tutte le persone con cui un soggetto positivo al Covid-19 sia venuto a contatto nei precedenti 14 giorni.

Una volta scaricata, l’applicazione genera automaticamente un codice identificativo che può essere rilevato da altri device situati entro la distanza di un metro. I codici identificativi di tutti i dispositivi con cui un soggetto è entrato in contatto vengono memorizzati sullo smartphone di ogni utente.

Nel caso in cui un soggetto risultasse positivo al virus - e solo, sembrerebbe, previo suo consenso - si potrà procedere al trattamento dei dati conservati nel suo cellulare, in modo da individuare coloro che sono potenzialmente incorsi nel rischio di contagio nei giorni precedenti.

A differenza delle app di tracciamento rilasciate in Cina, Singapore e Corea del Sud, “Immuni” non traccerà quindi gli spostamenti dei suoi utenti con l’utilizzo del sistema di localizzazione GPS, ma utilizzerà unicamente la tecnologia Bluetooth, che consente il rispetto del principio di minimizzazione dei dati trattati (raccogliendo solo le informazioni strettamente necessarie a tracciare i potenziali contatti tra soggetti e non tutti i loro spostamenti) e che risulta essere più efficace nell’individuazione delle catene di contagio.

Salute vs Privacy: le linee guida

Nelle scorse settimane si sono accesi numerosi dibattiti sulla necessità di trovare un equilibrio tra l’irrinunciabile diritto alla salute e il diritto alla privacy individuale.

A questo proposito, sia il Garante Privacy italiano che l’European Data Protection Board (il comitato formato dalle autorità privacy europee) sono intervenuti per fornire delle linee guida al fine di conciliare questi diritti particolarmente meritevoli di tutela nel contesto dell’emergenza sanitaria globale.

Secondo quanto affermato dalle autorità, qualsiasi applicazione per il monitoraggio e il contenimento della pandemia dovrebbe (i) basarsi sul consenso del singolo utilizzatore, (ii) trattare unicamente dati anonimizzati e (iii) prevedere che tali dati siano conservati sul dispositivo e non su server centralizzati.

Volontarietà, anonimizzazione e conservazione dei dati

Nel caso di “Immuni”, ogni cittadino sarà libero di scegliere se scaricare e attivare l’applicazione, il cui utilizzo avverrà quindi solo su base volontaria.

Tuttavia, sulla base delle poche informazioni ad oggi disponibili, non vi è altrettanta certezza circa la sussistenza degli altri due requisiti, in particolare circa l’effettiva e irreversibile anonimizzazione dei dati.

Il codice ID generato ogni volta che un utente scarica l’applicazione non può essere infatti considerato come “dato anonimo” nel senso giuridico del termine, ma è piuttosto un dato “pseudonimizzato”, cioè un dato che può essere aggregato ad altri per risalire all’identità di una persona specifica.

D’altra parte, l’applicazione non potrebbe ricostruire la rete di contagi qualora dovesse utilizzare dati effettivamente anonimizzati, che non consentirebbero quindi di risalire in alcun modo all’identità dei singoli soggetti.

La distinzione assume rilevanza dal punto di vista giuridico perché i dati trattati nella lotta alla pandemia e (irreversibilmente) anonimi non sarebbero più dati personali e, quindi, non oggetto di tutela ai sensi del GDPR. Al contrario, se i dati sono “pseudonomizzati”  trovano applicazione anche le più rigorose norme sul trattamento di dati sensibili.

Ulteriori profili che sarà opportuno approfondire al momento del rilascio dell’app riguardano le modalità di conservazione dei dati raccolti, l’ubicazione e la gestione di eventuali server centralizzati sui quali le informazioni saranno raccolte o transiteranno, i soggetti a cui i dati saranno comunicati i dati e se e quando avverrà la cancellazione di tali dati.

Da ultimo, per quanto attiene alla concreta efficacia dell’app, vale sottolineare che la raccolta e il trattamento dei dati potranno divenire significativi da un punto di vista operativo solo nel caso in cui la quantità di utenti che scaricano e utilizzano la app raggiunga una percentuale estremamente consistente della popolazione (attualmente stimata in circa il 60% dei cittadini italiani). Inoltre, l’ausilio prestato dall’app si basa sull’ineludibile esigenza di individuare – nel mondo reale e non digitale – i casi di positività al virus tramite test diagnostici così da poter da tracciare e tempestivamente interrompere le catene di possibili contagi.

SPAC: analisi, vantaggi e benefici per le PMI italiane anche alla luce dell’attuale scenario di emergenza socio-sanitaria

Le SPAC (Special Purpose Aquisition Companies) sono una particolare tipologia di società veicolo destinate alla raccolta di capitali di rischio attraverso la quotazione (IPO o Initial Public Offer) e con l’obiettivo di investimento in una o più società operative esistenti (società “target”).

Il tratto caratteristico di tali società è rappresentato dalla circostanza che la raccolta (IPO) si basa su un progetto di investimento in quanto la  target sarà individuata successivamente e, pertanto, la sottoscrizione da parte degli investitori avviene “quasi al buio”. Al termine della fase IPO, infatti, l’unico asset in portafoglio è la liquidità raccolta che esprime anche il valore di mercato di tale società.

Le SPAC, dunque, sono strumenti di investimento che, dopo aver identificato una azienda da acquisire, servono a raccogliere capitale con lo scopo di arrivare alla quotazione nel mercato Aim-Italia di Borsa Italiana. Le SPAC sono acceleratori di IPO e, dunque, rappresentano un nuovo modo di fare private equity.

Lo schema di sintesi proposto da Borsa Italiana mostra come il ciclo di vita delle SPAC possa essere suddiviso nelle seguenti quattro fasi principali:

a) costituzione della SPAC da parte dei promoters e sponsor che effettuano un aumento di capitale;

b) IPO con assegnazione di azioni e warrant;

c) individuazione di una società target da acquisire, con i requisiti adeguati in rapporto al progetto di investimento, da presentare al mercato come obiettivo della successiva business combination;

d) votazione da parte dell’assemblea dei soci sulla business combination e, in caso di esito positivo della votazione, eventuale perfezionamento della fusione e/o integrazione e la liquidazione dei soci dissenzienti oppure, in caso di esito negativo, scioglimento della SPAC e restituzione dei capitali agli investitori.

Il regolamento delle SPAC contiene i profili rilevanti dell’operazione tra cui i dettagli della politica di investimento e i criteri selettivi per la successiva fase che è quella della ricerca della società target. Tale fase è sottoposta ad un termine, a tutela degli investitori, che può essere di 18 o 24 mesi dall’avvio delle negoziazioni (IPO) ma è estendibile se nel frattempo è stata firmata, e comunicata al mercato, una lettera di intenti con la società target. In caso di decorso del termine senza che la società target sia individuata, la SPAC è posta in liquidazione e i fondi vincolati sono restituiti agli investitori.

Elemento caratteristico delle SPAC, inoltre, è che i capitali raccolti con l’IPO vengono depositati in un conto vincolato (escrow account) che è indisponibile senza previa delibera dell’assemblea dei soci.

Da tutto quanto sopra esposto si evince che le SPAC sono uno strumento di investimento a basso profilo di rischio fino al momento dell’acquisizione, ma con un importante upside potenziale in caso di successo dell’operazione.

Quanto agli investitori, infatti, è da evidenziare il basso profilo di rischio in relazione al fatto che, in caso di insuccesso e liquidazione della SPAC, gli stessi hanno diritto al rimborso integrale dell’investimento a valere sull’escrow account. Le SPAC, infatti, posizionano l’investitore al centro del sistema decisionale: la decisione della business combination è sempre demandata agli azionisti, con possibilità di uscita per i singoli azionisti dissenzienti. Inoltre, qualora la business combination non dovesse essere approvata entro il termine massimo di durata della SPAC, quest’ultima si scioglierà per il decorso del termine e verrà posta in liquidazione.

Quanto poi alla società target, il primo vantaggio consiste nella evidente semplificazione del processo di quotazione. Altro vantaggio si rinviene nella riduzione del rischio del prezzo di quotazione delle azioni in quanto, rispetto all’IPO diretta dove il prezzo è fissato sul mercato, nella business combination il prezzo è un elemento della negoziazione tra le parti (SPAC e target) e consiste in un meccanismo che consente alla società target di aderire solo in presenza delle condizioni economiche ritenute soddisfacenti.

In Italia, le SPAC sono disciplinate dal regolamento dei mercati organizzati e gestiti da Borsa Italiana S.p.A., e ricondotte al tipo delle "società costituite con lo scopo di acquisizione di un business il cui oggetto sociale esclusivo prevede l'investimento in via prevalente in una società o attività, nonché le relative attività strumentali" ovvero a quelle "la cui strategia di investimento non è ancora stata avviata o completata e/o si caratterizza in termini di particolare complessità".

Le SPAC sono state scelte da marchi come Ivs, Iwb, Fila, Lu-Ve, Sesa: i marchi d'eccellenza del Made in Italy hanno preferito questa strada per arrivare alla quotazione in Borsa Italiana. Questa sembra la strada ed il meccanismo migliore per far arrivare i capitali del risparmio nell'economia reale a favore delle PMI italiane.

Nonostante però fino ad oggi nel nostro Paese siano nate più di 30 SPAC, l’attuale situazione finanziaria legata all’emergenza Covid-19 sta confermando un bilancio complessivo di difficoltà.

Anche se alcune società veicolo, nella convinzione che il mercato in difficoltà possa essere paradossalmente un acceleratore per le stesse, stanno provando a rilanciare tali meccanismi di investimento, tuttavia molte altre SPAC stanno, purtroppo, gettando la spugna annunciando lo scioglimento o mettendo in liquidazione le stesse con conseguente restituzione dei fondi vincolati agli investitori.

Una particolare criticità che si sta riproponendo in questi giorni riguarda, infatti, proprio la scadenza di investimento. L’urgenza di rispettare tale termine, infatti, da un lato, potrebbe spingere i promoters a compromettere la qualità della selezione della società target e dei termini di acquisizione e, dall’altro, potrebbe addirittura impedire agli stessi di individuare una società che rispecchi i requisiti di business prefissati. Infatti, a causa dell’emergenza Covid-19 e di tutte le misure adottate e adottande per il suo contenimento, si corre il rischio di vanificare gli sforzi per via del restringimento di fatto dei termini per l’individuazione della società target.

Ad ogni modo, ed in ogni caso, è importante ribadire che i promoters hanno un grosso incentivo al fatto che l’operazione di acquisto abbia successo, sia perché se il fondo venisse liquidato, per la mancata approvazione delle acquisizioni, essi non parteciperebbero al processo e perderebbero parte dei loro investimenti impegnati nella costituzione e gestione del fondo stesso, sia perché, nell’ipotesi in cui si realizzi l’acquisto della società target, una buona parte delle azioni di loro spettanza verrebbe allocata solo se il prezzo delle azioni stesse raggiungesse e mantenesse determinati livelli di prezzo.

Dunque, è importante che gli investors si avvalgano di un management team esperto nella selezione ed acquisizione di società non quotate e capace di fiutare l’affare migliore nel minor tempo possibile.

In conclusione, considerati tutti i vantaggi ed i benefici che derivano da tali veicoli di investimento, capaci di contemperare al meglio gli interessi degli investitori e delle società con alto potenziale di crescita, si auspica che tali veicoli possano essere rilanciati e rivitalizzati quanto prima - attraverso misure ad hoc atte a superare l’impasse emergenziale in atto - soprattutto a sostegno delle PMI italiane.

Smart Working per le PMI: privacy e sicurezza informatica dei dispositivi da remoto.

Smart working

Il rapido diffondersi della pandemia di Sars-CoV-2 ha determinato un profondo e traumatico cambiamento nelle modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato.

Con l’emanazione del Decreto attuativo del 23 febbraio 2020 n.6, relativo a disposizioni urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica, si è resa obbligatoria la sospensione di ogni attività lavorativa per le imprese, ad esclusione di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare ovvero in modalità a distanza”. Il successivo DPCM dell’11 marzo 2020 raccomanda che “in ordine alle attività produttive e alle attività professionali sia attuato il massimo utilizzo di lavoro in modalità agile.”

A seguito dell’emanazione di questi provvedimenti di emergenza, tutte le realtà aziendali italiane si sono trovate nella condizione di dover procedere ad una revisione del loro assetto organizzativo.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nella Legge 81/2017, definisce il lavoro agile (o smart working) come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzata dall’assenza di vincoli orari e spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabiliti mediante un accordo tra dipendente e datore di lavoro “. Questa definizione pone l’accento sulla flessibilità organizzativa e rimuove i vincoli legati al concetto di postazione fissa, consentendo al lavoratore di erogare la prestazione anche da remoto, grazie all’utilizzato di un’apposita strumentazione (come pc portatili, tablet e smartphone). 

Sono proprio gli strumenti tecnologici e digitali i principiali alleati che consentono la continuità aziendale e ai dipendenti di continuare a lavorare senza andare in ufficio.

Per alcune realtà aziendali strutturate lo smart working è un progetto interdisciplinare il cui regime è ampiamente collaudato, mentre, per la maggior parte delle PMI, è una materia complessa, da affrontare in emergenza.

Cerchiamo di fornire alcuni spunti pratici di riflessione.

Strumenti elettronici forniti (pc, tablet, cellulare, etc.) dal datore di lavoro

Il datore di lavoro deve dotare i lavoratori di strumenti idonei e correttamente configurati in modo da garantire un’adeguata sicurezza tecnico-informatica, altrimenti vi possono essere ricadute di responsabilità in capo al datore di lavoro.

L’azienda dovrebbe innanzitutto predisporre un documento (una cosiddetta “carta dello smart worker”) in cui siano indicate le linee guida aziendali, le regole di condotta da rispettare (ad esempio la flessibilità dell’orario di lavoro) e quali strumenti tecnologici sia possibile utilizzare da remoto.

Il datore di lavoro deve quindi essere a conoscenza di quali strumenti e tecnologie impiegare al fine di proteggere il sistema informatico aziendale, i dati raccolti e trattati (precisando che gli stessi costituiscono un asset dell’azienda) e quali misure adottare al fine di minimizzare il rischio di intrusioni illegittime alla rete.

La CNIL, l’autorità privacy francese, indica alcuni suggerimenti pratici per ogni dispositivo fornito in dotazione al lavoratore di:

  • Installare un software antivirus, un firewall (dispositivo che permette di monitorare il traffico in entrata e in uscita) e un altro strumento che limiti l’accesso a siti potenzialmente dannosi

  • Impostare una rete VPN che consenta di crittografare i dati in fase di trasmissione

  • Implementare meccanismi di autenticazione a due fattori sui servizi accessibili da remoto per limitare i rischi di intrusione

  • Utilizzare protocolli che garantiscano la riservatezza e l'autenticazione del server ricevente, ad esempio HTTPS per i siti web e SFTP per il trasferimento dei file, utilizzando le versioni più recenti di questi protocolli

  • Controllare regolarmente i registri di accesso a distanza per individuare comportamenti sospetti ed eventuali accessi non autorizzati

  • Limitare il numero di servizi disponibili da remoto in modo da ridurre il rischio di attacchi ed intrusioni

  • Prevedere una procedura standardizzata in caso di guasto o di perdita del terminale che consenta di cancellare da remoto tutti i dati aziendali archiviati

Strumenti elettronici di proprietà del lavoratore

Gli strumenti non devono essere necessariamente di proprietà del datore di lavoro.

La possibilità di impiegare strumenti tecnologici di proprietà del lavoratore per eseguire la prestazione lavorativa in smartworking (in inglese indicato con l’acronimo BYOD che significa “bring your own device”) è una scelta riservata al datore di lavoro, che può permetterlo a determinate condizioni e vietarlo in altre.

Questa scelta deve però essere il risultato di una ponderata valutazione poiché il datore di lavoro è responsabile della sicurezza dei dati personali e aziendali anche nel caso in cui questi siano trattati e conservati in dispositivi sui quali egli non esercita alcun effettivo controllo ma di cui ha autorizzato l'utilizzo per accedere a risorse informatiche dell'azienda.

Al fine precauzionale è indispensabile procedere alla valutazione dei rischi tenendo in considerazione il contesto specifico (quale apparecchio e quali applicazioni vengono impiegate per avere accesso o trattare quale tipo di dati) e fare una stima in termini di gravità e probabilità, così da implementare le misure di sicurezza necessarie e adeguate al caso concreto.

Se il datore di lavoro decidesse di consentire l’uso di strumenti personali del lavoratore, una buona prassi è quella di richiedere di “compartimentare” il device, in modo da separare le sezioni destinate all’utilizzo in un contesto professionale da quelle invece riservate alla sfera personale e individuale. 

Non è però possibile adottare misure di sicurezza che abbiano lo scopo o l'effetto di limitare le funzionalità del dispositivo di proprietà del lavoratore, ad esempio impedendo il download di applicazioni mobili, l’utilizzo di social networks o di altri sistemi di messaggistica istantanea.

Software di videoconferenza

Uno strumento di fondamentale importanza nell’ambito dello svolgimento di attività lavorativa da remoto è rappresentato dalle applicazioni di videoconferenza, che nelle ultime settimane sono state scaricate da milioni di utenti in tutto il mondo.

Gli strumenti di videoconferenza si basano sulla tecnologia VoIP (Voice over IP) che consente di comunicare tramite il microfono e/o la webcam e richiedono una connessione ad Internet.

Noyb, Centro Europeo per i Diritti Digitali con sede a Vienna, ha svolto una dettagliata analisi relativa alla privacy policy dei servizi di video conferenza forniti dalle principali società che operano nel settore (Zoom, Riunioni Webex (Cisco), Riunioni (LogMeIn), Skype e Team (entrambi Microsoft) e Wire).

Dal report Noyb emerge che le privacy policy relative a tali servizi sono eccessivamente generiche e non trasparenti, e nessuna applicazione di video meeting sembra essere considerata completamente conforme al regolamento europeo in materia di data protection (Regolamento UE 679/2016 o GDPR).

I ruoli privacy non sono correttamente individuati (quello di Titolare del Trattamento e di Responsabile del trattamento) e vi sia assenza di collegamento tra categorie di dati, finalità del trattamento e la base giuridica per ogni finalità. Inoltre, nessuna tra le maggiori aziende fornitrici di servizi di video conferenza è sufficientemente trasparente sul tema della condivisione dei dati con terze parti.

Basti per questo citare l’illecita condivisione di dati personali anche sensibili tra Zoom e Facebook, che Facebook ultizza(va) per svolgere un’attività di profilazione degli utenti (senza il loro consenso) e per creare inserzioni pubblicitarie personalizzate.

Fondamentalmente queste applicazioni di video conferenza sfruttano diversi modelli di business:

1.   Un abbonamento opzionale a un servizio che può fornire funzionalità aggiuntive o il debug di alcune funzionalità di base (come il numero massimo di utenti simultanei su un server)

2.   Pubblicità (che può essere, sul telefono, in-app o off-app)

3.   Apparentemente gratuito. Ma in realtà non è vero perché quando il servizio è gratuito significa che il provider monetizza cedendo a terzi o trattando in altro modo i dati degli utenti.

Le informazioni raccolte non si limitano necessariamente a quanto direttamente fornito dall’utente ma possono estendersi ad altri tipi di dati tecnici che ne consentono l’identificazione (indirizzo IP, identificativo del dispositivo, cookie o tecnologie simili).

Secondo la CNIL è importante:

  • utilizzare soluzioni certificate da enti affidabili e terzi

  • evitare di scaricare l'applicazione da un sito web o da una fonte sconosciuta

  • utilizzare solo applicazioni per le quali il produttore indica chiaramente come i vostri dati vengono riutilizzati (nell'applicazione stessa o sul suo sito web, ad esempio);

  • leggere i commenti degli utenti nei forum di discussione o, dal telefono, nei negozi di applicazioni;

  • verificare che l'editore disponga di misure di sicurezza essenziali, come la crittografia delle comunicazioni end-to-end;

  • proteggere la tua rete Wi-Fi con una password forte abilitando la crittografia WPA2 o WPA3;

  • assicurarsi che l’antivirus ed il firewall siano aggiornati.

Di questi tempi il datore di lavoro si trova necessariamente a dovere effettuare una valutazione dei rischi derivanti dall’utilizzo di tecnologie che consentono la prosecuzione delle attività lavorative e una maggiore probabilità di incorrere in criticità che impattano sulla sicurezza della rete informatica e sui dati trattati.

Tali valutazioni dovranno essere annotate nel registro delle attività di trattamento (art. 30 GDPR), che dovrà essere necessariamente aggiornato, come del resto le informative privacy dei dipendenti in smart working.

Si tratta del documento contenente le principali informazioni relative alle operazioni di trattamento svolte dall’azienda e volto a dimostrarne l’accountability.

I trattamenti di integrazione salariale in applicazione del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. decreto “Cura Italia”).

Nell’ottica sempre più attuale di tutelare e garantire non tanto il posto di lavoro strictu sensu quanto piuttosto la continuità occupazionale (c.d. employment security), il Governo ha varato il Decreto-Legge c.d. “Cura Italia” che contiene una serie di norme volte a contemperare le esigenze di datori di lavoro e lavoratori per mitigare le conseguenze che la grave emergenza sanitaria, ormai di scala mondiale, potrebbe generare.

Quanto alla disciplina degli ammortizzatori sociali, topograficamente collocata tra gli articoli 19 e 22 del D.L., il Legislatore ha individuato con chiarezza le norme speciali in materia di Cassa integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO), Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS), Cassa integrazione Guadagni in Deroga (CIGD) e Fondo di integrazione salariale (FIS). In materia di CIGO, l’articolo 19 estende “a tutte le imprese” la possibilità di accesso al trattamento salariale ordinario. In condizioni ordinarie, l’accesso alla CIGO è consentito solo ai comparti Industria ed Edilizia in caso di eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali o per situazioni temporanee di mercato e consente l’erogazione di un contributo pari all’80% della retribuzione globale; la durata del trattamento muta a seconda del settore interessato: per l’Industria il numero massimo è di 13 settimane continuative eventualmente prorogabili (per un totale di 52 settimane); per quanto riguarda invece il comparto Edilizia il numero massimo è di 13 settimane prorogabili fino ad un massimo di 52 settimane. (cfr Tab. 1, colonna 1) Le ordinarie procedure di accesso alle CIGO, inoltre, sono particolarmente complesse e composte da numerosi adempimenti (informazione, consultazione sindacale, fase amministrativa) che, se non ridotti o eliminati tout-court nel periodo attuale, vanificherebbero l’utilità della misura.

I recentissimi interventi normativi recepiscono l’emergenza sanitaria e consentono ai datori di lavoro che sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’epidemia da Covid-19, la possibilità di accedere al trattamento CIGO per un periodo massimo di 9 settimane e, comunque, entro la fine del mese di agosto 2020 a mezzo di procedure ridotte, snelle, in deroga ai termini procedimentali ex D.Lgs. 148/2015. I benefici contemplati dal Legislatore contemporaneo, inoltre, includono l’esonero dal pagamento del contributo addizionale previsto ex articolo 5 del D.Lgs. 148/2015 e la “neutralizzazione” dei periodi CIGO in costanza di COVID-19 rispetto al tetto massimo di fruizione della CIGO per ragioni ordinarie (in tal modo l’impresa “conserva” il proprio monte ore di cassa previsto ex lege che non risulterà intaccato dall’intervento dell’integrazione salariale fruita in costanza di una emergenza virale quale quella in atto). Come si deduce dagli articoli 19 – 22 del D.L., l’intervento della CIGO è previsto sia per imprese iscritte al Fondo di Integrazione Salariale (FIS) sia per quelle imprese che hanno in corso trattamenti di CIGS o assegni di solidarietà. Quanto alla CIGS, il Legislatore ha concesso alle imprese che abbiano in corso un trattamento di cassa integrazione straordinaria, la possibilità di accedere alla CIGO per il breve periodo di 9 settimane e con le stesse modalità ridotte di cui all’articolo 19 già menzionato. Anche in questo caso, il grande beneficio è che il periodo di 9 settimane eventualmente fruito in costanza di CIGS e durante l’emergenza sanitaria in atto non viene conteggiato ai fini della durata massima complessiva dei trattamenti di integrazione salariale. Ove le imprese decidessero di richiedere un intervento CIGO in costanza di CIGS, la cassa integrazione straordinaria risulterà sospesa e sostituita da nuovo trattamento e riprenderà il suo corso, verosimilmente, dopo le 9 settimane previste ex lege per la CIGO con causale COVID-19. Qualche precisazione anche in merito alla CIGD, su cui il Legislatore ha operato un massiccio intervento: tale ammortizzatore viene utilizzato in periodi di “emergenze” e tutela i datori di lavoro di imprese facenti parte del settore privato incluso il terzo settore, che non potrebbero accedere ai benefici della CIGO e della CIGS.

Anche in questo caso è stata prevista dal D.L. in esame una semplificazione procedurale che consente ai datori di lavoro di trovare un accordo con le organizzazioni sindacali in via telematica: quindi non solo con tempi più brevi del normale ma anche con l’ausilio dei propri legali che possono telematicamente gestire le incombenze, le scadenze, e le relazioni con ausiliari INPS in luogo dei loro clienti. Quanto infine alla competenza di erogazione delle misure suddette vi sono significative differenze: per la CIGO ed il FIS la gestione è INPS, quanto invece alla CIGS la gestione è di concerto tra il Ministero del Lavoro e l’INPS ed infine, per quanto riguarda la CIGD la gestione è ripartita tra Ministero del Lavoro Regioni e Province Autonome. Infine, in merito alle modalità di erogazione delle misure si fa richiamo alla circolare INPS n. 38 del 2020 che, sebbene precedente alla pubblicazione del D.L. Cura Italia, riassume e circoscrive non solo l’ambito di applicazione delle misure ma indica i canali attraverso i quali i datori di lavoro saranno in grado, anche a mezzo dei propri legali, di accedere ai trattamenti di integrazione salariale. Si attende nel breve periodo ulteriore circolare INPS di “adeguamento” al recentissimo Decreto-Legge n. 18/2020.

Le locazioni commerciali durante l’emergenza sanitaria Covid - 19: buona fede, disponibilità negoziale e collaborazione fra le parti.

La gravissima emergenza sanitaria in atto comincia purtroppo ad avere gravi conseguenze sulla stabilità dei rapporti contrattuali e, in particolare in materia di locazioni commerciali, la difficoltà seppur temporanea di regolare pagamento del canone ha dato avvio ad un possibile conflitto tra locatori di immobili ed aziende conduttrici.

Sul fronte di entrambe le parti si comincia infatti ad avvertire l’esigenza di chiarezza sui rispettivi diritti e doveri nel caso, ad esempio, di richieste di modifica dei termini e delle condizioni di pagamento o di sospensione del pagamento dei canoni.

Il tema in realtà, al di là dell’inquadramento giuridico delle eventuali contestazioni che una parte può sollevare nei confronti dell’altra, secondo noi verte principalmente sull’applicazione della buona fede intesa come principio generale che governa i rapporti negoziali e come strumento attraverso il quale ripristinare autonomamente l’equilibrio contrattuale venuto meno attraverso un dialogo costruttivo tra le parti.

Disponibilità negoziale e collaborazione reciproca fra creditore e debitore nell’attuale fase storica possono infatti rivelarsi rimedi molto più incisivi - e certamente costruttivi, oltre che economici - rispetto alla formulazione di contestazioni, diffide, lettere c.d. di messa in mora ovvero rispetto all’avvio di un autonomo giudizio in sede civile. Si pensi ad esempio all’artt. 1256 codice civile che, nel disciplinare l’impossibilità della prestazione, prevede che se l'impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell'adempimento. Oppure, dal lato del locatore, si pensi all’esercizio di una clausola risolutiva espressa che, ove preventivamente concordata, permette allo stesso di risolvere un contratto in caso di mancato tempestivo pagamento del canone da parte del conduttore.

Al di là di oziose disquisizioni attorno all’applicazione o meno di alcuni principi civilistici in subiecta materia (i.e. factum principis/forza maggiore/eccessiva onerosità sopravvenuta etc.) e fermo restando che il Decreto “Cura Italia” ha previsto la facoltà in capo ai conduttori esercenti attività rimaste chiuse di recuperare parzialmente l’importo relativo al canone di marzo mediante il meccanismo del credito d’imposta, in concreto il corollario delle considerazioni sopra svolte consiste nell’opportunità che le parti, invece di litigare eventualmente anche di fronte al giudice con ulteriori oneri e perdite di tempo, concordino congiuntamente una sospensione convenzionale del pagamento del canone per un certo (e congruo) periodo di tempo con l’impegno, ad esempio, a carico del conduttore di rientrare dei canoni scaduti ed insoluti entro l’anno successivo tramite un piano di rientro condiviso. Un’ulteriore opzione potrebbe essere costituita da una riduzione convenzionale del canone per un periodo di tempo determinato - in questo caso coincidente con la durata della paralisi dovuta all’epidemia in atto - che permetta però al conduttore il regolare ed effettivo pagamento dei canoni senza interruzioni.

Le parti, facendosi reciproche concessioni, in un’ottica di buon senso ed in buona fede reciproca, ristabilirebbero amichevolmente e senza ulteriori spese un equilibrato assetto dei rispettivi interessi mantenendo in vigore il contratto. Le soluzioni prospettate - che possono essere molteplici e rimesse alla “capacità creativa” delle parti - si fondano evidentemente sulla disponibilità e concreta capacità delle stesse a collaborare e ad individuare una soluzione in linea alle rispettive e reciproche esigenze.

A prescindere e ferme restando le lungaggini insite in ogni giudizio, lo scenario attuale, con la sospensione dell’attività giurisdizionale recentemente prorogata sino al 15 aprile 2020, non lascia peraltro intravedere la possibilità di ottenere una tutela tempestiva delle proprie ragioni in caso di vertenze che non siano state previamente conciliate tra le parti.

La sospensione dei termini nel processo civile a seguito del d.l. 18/2020

Come è noto, l’art. 83 D.L. 17 marzo 2020 n. 18, rubricato “Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare”, ha integrato e modificato il precedente art. 2 D.L. 8 marzo 2020 n. 11, chiarendo la disciplina applicabile alla sospensione dei termini processuali in materia civile, penale, tributaria e militare operativa dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 (salve specifiche eccezioni ed ulteriori possibili proroghe).

In base alla lettera di tale norma, sono da considerare:

  • rinviate d’ufficio le udienze già fissate fino al 15 aprile 2020 (in linea di continuità con la precedente decorrenza di rinvio dal 9 marzo 2020 disposta dal Comunicato urgente del Ministero della Giustizia del 8 marzo 2020);

  • sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto processuale fino al 15 aprile 2020 (in linea di continuità con la precedente decorrenza di sospensione dal 9 marzo 2020 disposta dal Comunicato urgente del Ministero della Giustizia del 8 marzo 2020).

È inoltre la stessa disposizione a fornire specifici chiarimenti operativi in riferimento ad alcune fattispecie di calcolo dei termini processuali, precisando che: i) ove il momento iniziale di decorrenza di un termine dovesse cadere nel lasso temporale di sospensione, lo stesso slitterà verosimilmente al primo giorno successivo alla sospensione (ovvero, ad oggi, il 16 aprile 2020) e, ii) in merito ai termini da computarsi a ritroso (e.g. il termine per il convenuto per costituirsi in giudizio), ove essi dovessero cadere in tutto o in parte nel periodo di sospensione, l’udienza o l’attività da cui decorre a ritroso il termine in questione verranno ulteriormente differiti per consentirne il rispetto.

Allo stato sembrerebbe quindi che l’istituto della sospensione - utilizzato in modo così “disinvolto” dal Governo - sia assimilabile a tutti gli effetti, anche nei meccanismi di calcolo, alla ordinaria sospensione feriale dei termini che si verifica dal 1 al 31 agosto di ogni anno.

La normativa in commento ha inoltre esplicitato l’applicabilità di tale istituto anche ai termini di natura sostanziale e per il compimento degli atti previsti nei procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie:

-        il comma 8 dell’articolo in esame prevede infatti che, nel periodo di efficacia delle misure emergenziali che precludono la presentazione della domanda giudiziale, è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e di decadenza dei diritti che possono essere esercitati solo mediante il compimento delle attività oggetto di preclusione;

-        il comma 20 sospende invece i termini per lo svolgimento di qualsiasi attività prevista nei procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita, nonché in tutti gli altri procedimenti per la risoluzione alternativa delle controversie che costituiscono condizione di procedibilità dell’azione e pendenti alla data del 9 marzo 2020.

Giova infine precisare che, ai sensi del dell’articolo 83 comma 6 D.L. 18/2020, è stato introdotto un criterio di coordinamento organizzativo relativo al periodo immediatamente successivo al 15 aprile 2020, in cui i singoli Uffici Giudiziari saranno chiamati ad adottare “le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”.

La lettera della legge sembra in definitiva - almeno in questa occasione - non prestare il fianco a creative e molteplici interpretazioni di sorta, ma si dovrà in ogni caso attendere eventuali nuove direttive da parte del Governo - relative al periodo immediatamente successivo al 15 aprile 2020 - al fine di comprendere se l’attuale regime di sospensione processuale e la successiva fase di coordinamento organizzativo verranno ulteriormente prorogati.

Un primo caso di utilizzo di Microsoft Teams per lo svolgimento delle udienze civili - Introduzione delle “udienze telematiche” a seguito del D.L. 18/2020 e dei provvedimenti della D.G.S.I.A.

Il 1 aprile 2020 ho ricevuto a mezzo PEC, quale procuratore di parte, la prima notifica di un provvedimento di fissazione udienza con la previsione dell’utilizzo di Microsoft Teams per la comparizione da remoto.

Riporto la parte dispositiva del provvedimento, emesso dal Tribunale di Parma, Sezione Fallimentare, che testualmente recita: “specifica che l’udienza si svolgerà ai sensi dell’art. 83 comma settimo lett. f) del D.L. n. 18 del 17.03.2020, attraverso l’utilizzo del programma teams e secondo le modalità operative indicate nella circolare del 12.03.2020”.

Si tratta con ogni evidenza di una tempestiva applicazione delle misure assunte di recente per consentire lo svolgimento dell’attività giurisdizionale con le dovute cautele socio- sanitarie.

E’ ormai noto che il Legislatore è intervenuto per disciplinare lo svolgimento delle udienze civili introducendo la possibilità che le stesse si tengano in via telematica, quanto meno, nell’attuale momento di emergenza sanitaria.

In particolare con il D.L. 18/2020 all’art. 83 co. 7 è stato, fra l’altro, previsto che “Per assicurare le finalità di cui al comma 6, i capi degli uffici giudiziari possono adottare le seguenti misure: f) la previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Lo svolgimento dell'udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione delle parti. Prima dell'udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti e al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. All'udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell'identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale;

La norma è di semplice lettura ma, come spesso si verifica nella più recente produzione normativa, demanda ad una fonte di rango inferiore l’adozione degli interventi esecutivi, con il rischio di una frammentazione regolamentare foriera di dubbi interpretativi e applicativi.

Infatti, l’Autorità nominata, il D.G.S.I.A (Direzione gestione sistemi informatizzati automatizzati del Ministero di Giustizia) si è affrettata a fornire le prime linee guida operative già in data 9 marzo 2020 offrendo un “vademecum” operativo, destinato perlopiù ai Magistrati che dovranno attivare le “stanze virtuali” e, successivamente, ha fornito ulteriori chiarimenti e prescrizioni con provvedimento del 20 marzo 2020.

Quest’ultimo provvedimento organizzativo prevede nello specifico che “nell’ipotesi prevista dall’art. 83, comma settimo, lett. f), del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, le udienze civili possono svolgersi mediante collegamenti da remoto organizzati dal giudice utilizzando i seguenti programmi attualmente a disposizione dell’Amministrazione e di cui alle note già trasmesse agli Uffici Giudiziari (prot. DGSIA nn. 7359.U del 27 febbraio 2020 e 8661.U del 9 marzo 2020):

Skype for Business;

Teams.

I collegamenti effettuati con i due programmi su dispositivi dell’ufficio o personali utilizzano infrastrutture di quest’amministrazione o aree di data center riservate in via esclusiva al Ministero della Giustizia.”

Un primo punto fermo della nuova procedura viene dunque fissato e consiste nell’adozione degli applicativi autorizzati per l’espletamento del rito da remoto. Skype for Business e Microsoft Teams sono infatti gli unici due software previsti e autorizzati dal Ministero di Giustizia. Nel silenzio dei provvedimenti, si ritiene che la scelta fra quale dei due tools utilizzare sia rimessa al singolo Magistrato. L’altro “pilastro” della nuova procedura è la cosiddetta “stanza virtuale” che dovrà essere creata e organizzata dal Magistrato al quale pure è demandato il delicato incombente tecnico – informativo di comunicare alle parti l’invito all’udienza.

Vista la terminologia piuttosto generica adottata dal D.G.S.I.A. nel vademecum del 9 marzo 2020, laddove si parla di invito è chiaro che, di fatto, si intenda comunicazione se non anche notificazione, posto che le norme processuali sul punto andranno, a mio avviso, scrupolosamente osservate.

Attendiamo, a questo punto l’auspicabile emanazione di ulteriori chiarimenti da parte delle Autorità preposte e segnaliamo la disponibilità dei primi corsi formativi on line (ad es. su Consolle Avvocato). Con l’avvertenza di prestare la massima attenzione all’emissione di specifiche circolari da parte degli Uffici circondariali o distrettuali.

Da ultimo, segnalo che l’art. 83 del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18, al co. 7 lett h) prevede “lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice.”

Benchè, allo stato, non si abbia ancora diretta notizia della ricorrenza di questa casistica, che prevede di fatto la soppressione di talune udienze, è evidente che una simile eventualità si presta a più di un dubbio di legittimità e lascia intravedere preoccupanti scenari di limitazione del contraddittorio e compressione dei diritti di difesa.

Privacy e rapporti di lavoro durante l’emergenza Coronavirus: i controlli del datore di lavoro.

Il Garante Privacy ha recentemente emesso una nota informativa riguardo alla possibilità di raccogliere, da parte dell’azienda, all’atto della registrazione di visitatori e utenti, informazioni circa la presenza di sintomi da Coronavirus e notizie sugli ultimi spostamenti, come misura di prevenzione dal contagio.

Il Garante precisa che i datori di lavoro devono astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa.

L’accertamento e la raccolta di informazioni relative ai sintomi tipici del Coronavirus e alle informazioni sui recenti spostamenti di ogni individuo spettano agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile, che sono gli organi deputati a garantire il rispetto delle regole di sanità pubblica recentemente adottate.

Resta fermo l’obbligo del lavoratore di segnalare al datore di lavoro qualsiasi situazione di pericolo per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Nel caso in cui, nel corso dell’attività lavorativa, il dipendente venga in relazione con un caso sospetto di Coronavirus, lo stesso, anche tramite il datore di lavoro, dovrà comunicare la circostanza ai servizi sanitari competenti e ad attenersi alle indicazioni di prevenzione fornite dagli operatori sanitari interpellati.

Le autorità competenti hanno, inoltre, già previsto le misure di prevenzione generale alle quali ciascun titolare dovrà attenersi per assicurare l’accesso dei visitatori a tutti i locali aperti al pubblico nel rispetto delle disposizioni d’urgenza adottate.

Interessante la prospettiva dell’autorità privacy francese la CNIL che, sulla stessa materia, ha recentemente previsto il divieto di: • letture obbligatorie della temperatura corporea di ogni dipendente/agente/visitatore da inviare quotidianamente ai suoi superiori; • la raccolta di cartelle cliniche o questionari da tutti i dipendenti/agenti.

In questo contesto, il datore di lavoro può: • sensibilizzare e invitare i propri dipendenti a fornire un feedback individuale delle informazioni che li riguardano in relazione alla possibile esposizione, al datore di lavoro o alle autorità sanitarie competenti; • facilitare la loro trasmissione impostando, se necessario, canali dedicati; • promuovere metodi di lavoro a distanza.

In caso di segnalazione, il datore di lavoro può registrare: • la data e l'identità della persona sospettata di essere stata esposta; • le misure organizzative adottate (contenimento, telelavoro, orientamento e contatto con il medico del lavoro, ecc.) • il datore di lavoro può quindi comunicare alle autorità sanitarie, su richiesta, le informazioni relative alla natura dell'esposizione necessarie per qualsiasi assistenza sanitaria o medica della persona esposta.

E-commerce. Il vostro sito rispetta la normativa sulle vendite online?

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L’aumento esponenziale dello shopping online, in un mondo segnato dalla pandemia causata dal Covid-19 dovrebbe convincere molti operatori a valutare la conformità legale dei propri siti di e-commerce. Ciò anche alla luce del fatto che l’Agicom, il Garante della Privacy e le autorità giudiziarie sono certamente più attive nei momenti di grande espansione di Internet ed è più facile che arrivino controlli da parte delle autorità su segnalazioni di clienti o concorrenti che possono comportare l’applicazione di sanzioni spesso elevate.

Da parte nostra abbiamo individuato cinque macro aree in cui potrebbe essere utile pensare ad un “check up legale” per evitare sanzioni da parte delle autorità competenti.

1.   Condizioni generali di contratto

Nel caso in cui il titolare di un online shop intenda introdurre particolari clausole nei rapporti con i consumatori queste devono sempre essere specificate nelle condizioni generali di contatto. Le condizioni generali di contratto devono riportare i termini e le condizioni generali di vendita, così come tutte le informazioni concernenti il diritto di recesso, le modalità di restituzione della merce, tempi di consegna ed i costi della merce e della spedizione, nel pieno rispetto delle diposizioni previste dal codice del consumo.

2.   Privacy e Cookie Policy

La Privacy Policy è un documento che informa gli utenti di un sito circa il trattamento dei loro dati personali, essa è obbligatoria per legge anche in caso di tracciamento delle visite per mezzo di strumenti di web analytics.

Purtroppo, molte società dedicano ancora poca attenzione agli obblighi in materia di trattamento dei dati personali, ma se non si vuole incorrere in sanzioni pecuniarie significative da parte del Garante della privacy è importante che il vostro sito aziendale sia a norma di legge.

I decreti legislativi n. 69/2012 e 70/2012 hanno sancito l’obbligo di inserire un banner all’apertura del sito web, con il quale si richiede all’utente il consenso al trattamento dei dati, al fine di poter proseguire con la navigazione. Il consenso sarà necessario anche quando si intenda condividere i dati del proprio cliente con soggetti terzi.

Inoltre, se il sito utilizza alcune tipologie di cookie per la profilazione dell’utente, è obbligatorio inserire uno specifico banner informativo sulla natura dei cookie utilizzati.

3.   Indicazione dei dati societari

Il titolare di un e-commerce deve sempre inoltre indicare alcuni dati come: nome, sede legale, indirizzo di posta elettronica, numero di iscrizione al REA o al registro delle imprese. Per le società di capitali si deve sempre indicare il capitale sociale versato (o indicare lo stato di liquidazione).

4.   Partiva IVA e comunicazioni registro imprese

Salvo il caso di attività puramente occasionale e di guadagni inferiori ai 5.000 euro, l’apertura di un negozio online comporta l’apertura di una partita iva e l’iscrizione nel Registro delle Imprese, presso la Camera di Commercio.

5.   Diritto d’autore e privative industriali

Un sito internet (vetrine, blog, e-commerce, portali etc.) si compone di molteplici elementi che possono essere protetti sotto il profilo della proprietà industriale:

·         il nome di dominio;

·         il logo;

·         la configurazione grafica;

·         la concezione strutturale e organizzata che emerge navigando tra le vostre pagine: paragonabile alla "scenografia" del sito;

·         i testi e le immagini delle pagine.

È importate verificare che il vostro sito rispetti la normativa in materia di diritto d’autore e non violi le privative industriali di terzi.

SOS Italia. Privacy & Big Data ai tempi del Covid 19

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Il drammatico evolversi della crisi sanitaria legata al Covid-19 sul territorio italiano ha richiesto al Governo di porre in essere misure eccezionali per far fronte a questa emergenza, incluso il ricorso a nuovi strumenti tecnologici mai precedentemente impiegati dalle istituzioni nazionali.

Il 20 marzo 2020, il Ministero per l’Innovazione Tecnologica, congiuntamente al Ministero dello Sviluppo Economico e al Ministero dell’Università e della Ricerca, ha rivolto un invito a tutti gli operatori dell’ecosistema digitale italiano, affinché contribuissero a semplificare la gestione della pandemia da parte del Governo mediante lo sviluppo di piattaforme digitali e di altri sistemi per l’elaborazione di dati.

E’ così nata l’app mobile “SOS Italia”, progetto realizzato dall’Associazione Italiana Digital Revolution, in collaborazione con la software house Sielte, che si presume sarà a breve disponibile sui digital store dei sistemi operativi iOs e Android.

SOS Italia” si pone l’obiettivo di monitorare e contenere la diffusione del Covid-19 attraverso un’interfaccia user-friendly (log in tramite Google, Facebook, sms con OTP su numero di telefono e integrazione nativa con SPID) che consentirà ai cittadini di reperire facilmente le comunicazioni ufficiali rese dal Governo, le regole di condotta da adottare, i numeri da chiamare in caso di emergenza ed altre informazioni utili.

Il cittadino potrà compilare un questionario con finalità di autodiagnosi e comunicare alle autorità il proprio stato di isolamento obbligatorio o preventivo, la presenza di sintomi e la positività al virus.

Ogni utente potrà anche scegliere di digitalizzare le proprie autocertificazioni per gli spostamenti consentiti e ricevere notifiche nel caso in cui vi sia il rischio che sia incorso in un contagio. Ciò sarà possibile perché, una volta che il soggetto avrà volontariamente scaricato l’app, la funzionalità GPS rimarrà attiva anche se l’utente non sta utilizzando l’applicazione. In questo modo si potrà creare una mappatura di tutti i luoghi frequentati dal singolo individuo e costruire un registro delle persone con cui il soggetto è venuto a contatto.

Analogamente a quanto già sperimentato in Corea del Sud, anche in Italia si tenta, pertanto, una risposta tecnologica, basata sull’utilizzo di Big Data e algoritmi, per porre un freno alla curva dei contagi. Ma, se da una parte le funzionalità tecniche dell’applicazione forniscono strumenti di indiscussa rilevanza per il monitoraggio e il contenimento della pandemia, d’altra parte preoccupano le inevitabili implicazioni in materia di data protection.

Durante una crisi sanitaria su scala nazionale e globale, la protezione del primario diritto alla salute si pone potenzialmente in contrasto con una serie di altri valori meritevoli di tutela. La gestione dell’attuale emergenza comporta inevitabilmente la restrizione, da parte delle autorità, di diritti fondamentali, tra cui, la libertà personale e la tutela dei dati personali (privacy).

Esaminiamo gli aspetti privacy. Il GDPR prevede la liceità del trattamento dei dati, pure relativi a categorie particolari, anche senza l’espresso consenso dell’interessato, quando il trattamento è necessario per salvaguardare i suoi interessi vitali (o quelli di altra persona fisica), ovvero quando sia indispensabile per l’espletamento di un compito di interesse pubblico. Sulla base di questa previsione, quindi, il trattamento dei dati della persona fisica, compresi quelli relativi alla sua salute, può avvenire indipendentemente dal rilascio del consenso quando la finalità del suddetto trattamento sia quella di limitare la diffusione del Covid-19.

Per quanto riguarda il trattamento dei dati delle telecomunicazioni, come i dati relativi all'ubicazione, devono essere rispettate anche le leggi nazionali di attuazione della direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche (c.d. direttiva e-privacy). La direttiva e-privacy consente agli Stati membri di introdurre misure legislative per salvaguardare la sicurezza pubblica.

Il d.l. 14/2020, contenente disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale in relazione all’emergenza Covid-19,  prevede la possibilità che i soggetti operanti nel Servizio Nazionale di Protezione Civile, gli uffici del Ministero della Sanità e dell’Istituto Superiore di Sanità e tutti gli altri soggetti deputati a monitorare e a garantire l'esecuzione delle misure di contenimento della pandemia,  possano condividere e scambiare  tra loro dati personali dei cittadini (inclusi quelli relativi allo stato di salute) che risultino necessari all’espletamento delle loro funzioni. Tali soggetti possono anche omettere di fornire l’informativa privacy (come anche le istruzioni agli incaricati del trattamento) o fornirla solo oralmente.

Tale decreto, esplicita anche che i trattamenti di dati personali debbano essere comunque effettuati conformemente ai principi di liceità, trasparenza e correttezza previsti dall’articolo 5 del GDPR, riducendo al minimo il loro trattamento (principio di minimizzazione).

Ad oggi, però, non risulta essere chiaro come tali principi verranno puntualmente attuati e chi, tra le diverse autorità in gioco, sarà di fatto individuato quale soggetto titolare del trattamento dei dati e quali enti, pubblici e privati, saranno i responsabili del suddetto trattamento.

Uno dei temi che desta maggiore preoccupazione è quello che riguarda il trattamento dei dati relativi all’ubicazione dei cittadini e su come questi possano essere utilizzati dalle autorità.

In varie interviste, il Garante Privacy, nella persona del suo presidente, ha ribadito che il diritto alla privacy può soggiacere a talune limitazioni di fronte ad un interesse collettivo, purché venga assicurato il necessario bilanciamento tra tutela dei diritti individuali e salvaguardia dei beni giuridici collettivi, anche prevedendo che ogni eventuale legge in deroga abbia una durata definita e coincidente con il periodo di emergenza.

Una questione inevitabilmente connessa riguarda, inoltre, il tempo di conservazione dei dati, che dovrà essere anch’esso limitato al suddetto periodo di emergenza e dovrà essere chiarito prima quali saranno le operazioni di trattamento consentite al termine del periodo emergenziale e che sorte avranno i dati raccolti.

Il Garante Privacy ha chiarito che “la protezione dati può persino essere uno strumento utilissimo nell'azione di contrasto dell'epidemia, quando quest'azione sia fondata su dati e algoritmi, dei quali va garantita esattezza, qualità e revisione "umana", ove necessario, come nel caso di decisioni automatizzate errate perché fondate su bias.”. 

A questo proposito, continua il Garante Privacy, un decreto-legge potrebbe coniugare tempestività della misura e partecipazione parlamentare. Va da sé che la durata deve essere strettamente collegata al perdurare dell'emergenza.

Nella dichiarazione congiunta del Presidente della Convenzione 108 ed del Commissario per la protezione dei dati del Consiglio d’Europa vi è un interessante indicazione sull’uso di test preliminari in "sandbox", e cioè il consiglio di testare l’app in un ambiente sicuro e privato prima di rilasciarla al pubblico.

Il Garante Privacy potrà essere, se del caso, coinvolto in sede di consultazione preventiva, ma in ogni caso le logiche del trattamento e le misure di sicurezza, dovranno essere verificati da consulenti esperti in grado di elaborare corrette architetture privacy ed impostare operazioni di trattamento - by design e by default - rispettose dei nostri diritti fondamentali.

In conclusione, la privacy non è di ostacolo al trattamento massivo di dati, anche sensibili, ma tali operazioni, che incidono su nostri diritti fondamentali, debbono essere efficaci, graduali ed adeguate.

L’Antitrust detta le linee guida nei rapporti tra clienti, agenzie e microinfluencer.

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Il 15 marzo si è concluso un procedimento avviato dall’Antitrust che ha coinvolto per la prima volta 9 micro influencer che si sono occupati del lancio della crema da spalmare “Pan di Stelle”.

Da tempo oramai l’autorità antitrust si sta occupando, come del resto di sua competenza, di diverse segnalazioni per pubblicità occulta diffusa con i nuovi media, come nel recente caso Alitalia / Alberta Ferretti.

Anche in questo caso l’Antitrust non ha irrogato alcuna sanzione nei confronti dei soggetti coinvolti, accettando gli impegni che Barilla e i micro-influencer si sono resi disponibili ad assumersi.

L’Antitrust ha valutato positivamente gli impegni assunti dalle parti coinvolte nel procedimento che iniziano a delinearsi come delle vere e proprie linee guida, tanto per le società lanciano la campagna di influencer marketing quanto per gli influencer che promuovono i prodotti/servizi oggetto della campagna e per le agenzie che mediano il rapporto tra cliente ed influencer.

Le linee guida che emergono dalla decisione dell’Autorità Antitrust possono riassumersi come segue:

Quanto alle aziende:

1.       dovrebbero utilizzare nei rapporti con influencer uno standard contrattuale che contenga delle clausole sanzionatorie (quali riduzione di corrispettivi e/o penali e/o sospensione di pagamenti) nei confronti degli influencer;

2.       dovrebbero inserire nel contratto tra cliente ed agenzie delle clausole volte a responsabilizzare le agenzie stesse. Queste dovranno vigilare attentamente sull’operato degli influencer attivandosi tempestivamente, anche su segnalazione del cliente, per garantire l’osservanza delle Linee Guida.

Quanto ai micro-influencer costoro dovrebbero:

1.       inserire, nei post contenenti l’immagine o la menzione di prodotti ricevuti dai brand nei cui confronti non hanno assunto obblighi di svolgere attività di promozione, hashtag quali #suppliedbybrand o #brandgift o #fornitodabrand, o altra dicitura simile;

2.       inserire, nei post pubblicati nell’ambito di un rapporto di collaborazione con il brand, gli hashtag #pubblicitàbrand o #sponsorizzatodabrand o #advertisingbrand o #inserzioneapagamentobrand;

3.       non ripubblicare i contenuti autorizzati e selezionati dai brand committenti, a meno che il contratto non lo preveda espressamente con i relativi vincoli.

Questa decisione che traccia delle linee guida che danno maggiore certezza nei rapporti contrattuali tra imprese ed influencer.

Coronavirus (Covid-19) e ripercussioni sull'attività lavorativa.

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Nella tristemente nota situazione di emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Coronavirus, lo Stato ha adottato una serie di misure urgenti restrittive al fine di contenere la diffusione epidemiologica da Covid-2019.

In particolare il D. L. 23 febbraio 2020, n. 6, ha disposto che, per “evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni  o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione … le   autorità competenti sono tenute ad adottare  ogni  misura  di  contenimento” e “tra le misure possono essere adottate” tra le altre, la “chiusura di tutte le attività commerciali”, la “chiusura o limitazione  dell’attività  degli  uffici  pubblici”, “sospensione  delle  attività  lavorative  per  le  imprese”: in una parola, la sospensione di ogni potenziale attività lavorativa (salvo si tratti di servizi pubblici essenziali o di prima necessità) sia nelle zone rosse in cui sono stati identificati dei “focolai” sia nelle zone “gialle”, ovvero, le zone a rischio di diffusione (Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria, Trentino-Alto Adige, Friuli ed Emilia Romagna).

Tale paralisi ha fatto sorgere la necessità di ricorrere anche a forme di svolgimento di prestazioni lavorative “delocalizzate” per ridurre l’impatto dalla sospensione delle attività tanto che, con successivo DPCM del 25/2/2020, il Governo ha sancito che “la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n.  81, è applicabile in via provvisoria, fino al 15 marzo 2020, per i datori di lavoro aventi sede legale o operativa nelle Regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria, e per i lavoratori ivi residenti o domiciliati che svolgano attività lavorativa fuori da tali territori, a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti”.

Al di fuori delle prescrizioni governative, le ulteriori misure a cui ricorrere per il contenimento delle conseguenze negative derivanti dalla sospensione delle attività lavorative potrebbero consistere nel ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni o ai Fondi di Integrazione Salariale sempre che ne ricorrano i presupposti.

Altra misura a cui ricorrere potrebbe consistere nel collocare i dipendenti in ferie o nel fare smaltire ore di permessi sempre che, ovviamente, tali misure venga concordata e non imposta ai dipendenti.

Senza pretesa di esaustività, i suggerimenti sopra evidenziati costituiscono meri spunti di riflessione in attesa dell’auspicato rientro della situazione di emergenza sanitaria.



Human Feelings as Drugs. La Corte d'appello di Milano ribalta la decisione resa in primo grado.

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Recentemente la Corte di Appello ha ribaltato un giudizio reso nel settembre del 2018 dal Tribunale di Milano di cui c’eravamo occupati in questo blog - https://clovers.law/it/blog/2019/1/31/la-tutela-delle-fotografie-tra-opere-artistiche-e-semplici .

La vicenda traeva spunto dalla presunta violazione del diritto d’autore di una fotografia denominata “Human Feelings as Drugs”, consistente nella realizzazione di fotografie, stampe e poster riproducenti fialette di medicinali di svariati colori, recanti la scritta “empathy”, “hope”, “love”, “peace” e “joy” con riportate le frasi espressive del relativo sentimento o dell’emozione.

Nel progetto, l’artista Valerio Loi intendeva realizzare l’idea di assumere “sentimenti come medicine”, in modo da “permettere al paziente un istantaneo risveglio della percezione e un reintegro all’interno del flusso vitale delle emozioni”.

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 L’attore lamentava l’illecita riproduzione da parte della società convenuta, Queriot  de la Bougainville S.r.l.,  di una serie di ciondoli -abbinati a collane e braccialetti – che avrebbero riprodotto le proprie fialette, con identiche denominazioni dei sentimenti, accompagnate dalle stesse frasi illustrative. Ha dunque invocato l’inibitoria, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza.

 Il Tribunale di primo grado aveva ribadito che in materia di opere fotografiche, il carattere artistico presuppone l’esistenza di un atto creativo in quanto espressione di un’attività intellettuale preminente rispetto alla mera tecnica materiale. La modalità di riproduzione del fotografo deve trasmettere cioè un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla rappresentazione oggettiva cristallizzata, rendendo cioè una soggettiva interpretazione idonea a distinguere un’opera tra altre analoghe aventi il medesimo oggetto. Il requisito della creatività dell’opera fotografica sussiste ogniqualvolta l’autore non si sia limitato ad una riproduzione della realtà, ma abbia inserito nello scatto la propria fantasia, il proprio gusto, la propria sensibilità, così da trasmettere le proprie emozioni.

 In materia di opere fotografiche, la natura artistica della riproduzione non può desumersi dalla notorietà del soggetto o dell’oggetto che è ritratto, giacché il valore dell’opera artistica si apprezza in virtù di canoni di natura formale – che esprimano in modo assolutamente caratteristico ed individualizzante la personalità dell’autore – dovendo invece il relativo giudizio prescindere dall’oggetto o dal soggetto in sé riprodotto.

 Nel caso in esame il Tribunale aveva escluso la natura artistica delle immagini litigiose essendo impossibile ravvisarne proprio quegli aspetti di originalità e creatività che risultano indispensabili per riconoscere la piena protezione ex art. 2 l. aut. A dire del Tribunale l’attore non ha indicato precise inquadrature ovvero un'attenta selezione delle luci o ancora particolari dosaggi di toni chiari e scuri che il Collegio possa apprezzare. Non sembrano neppure qui rivenirsi quei peculiari indici che identifichino quell’impronta personale e peculiare del fotografo ovvero quella capacità di intervenire sul soggetto in modo tale da evocare suggestioni, che appunto, valgono a distinguere un’opera fotografica da una fotografia semplice.

Sulla scorta di tale decisione, Valerio Loi, al fine di vedersi dichiarare l’artisticità della sua opera ed ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subiti per l’abusivo sfruttamento della stessa  ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado ottenendo la totale riforma della stessa.

In merito alla sussistenza del diritto d’autore per opera fotografica in capo a Valerio Loi, i giudici della Corte d’Appello di Milano, contrariamente a quanto stabilito dal Collegio in primo grado, hanno ritenuto che: “la presenza del carattere creativo o meno nell’opera fotografica debba essere verificata, valutando unitariamente il soggetto, riprodotto nella fotografia, e le modalità fotografiche, con cui il soggetto è stato fotograficamente reso, posto che la suggestione emozionale dell’opera fotografica deriva proprio dalla stretta connessione esistente tra il soggetto fotografato, ovviamente tridimensionale, e le particolari modalità con cui lo stesso viene reso nell’immagine fotografica bidimensionale. Peraltro la creatività, idonea a conferire all’opera fotografica valore artistico, da un lato, non coincide con il concetto di creazione, originalità e novità assoluta, ma si riferisce alla personale ed individuale espressione di un'oggettività, appartenente alle categorie elencate nell’art.1 L. 633/1941, di guisa che è sufficiente la sussistenza di un atto creativo, anche minimo, dall’altro lato, non è costituita dall'idea in sè, ma dalla forma della sua espressione, cioè dal modo con cui l’idea si concretizza nel mondo esteriore [...]” e che dunque “Non vi è alcun dubbio che l’opera fotografica in questione presenti un rilevante tasso di creatività […]”.

In conclusione, dunque, la Corte ha deciso che l’opera di Valerio Loi “Human Feelings as Drugs” debba ritenersi tutelata dalla normativa sul diritto d’autore, in quanto opera dell’ingegno con carattere creativo nel particolare settore della fotografia

Come la blockchain potrà aiutare i titolari dei marchi non registrati.

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Come molti sapranno, la blockchain permette di registrare le transazioni tra le persone che le effettuano, e la tecnologia sottostante verifica che tutti gli utenti tengano dei registri corrispondenti alle transazioni effettuate.

La tecnologia blockchain può quindi garantire e documentare la prova del primo e continuo utilizzo e ciò sta aprendo molteplici forme di applicazione soprattutto nel campo della protezione dei diritti di privativa industriale.

La blockchain in quanto strumento che certifica la titolarità di un diritto di privativa industriale, potrà in futuro essere uno strumento utile per gli uffici nazionali che si occupano del processo di registrazione.

In generale, nel settore dei marchi, la tecnologia blockchain sembra avere almeno due forme di utilizzo immediatamente applicabili:

  • la creazione di registrazioni basate su blockchain come sistema di registrazione più sicuro e affidabile per dimostrare l'uso del marchio; e

  • la possibilità di dimostrare la provenienza e la legittimità dei beni in un’ottica di lotta alla contraffazione.

Tuttavia, il marchio registrato può comportare costi elevati se la domanda viene presentata in diverse giurisdizioni. Pertanto, per motivi squisitamente di budget, molte imprese preferiscono non depositare il tutti i segni distintivo avendo nel proprio portafoglio uno o più marchi non registrati.  

Come è noto, il codice della proprietà industriale riconosce i diritti sui marchi non registrati, cioè quei marchi utilizzati per distinguere prodotti e servizi, ma appunto mai registrati.

Orbene la tecnologia blockchain offre la possibilità di creare dei “timestamp” immutabili che in relazione a tutti i segni distintivi, possono fornire la prova certificata del primo uso e dell'uso continuato.

Tutto ciò potrebbe a breve portare alla creazione di un database di marchi non registrati che si potrà affiancare ai registri nazionali gestiti dai vari uffici con dei costi e dei tempi di gran lunga inferioriai marchi registrati.

Nike ottiene il primo brevetto per abbinare la Blockchain alle proprie scarpe

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Nike ha ottenuto di recente un brevetto per la creazione di versioni digitali delle sue scarpe da parte dell'USPTO.

Nike riferisce che i suoi clienti potranno ora registrare l'acquisto delle loro scarpe con un numero di identificazione unico. Una versione digitale equivalente della scarpa sarà creata attraverso un portafoglio di valuta criptata collegato con l'ID univoco dell'utente. e la Blockchain aiuterà gli utenti a verificare l'autenticità delle scarpe che i clienti stanno acquistando.

La versione digitale delle scarpe conterrà un gettone crittografico basato sulla piattaforma Ethereum. Inoltre, avrà anche informazioni sulle caratteristiche fisiche del prodotto, tra cui il colore, il materiale utilizzato, i dettagli di produzione e il loro fattore di "ecosostenibilità".

La registrazione del prodotto su blockchain permetterebbe agli utenti di "vendere o scambiare in modo sicuro" la forma tangibile delle scarpe. Si noti che i "diritti" sulle scarpe da ginnastica possono essere conservati in un portafoglio digitale insieme alla criptovaluta. Inoltre, con l'aiuto dei media digitali, Nike sarà in grado di controllare i volumi di vendita di CryptoKicks. L'azienda non ha ancora annunciato la data di lancio.

Supreme citata in giudizio per violazione di copyright.

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Pochi giorni fa ASAT Outdoors LLC, azienda di abbigliamento e moda con sede a Stevensville in Montana, ha citato in giudizio, difronte al tribunale federale di New York, la Supreme Chapter 4 Corp.  con l’accusa di aver violato il copyright della propria stampa mimetica. A tal riguardo, infatti, ASAT ha rimproverato Supreme di aver “riprodotto ed esposto al pubblico senza alcuna autorizzazione” il proprio disegno mimetico, protetto da copyright, utilizzandolo come stampa su una serie di giacche, maglioni, pantaloni cargo e cappellini messi in vendita su siti internet e presso negozi.

La società di abbigliamento con sede nel Montana, infatti, ha sostenuto di non aver mai concesso in licenza il disegno a Supreme né tantomeno di averle dato il permesso o consenso di usare o vendere il “camo” sui propri capi di abbigliamento, quali, ad esempio, giacche “da lavoro” da 218 dollari e pantaloni cargo da 145 dollari.

ASAT, inoltre, ha accusato Supreme di aver intenzionalmente e deliberatamente “violato il suo diritto esclusivo, come titolare del copyright, di riprodurre, copiare, mostrare e fare opere derivate - cioè, opere basate su o derivate da un'opera esistente protetta da copyright - della stampa mimetica protetta” in totale violazione delle leggi federali sul copyright.

A tal proposito, infatti, ASAT ha chiesto all’organo giudicante di condannare Supreme al risarcimento di tutti i danni, inclusi ma non limitati a qualsiasi profitto che Supreme stessa ha ottenuto dall'illecito uso della grafica camo o, in alternativa, a seconda di quale sia l’importo maggiore, “al risarcimento dei danni legali fino a $150.000 per ogni opera violata nel caso di violazione intenzionale del design”.

Dall’analisi del summenzionato caso, ciò che appare particolarmente interessante è che ASAT, nel tutelare il proprio diritto di proprietà intellettuale, abbia agito per rivendicare la propria titolarità sul design e non sul marchio.

Tale strategia appare curiosa in quanto la società del Montana avrebbe avuto tutti i poteri per dimostrare che i consumatori collegano la sua specifica stampa mimetica - una stampa che appare come se potesse essere in qualche modo distintiva rispetto ad altri tipi di mimetismo presenti sul mercato - con la ASAT Outdoors LLC.

Si aggiunga, inoltre, che quello tra ASAT e Supreme non è stato il primo caso che portato all’attenzione il settore delle stampe mimetiche.

Nel marzo 2018, infatti, la Jordan Outdoor Enterprises ("JOE") ha citato in giudizio difronte al tribunale federale della Georgia la Kanye West's Yeezy LLC con l’accusa di aver utilizzato, su una pluralità di capi ed accessori della Yeezy Season 5, alcune delle sue stampe mimetiche protette da copyright. Ad ogni modo, in questo caso la controversia è stata risolta nel settembre 2018 dopo che Yeezy e JOE sono giunti ad "un accordo separato per risolvere i reclami e le relative spese legali".