Corte di Giustizia UE e Pirate Bay. Nuove responsabilità per le piattaforme di condivisione in Internet.

Con la recente sentenza C-527/15 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sancisce la violazione del copyright dei gestori di “The Private Bay”, portale per la condivisione di file in rete. I diritti d’autore sarebbero infranti anche se a caricare i file sono persone terze, gli utenti, poiché “gli amministratori di Pirate Bay non possono ignorare il fatto che tale piattaforma dà accesso ad opere pubblicate senza l'autorizzazione dei titolari di diritti”. 
Le argomentazioni utilizzate dai giudici della Corte per condannare Pirate Bay sono rivoluzionarie rispetto alle logiche che finora hanno consentito lo sviluppo del business di questi operatori.
 
In particolare, la Corte di Giustizia ha stabilito per prima cosa che i gestori delle piattaforme di condivisione pongono in essere, attraverso la loro attività, una forma di comunicazione al pubblico che, ai sensi dell’articolo 3 della Direttiva 2001/29/CE, deve essere autorizzata dal titolare dell’opera oggetto della comunicazione. Infatti, gli amministratori, pubblicando i contenuti caricati dagli utenti, svolgono “un ruolo imprescindibile” nella loro messa a disposizione, ad esempio indicizzando e gestendo i vari file e suddividendo in categorie le opere disponibili ed eliminando i file vecchi ed obsoleti. Infine, ha sottolineato la Corte UE nelle sue osservazioni, i siti di condivisione rispondono anche perché dalla pubblicazione di questi file si generano introiti pubblicitari considerevoli.
È evidente che questa sentenza chiama in causa tutti i gestori di piattaforme di condivisione online e fa sorgere in capo a questi una maggiore responsabilità in caso di contenuti illegali caricati dagli utenti. 

Secondo alcuni esperti, però, la sentenza avrà ripercussioni non tanto nel mondo della pirateria, quanto nel settore della condivisione di video legale e in quello dei social network. Infatti, l’aver affermato che la messa a disposizione di opere in una piattaforma di condivisione costituisce una  comunicazione al pubblico ha più effetti nei confronti delle piattaforme di condivisione gratuita, come ad esempio Youtube, che fanno parte dei cosiddetti User Generated Content (UGC) e che il più delle volte utilizzano lo strumento dello streaming, piuttosto che nei confronti della pirateria vera e propria. Il rischio è dunque quello di procedere ad una troppo semplice assimilazione dei siti UGC alla categoria degli antiquati siti di downloading di torrent come, appunto, Pirate Bay.

L’affermazione in base alla quale infatti  il gestore è responsabile qualora intervenga gestendo e filtrando attivamente determinati contenuti, sembra prefigurare una diretta e generale  responsabilità per l’immissione in rete di contenuti ad opera di terzi.
Il dibattito europeo sarà fortemente influenzato da questa decisione, anche perché proprio in questi giorni il Parlamento Europeo sta lavorando alla riforma sui copyright e la relativa responsabilità delle piattaforme online. 
 

Pubblicità occulta e Social Media

Il mercato pubblicitario sta cambiando e sempre più comuni sono diventate le pubblicità indirette o, peggio, occulte in internet e sui social network più popolari.

La pubblicità indiretta è un tipo di pubblicità che compare in maniera chiara ed esplicita in spazi non tipicamente pubblicitari, senza però essere segnalata come tale. È invece pubblicità occulta la pubblicità che avviene in modo non palese. Questa pratica è vietata dalla legge italiana ma limitatamente alla televisione. E, sebbene film e telefilm siano un terreno fertile per il proliferare di questo tipo di sponsorizzazione, nuove sfide si sono aperte soprattutto sui social network. Infatti, dato che questi spazi rappresentano una nuova opportunità di manifestazione del proprio pensiero e dei propri interessi e gusti e un nuovo mezzo per apprendere e condividere informazioni e contenuti, anche le aziende hanno cominciato ad utilizzarli, in maniera esplicita o poco manifesta.

Da una parte troviamo veri e propri spot pubblicitari, come le sponsorizzazioni dichiarate, anche se non del tutto controllate: Facebook e Instagram, ad esempio, verificano che le inserzioni non contengano contenuti illeciti o proibiti dal regolamento interno, ma non controllano la veridicità delle informazioni comunicate, né la loro congruità a delle norme, visto che non esiste alcun codice di disciplina da rispettare.

Dall’altra c’è l’advertising che non si dichiara ma si fa, il cosiddetto product placement all’interno dei profili più cliccati.

A questo proposito, lo scorso gennaio la Competition and Markets Authority, agenzia governativa inglese che tutela la concorrenza sui mercati, si è pronunciata contro la pubblicità occulta, ovvero quella forma di pubblicità che non è indistinguibile da contenuti comuni nelle foto o nei video pubblicati. Chi si era spinta molto oltre era stata, tempo prima, la Federal Trade Commission americana che, per la prima volta, ha affrontato la questione, chiedendo alle celebrità della moda, dello sport e in generale agli influencer di rendere riconoscibili le loro redditizie collaborazioni commerciali attraverso hashtag o commenti.

Una normativa di riferimento però non c’è ancora e nemmeno le condizioni di utilizzo di siti come Instagram prevedono qualche tipo di regola. Ci si domanda quindi se si tratti di attività conformi alle norme del nostro ordinamento, in relazione soprattutto alla tutela il consumatore che, oltre a non dover essere soggetto a spot non veritieri e ingannevoli, ha diritto di poter distinguere i contenuti a scopo pubblicitario da quelli di puramente “di tenedenza”.

Recentemente, l’Unione Nazionale Consumatori ha interrogato l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per chiedere che si verificasse la legittimità dell’attività pubblicitaria occulta sui social network. La base giuridica di tale contestazione è l’articolo. 22 del Codice del Consumo secondo il quale l’intento commerciale dev’essere esplicitamente indicato qualora non sia reso evidente dal contesto o, comunque, se è idoneo a indurre in errore il consumatore.

L’AGCM dovrebbe dunque fare chiarezza e fornire informazioni adeguate sia sul rapporto interno tra produttore e influencer, sia sulla necessità di indicare in maniera esplicita e senza alcuna possibilità di fraintendimento il fine pubblicitario dell’attività.

Nel frattempo, Instagram ha lanciato un nuovo tag,Paid Partnership with”, in modo che gli utenti possano inserirlo sia nelle storie che nei post pubblicati per denunciare la presenza di una pubblciità. In alternativa, molte blogger, tra cui la più celebre è Chiara Ferragni, hanno iniziato ad utilizzare alcuni “claim-hashtag”, come #ad, #advertisement o #pubblicità, per evidenziare lo scopo commerciale della loro foto, in modo da contribuire, seppur in modo non sufficiente, ad una tutela del consumatore.

 

Emoticons e responsabilità precontrattuale.

Gli emoticon o emoji, anche conosciuti come faccine o smiley, sono riproduzioni stilizzate delle principali espressioni facciali. Il termine “emoticon” è un neologismo sincretico delle parole inglesi “emotion” e “icon”, utilizzato per indicare una piccola immagine che riproduce le nostre più comuni emozioni. Ormai però il gruppo originario di emoticon, composto dai tipici sorriso, risata, broncio, pianto, sbuffo e chi più ne ha più ne metta, si è allargato e comprende anche simboli e immagini di più vario genere. 
Questi disegnini, utilizzati prevalentemente su internet e nei messaggi per aggiungere componenti extra-verbali alla comunicazione scritta, sono diventati tanto comuni da costituire, secondo alcuni, un vero e proprio nuovo linguaggio di natura digitale.

Interessante, a questo proposito, è quel che è successo recentemente in Israele, dove un padrone di casa ha denunciato, con successo, una coppia che lo aveva fuorviato scrivendo un messaggio ricco di emoji. 
Più precisamente, il locatore, Yaniv Dahan, ha pubblicato un annuncio per l’affitto della propria casa su un sito dedicato al mercato immobiliare, dove la sfortunata coppia ha risposto, secondo il giudice, manifestando una dichiarazione di intenti. In effetti, dopo che i due giovani hanno risposto all’inserzione, il sig. Dahan ha eliminato il proprio annuncio ma la coppia non si è più fatta viva. La vicenda è stata allora portata all’attenzione dei giudici i quali, tra le prove utilizzate nei confronti degli imputati hanno preso in considerazione parte del testo scritto in risposta all’inserzione, contente immagini raffiguranti varie espressioni e oggetti, dal gesto “v” delle dita della mano ad una ballerina o una bottiglia stappata di champagne.
Il giudice ha deciso in favore di Dahan, ordinando alla coppia di pagare circa duemila dollari a titolo di risarcimento di danno per responsabilità precontrattuale. In particolare, il giudice ha motivato la sua decisione spiegando come le emoji utilizzate dalla coppia, tra cui la bottiglia e la ballerina, indicassero ottimismo e positività e, dunque, l’intenzione di concludere il contratto di locazione. Sebbene questo messaggio non costituisse un contratto vincolante tra le parti, secondo il giudice era sufficiente a far nascere un legittimo affidamento rispetto alla volontà di concluderne uno in futuro.

Sicuramente, e questa è esperienza quotidiana oramai comune ai più, gli emoticon sono simboli intuitivi e immediati, in quanto racchiudono un sentimento o un riferimento che sarebbe difficile da tradurre in parole, e che, soprattutto, richiederebbe più tempo per essere scritto per esteso con le lettere. 
Bisognerebbe però chiedersi se le simpatiche faccine oltre a semplificare la vita e a cancellare le ambiguità chiarendo un concetto, non abbiano sostituito una buona parte dei sentimenti, o meglio della volontà di manifestarli, rendendo la comunicazione virtuale più leggera e più incosciente e per questo meno rappresentativa della volontà del singolo.

Per ora questa sentenza israeliana è un caso isolato, ma sicuramente ci chiama a riflettere su questo tema e a fare attenzione a quel che scriviamo ;-)

Edera Blu.

In queste settimane è in corso una curiosa battaglia legale tra due star della musica internazionale e una compagnia californiana, la  per la registrazione di un marchio: “Blue Ivy” ovvero il nome della figlia di cinque anni di Beyonce e Jay-z. I due cantanti avevano già provato, ai tempi della nascita della bambina, a registrare il suo nome come marchio ma la società di Los Angeles si era opposta, facendo valere i propri diritti sul medesimo nome, già operativo da molti anni. Oggi, Beyoncè e Jay-z hanno inoltrato una nuova richiesta di registrazione aggiungendo al nome della piccola anche il cognome del papà rapper, Mr. Carter. Questa volta, il marchio, disponibile per la visualizzazione sul database statunitense per i marchi e i brevetti, copre moltissime categorie di prodotti, dal mercato del beauty a quello dei prodotti per bambini, ma anche DVD, CD, borse, libri e anche carte da gioco e "performance musicali dal vivo". Secondo il database, la richiesta di registrazione è stata originariamente presentata nel gennaio 2016, ma è stata disponibile per l'opposizione solo il 10 gennaio di quest'anno. E infatti, la società della California si è nuovamente opposta a questo secondo tentativo di registrazione, statuendo che i due celebri genitori vorrebbero procedere con la registrazione del marchio unicamente per impedire a qualcun altro di utilizzare il nome della bambina, senza poter provare l’utilizzo che ne verrà poi effettivamente fatto sul mercato. In effetti, a differenza di quanto è previsto nel nostro ordinamento, secondo la legge sul marchio degli Stati uniti, requisito essenziale per la registrazione di un marchio è la presentazione, al momento della domanda, di un cosiddetto “statement of use” cioè di una dichiarazione che dimostri l’utilizzo del marchio sul mercato statunitense. Qualora si tratti di una società da poco aperta che non ha ancora cominciato ad operare e vendere negli Stati Uniti, la domanda di registrazione del marchio viene accolta in via temporanea. Entro sei mesi la registrazione viene eventualmente confermata a seguito della prova d'uso in commercio negli Stati Uniti.

La prova d'uso si concretizza con la prova della vendita di un prodotto, oppure con la stampa di cataloghi per il mercato americano, con annunci pubblicitari, ecc. In italia, invece, l’utilizzo del marchio non è requisito essenziale per la sua registrazione, ma condizione per il mantenimento della sua validità. Il legislatore, all’articolo 24 del Codice della Proprietà Industriale, ha espressamente disciplinato il caso della decadenza del marchio per “non uso” se il titolare di un marchio registrato in una determinata classe, non lo utilizza per 5 anni di seguito sui prodotti e i servizi previsti per quella classe. In entrambi i casi, la ratio della norma è quella di impedire ad un soggetto di far proprio un segno distintivo senza utilizzarlo in maniera effettiva, sottraendolo al mercato ed impedendo ad altri di farne uso.

Siete pronti per l'entrata in vigore del nuovo regolamento Privacy?

Il Garante della Privacy ha elaborato una Guida per l’applicazione del Regolamento Europeo 2016/679 sulla protezione dei dati personali, adottato dal Parlamento Europeo lo scorso aprile 2016, per permettere alle persone, alle imprese e ai soggetti pubblici di conoscere e correttamente applicare le nuove disposizioni in materia.

Il Regolamento, che diventerà pienamente efficace dal 25 maggio 2018, sarà operativo in tutti i Paesi UE, senza bisogno di alcuna procedura di recepimento e sostituirà l’attuale Codice della Privacy, adottato invece con il decreto legislativo 196 del 2003 in sede di attuazione di una precedente direttiva comunitaria.
Entro un anno, dunque, le normative nazionali in tema di privacy e protezione dei dati di tutti i Paesi membri dell’Unione Europea saranno uniformate in un’unica disciplina.

Il sistema predisposto dall’Unione Europea è costituito da due parti: un regolamento che riguarda le persone fisiche, le imprese e le amministrazioni e una direttiva più specifica relativa all’utilizzo dei dati personali nell’ambito della sicurezza e dell’attività di polizia e giustizia. Questa seconda parte, dovrà essere recepita dai singoli ordinamenti nazionali con una normativa di attuazione. 

La Guida del Garante affronta i temi della prima parte della normativa, dividendoli in sei gruppi (fondamenti di liceità del trattamento; informativa; diritti degli interessati; titolare, responsabile, incaricato del trattamento; approccio basato sul rischio del trattamento e misure di accountability di titolari e responsabili; trasferimenti internazionali di dati) e affrontando per ognuno le relative novità e le eventuali problematiche.

In particolare, tra le novità introdotte dal regolamento ve ne sono alcune a vantaggio del titolare di dati. Innanzitutto, l’informativa eventualmente sottoscritta dal soggetto interessato, dovrà essere chiara, concisa, trasparente, intellegibile e facilmente accessibile. Inoltre, il titolare di dati potrà, all’occorrenza, decidere di trasferirli da un soggetto ad un altro, con la possibilità, quindi di cambiare gestore senza perdere i dati forniti. Soltanto per i paesi extraeuropei o per organizzazioni internazionali che non abbiano un’adeguata politica sulla privacy, sarà necessario un esplicito consenso al trasferimento dei dati personali. 
D’altro canto, il regolamento promuove la responsabilizzazione dei titolari del trattamento e l’adozione di approcci e politiche che tengano conto costantemente del rischio che un determinato trattamento di dati personali può comportare per i diritti e le libertà degli interessati. 
Infine, un’altra importante novità riguarda l’introduzione della figura del Data Protection Officer, un professionista addetto alla gestione e al controllo delle politiche di privacy di società ed enti. 

Entro un anno, dunque, scopriremo gli effetti apportati da questa riforma e vedremo come cambierà la gestione dei dati personali in tutta l’Unione Europea.

Leciti i link ai siti di streaming

La messa a disposizione in rete di file protetti dal diritto d’autore non è attività di per sé illegale. Questo è quanto ha recentemente riconosciuto il Tribunale di Frosinone, annullando una sanzione di oltre 550mila euro emessa a carico di un gestore di siti che permettono di vedere film pirata online. Per la precisione, il giudice ha accolto il ricorso contro una ordinanza del 2015, con la quale si era ingiunto al sito web di pagare una somma di denaro, a titolo di sanzione amministrativa, per avere violato l’articolo 171-ter, comma 2, lettera a-bis della legge 633 del 1941. Secondo i giudici del tribunale, infatti, la violazione del diritto d’autore sui siti che ospitano link a streaming di film e musica non è automatica, ma necessita di un’indagine volta a stabilire la sussistenza del fine di lucro, elemento previsto dalla lettera dell’articolo 171-ter. Nel caso concreto, il giudice ha escluso la presenza di uno scopo di lucro, nonostante il sito web faccia uso di banner pubblicitari. La condivisione di file protetti dal diritto d’autore, secondo il Tribunale di Frosinone, è un risparmio di spesa e non un’attività con finalità di lucro e dunque non sarebbero applicabili né le disposizioni penali né le conseguenti sanzioni amministrative previste dalla legge 633 del 1941. “Occorre dimostrare che l'attività di lucro sia collegata alla singola opera e che ne sia il corrispettivo, perché altrimenti siamo in presenza di un risparmio di spesa e non di una attività di messa a disposizione per finalità di lucro", dice l’avvocato del gestore del sito, Fulvio Sarzena. "Ne consegue che, al fine della commissione dell'illecito in esame, deve essere raccolta la prova dello specifico intento del file sharer di trarre dalla comunicazione al pubblico, per il tramite della messa in condivisione in rete di opere protette, un guadagno economicamente apprezzabile e non un mero risparmio di spesa", si legge nella curiosa sentenza. Il giudice non ha ritenuto ci fossero prove a sufficienza per dimostrare che i guadagni del sito fossero direttamente collegati ai singoli film piratati i cui link erano a disposizione sul sito. Per la prima volta, provare la concreta finalità di lucro dei siti di questo tipo è stato considerato rilevante per decidere una sanzione. Il fine di lucro è il requisito essenziale di punibilità e, in base alla sentenza, non sarà più possibile oscurare automaticamente un sito che fornisce link diretti a streaming di film. Ma cosa prevede la legge italiana sul diritto d’autore e perché questa sentenza fa discutere? La regola generale è riconducibile all’articolo 171, comma 1, lettera a-bis, che prevede che “è punito con la multa da euro 51 a euro 2.065 chiunque, senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, mette a disposizione del pubblico, immettendo in un sistema di reti telematiche mediante connessioni di qualsiasi genere un’opera dell’ingegno protetta da o parte di essa”. Questa disposizione viene però sostituita dagli articoli 171-bis e 171-ter comma 2, quando, rispettivamente, si è in presenza di duplicazione abusiva di programmi per elaboratore oppure di duplicazione, a scopo di lucro, e vendita di opere tutelate dal diritto d’autore. Inoltre, l’articolo 174-bis prevede l’affiancamento di una sanzione amministrativa applicabile a tutte le violazioni della legge sul diritto d’autore previste nella sezione II, del capo III della legge sul diritto d’autore e quindi a quei comportamenti che costituiscono anche illecito penale. Sembrerebbe dunque che i giudici del tribunale del Lazio abbiano applicato con rigore le disposizioni dell’articolo 171-ter, richiedendo che il fine di lucro sia esito di una precisa attività inquirente, dimenticandosi però di tutto il complesso normativo in cui questo articolo è inserito e della ratio che ne costituisce il fondamento: garantire all’autore di un’opera dell’ingegno la titolarità dei diritti morali e patrimoniali connessi. Per questo, fino ad ora, le piattaforme web di divulgazione di link per lo streaming sono sempre state oscurate. Nel caso specifico, inoltre, la presenza sul sito di pubblicità, costituirebbe lo scopo di lucro richiesto dalla norma, non essendo necessario che ogni singolo link sia corredato da una specifica pubblicità. La sentenza fa già discutere e in molti parlano di un notevole passo indietro nella lotta contro la pirateria.

L'inimitabile Vespa Italiana

Il Tribunale di Torino ha deciso: la forma della Vespa è un’opera di disegno industriale creativa ed artistica e, come tale, non può essere copiata. In questi termini si sono espressi i giudici pronunciando una sentenza storica che, per la prima volta, attribuisce l’esclusiva sulla commercializzazione in Italia all’intramontabile Vespa. Tutto iniziò nel 2013 al salone milanese delle due ruote EICMA, dove la Guardia di Finanza sequestrò undici scooter esposti e appartenenti a sette diverse compagnie, poiché riproduzioni della storico modello della Piaggio, la Vespa. In quell’occasione la Guardia di Finanza aveva rilevato che i modelli esposti violavano il diritto di esclusiva del Gruppo Piaggio costituito dal marchio tridimensionale registrato per proteggere la forma distintiva di Vespa. Una società coinvolta nel sequestro, la cinese Taizhou Zhongneng, aveva poi a sua volta citato Piaggio davanti al Tribunale di Torino per l’annullamento del marchio distintivo della Vespa e, dunque, per far accertare la conformità della linea di moto cinesi presentate all’EICMA, le “Ves”. Il gruppo italiano aveva però dapprima risposto facendo valere il diritto di forma su un modello specifico, la Vespa LX del 2005, e poi su tutte le linee prodotte dal 1948 ad oggi. Il Tribunale ha accolto le domande degli avvocati della Piaggio e ha stabilito non solo che la società cinese non potrà commercializzare gli scooter Ves, ma anche che tutte le declinazioni stilistiche della Vespa sono tutelate dall’articolo 2 della legge sul diritto d’autore. Questo fa sorgere, però, delle perplessità poiché, sebbene fosse scontata l’illegittimità di una linea di scooter identica a quella della Piaggio e per giunta titolata con il diminutivo di Vespa, appare più complicato inquadrare il campo di applicazione della tutela garantita dalla sentenza al modello Piaggio. Difatti, dire che tutte le diverse versioni di Vespa sono una proprietà intellettuale tutelata dal diritto d’autore significa vietare la commercializzazione di qualsiasi scooter, essendo la forma della Vespa e quella dello scooter la stessa cosa. Bisognerà dunque aspettare di vedere con quale rigidità questa pronuncia verrà attuata per capirne la reale portata.

Continua la causa contro Facebook a Milano.

Il prossimo 4 aprile a Milano, davanti alla Corte d'Appello Civile, si aprirà la causa di secondo grado nei confronti di Facebook, condannata per la prima volta in Italia la scorsa estate per concorrenza sleale e per violazioni del diritto di autore sulla banca dati rappresentata da Faround, applicazione di geolocalizzaizone creata nel 2012 con il nome di Facearound dalla società milanese Business Competence Srl. La Sezione Specializzata in materia di Impresa del Tribunale di Milano con sentenza n. 9549 del primo agosto 2016 aveva statuito che l'applicazione Nearby di Facebook utilizzerebbe la stessa banca dati elettronica dell’applicazione Faround. Faround seleziona i dati presenti sui profili Facebook degli utenti registrati organizzandoli e visualizzandoli poi su una mappa interattiva, dove vengono indicati gli esercizi commerciali più vicini alla posizione dell’utilizzatore, con anche recensioni e informazioni su sconti ed offerte. Per quanto tali dati non siano di proprietà di Faround che, anzi, li ha ottenuti accedendo a Facebook in veste di sviluppatore indipendente, la modalità della loro organizzazione detiene un certo grado di originalità che permette di tutelarli come banca dati coperta da diritto d'autore. Infatti, “i precedenti programmi elaborati da Facebook (Facebook Places) e da terzi (Foursquare e Yelp) non avevano le stesse funzionalità di Faround: il primo era una sorta di cerca-persona che consentiva solo di rilevare la presenza di amici nelle vicinanze e non, piuttosto, una geolocalizzazione di esercizi commerciali vicini all'utente, mentre gli altri erano studiati sulla base di algoritmi logici che lavoravano sui dati inseriti dai soggetti iscritti ai rispettivi social network, e non di Facebook, ben più diffuso". Proprio per questo motivo, la Business Competence Srl aveva accusato Facebook di avere rubato il concept e il format dell’applicazione, lanciando la sua Nearby, identica nel contenuto. Inoltre, essendo stata sviluppata in breve tempo, Nearby attirò anche i principali inserzionisti professionali, perpetrando una condotta sleale nella forma dello storno di clientela in riferimento al business pubblicitario. Il Tribunale di Milano, dopo aver constatato l’effettiva uguaglianza delle funzionalità delle due applicazioni e averle definite “sovrapponibili”, con la suddetta sentenza ha condannato la società di Zuckerberg alla pubblicità della decisione attraverso la sua pubblicazione su il "Corriere della Sera" e "Il Sole 24 Ore" nonché, per almeno quindici giorni, sulla pagina iniziale di facebook.com. Ha, inoltre, proibito ogni ulteriore utilizzo in Italia dell'applicazione Nearby disponendo una penale pari a 45mila euro per ogni giorno di violazione di tali disposizioni. Non sono, invece, ancora stati liquidati i danni dovuti alla parte offesa. Facebook ha impugnato la decisione davanti alla Corte d'Appello di Milano, la quale, nonostante debba ancora pronunciarsi sul ricorso, ha rigettato l'istanza di sospensione della misura provvisoria decisa in primo grado.

Hendrix vs Hendrix

Experience Hendrix, società controllata da Janie Handrix, la quale detiene i diritti sull’intero patrimonio del più famoso fratello chitarrista Jimi, ha citato in giudizio Leon Hendrix e il suo socio Pitsicalis per violazione del diritto d’autore e del marchio. Leon e Pitsicalis avrebbero, infatti, utilizzato illecitamente alcuni dei tanti marchi di proprietà di Experience (la firma e le immagini del volto e del busto di Jimi) per commerciare sigarette e bevande alcoliche. Ma le battaglie per l’utilizzo commerciale del nome di Jimi sono risalenti nel tempo. Già nel 2015 la Corte distrettuale di Washington si era pronunciata sulla questione, proibendo a Leon e Pitsicalis di utilizzare le immagini del musicista. Inoltre, lo scorso gennaio 2017 la Corte distrettuale della Georgia ha dichiarato illegittimo da parte di Leon e Pitsicalis l’utilizzo delle parole “Jimi” e “Hendrix” sui loro siti web, social media e piattaforme online. Con la causa intentata il 16 marzo 2017 di fronte al tribunale di New York, la Experience Hendrix ha chiesto che venga dichiarato illegittimo anche l’utilizzo del nome “Purple Haze” nella vendita di prodotti a base di marijuna e di magliette. Purple Haze, infatti, è una canzone scritta nel 1967 da Jimi Handrix. Experience Hendrix ha chiesto un provvedimento ingiuntivo, l’eliminazione dal mercato dei beni in violazione dei diritti sul marchio registrato e un risarcimento dei danni. D’altra parte, Thomas Osinski, avvocato di Pitsicalis e Leon Hendrix, ha dichiarato che “Experience Hendrix conosce da tempo i prodotti dei miei clienti e conduce questa causa solo per offuscare e interferire con gli affari leciti e corretti di Leon che rispetta l’'eredità di Jimi Hendrix.” Osinski, in merito al contenuto della citazione, ha dichiarato che, sebbene le sentenze precedenti hanno escluso Leon Hendrix e la sua famiglia dal catalogo musicale di Jimi Hendrix, e hanno negato la possibilità di utilizzare i marchi creati da Experience Hendrix, niente impedisce a Leon e ai suoi soci di vendere altra merce legata a Hendrix. Chissà come il Tribunale risolverà questa lite familiare questa volta.

Una Mostra può essere tutelata come opera dell'ingegno?

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha statuito che un’esposizione può essere considerata un’opera dell’ingegno e come tale può essere tutelata dal diritto d’autore. Ai curatori di una mostra, dunque, possono essere riconosciuti diritti morali e patrimoniali. La realizzazione di una mostra può costituire espressione di un’idea creativa: da una parte si tutela il concept, cioè l’originalità del tema, dall’altra il project, cioè l’operazione di carattere creativo che precede l’allestimento vero e proprio. In questo senso, le esposizioni sono il frutto di un complesso e costoso processo di pianificazione e organizzazione, che merita di essere tutelato.

Il caso sottoposto alla Corte, riguardava un servizio televisivo messo in onda da RAI SAT, il quale, riproponendo una mostra, non ne rispettava i contenuti, violando così i diritti di sfruttamento economico riconosciuti dalla legge agli autori dell’opera. Fu dunque accertata la creatività della mostra, elemento necessario per la configurazione di un diritto d’autore. In altri casi, infatti, i giudici italiani avevano rigettato le richieste di accertamento e tutela di un diritto d’autore poiché non era stato provato in che modo originale fossero stati organizzati ed esposti gli oggetti di cui la mostra si componeva. In alcuni casi, inoltre, i giudici si sono spinti oltre e hanno allargato la tutela ad interi musei. È quello che è successo a Parigi, quando nel 2006 i giudici hanno riconosciuto la qualità di “opera d’ingegno” al museo del cinema Henri Langlois.

Sebbene la giurisprudenza, nazionale e non, sembri essere d’accordo nel concedere una tutela a mostre ed esposizioni, più difficile appare ricondurre questa fattispecie ad un istituto giuridico previsto dal legislatore. Nel nostro ordinamento, la tutela del diritto d’autore è garantita dalle previsioni della legge n. 633 del 1941, il quale comprende tutte le opere appartenenti “alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro, alla cinematografia,…,nonché le banche di dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore”. Con uno sforzo interpretativo, la mostra potrebbe essere considerata una banca dati, intesa quale “raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti..” (articolo 2, comma 9 l.633/41). O ancora, si potrebbe far rientrare l’esposizione artistica nella previsione dell’articolo 4 della legge 633 del 1941, il quale riconosce quali opere dell’ingegno anche le opere derivate, cioè “le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria o artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale”.

In entrambi i casi, condizione essenziale per il riconoscimento del diritto d’autore anche a mostre ed esposizioni è la realizzazione di un’opera intellettuale originale e creativa.

Cavalli vs Cavalli

Il Tribunale di Catania, sezione delle imprese, ha condannato Roberto Cavalli al pagamento delle spese processuali, nel procedimento contro la Signora Luciana Cavalli, artigiana siciliana, produttrice di scarpe.

Il noto stilista fiorentino, ormai sei anni fa, aveva convenuto in giudizio l’omonima signora per uso improprio del marchio “Cavalli”. Non importa, infatti, che l’artigiana siciliana si chiami davvero Cavalli e che il suo brand sia addirittura antecedente quello del signor Roberto, per lo stilista il cognome è usato a sproposito e si è in presenza di un caso di concorrenza sleale.

Infatti, Roberto Cavalli ha chiesto al giudice di accertare un danno economico a suo danno e di risarcirlo con una somma di 10mila euro per ogni giorno di uso improprio del marchio, ex articolo 2600 del Codice Civile.

Il tribunale però ha rigettato le domande attoree e, come spiega l’avvocatessa della Signora Cavalli, ha premiato la buona fede e la continuità nell’utilizzo del marchio Cavalli da parte della produttrice di scarpe e accessori.

Quest’ultima, quindi, non dovrà ritirare il suo nome dal mercato e potrà continuare a produrre pelletteria made in Italy.

La sentenza siciliana si pone in netto contrasto con quanto stabilito nel maggio 2016 dalla Corte di Cassazione suFiorucci. In quel caso, i giudici giudicarono illecito l’utilizzo da parte dello stilista del marchio Love Therapy by Elio Fiorucci, in quanto il marchio Fiorucci era stato dallo stesso precedentemente venduto ad un gruppo giapponese. In quel caso, dunque, si giudicò che l’utilizzo del nome, anche se il proprio, non è lecito se questo costituisce un marchio patronimico di proprietà di terzi. Può infatti accadere, ha spiegato la Corte, che si generi un effetto agganciamento e che questo, generando confusione, interferisca con il marchio più celebre.

Il Made in Italy come marchio unico nazionale.

Ormai da qualche tempo, tra i produttori italiani, si parla della possibilità di creare un brand nazionale,  il “Made in Italy”, attraverso il quale garantire l’italianità del processo produttivo, a partire dalle materie prime. 
Il progetto di “Certificazione volontaria di conformità d’Origine e tipicità italiana” è ambizioso e mira ad accrescere il potere attrattivo dell’offerta nazionale, come brand di sistema che valorizzi i prodotti, le produzioni e l’offerta nazionale di beni e servizi.

L’iniziativa è di Conflavoro, che ha stipulato un accordo con l’ente di certificazione mondiale Lluyd’s Register, il quale dovrà rilasciare la certificazione. Il meccanismo di tutela e certificazione è sottoposta ad un doppio controllo: quello di un Organo Interno di Vigilanza, costituito ad hoc da Conflavoro e quella del Comitato Tecnico Scientifico di Indirizzo e Sviluppo del Marchio Unico Nazionale, costituito da personalità esterne all’organizzazione, provenienti dal mondo dell’imprenditoria, dell’università e delle associazioni di rappresentanza dei consumatori.

In particolare, il mercato che più sembra interessato al progetto, è quello alimentare. Il brand unico sarebbe infatti apposto alle confezioni di prodotti alimentari e garantirebbe non solo una tutela nei confronti del sistema di contraffazione, ma anche una risposta alle sempre più stringenti richieste dei consumatori in tema di qualità e salubrità del food and beverage.
Il “Made in Italy” diventerebbe così segno di autenticità e tracciabilità di prodotti italiani e, se possibile, anche simbolo di un’innovazione che coniuga gusto e genuinità.

L'immagine di Marylin Monroe come marchio registrato.

Lo scorso 9 novembre 2016, la Marilyn Monroe Estate ha citato in giudizio un’azienda di abbigliamento newyorkese per essersi illegittimamente servita del marchio “Marilyn Monroe”, di cui la prima è titolare, attraverso l’utilizzo dell’immagine della celebre attrice.

La Marilyn Monroe Estate ha registrato presso il PTO (The United States Patent & Trademark Office) l’esclusiva proprietà dell’immagine, del nome, dell’identità e delle rappresentazioni di Marilyn, nonché il diritto di concedere la licenza di questi diritti a terze parti. 
The Estate of Marilyn Monroe è, dunque, detentrice e licenziataria del marchio Marilyn Monroe, che continuativamente e da oltre trent’anni utilizza sui mercati. Questa circostanza rende il marchio incontestabile, conferendogli una maggiore garanzia di tutela. 

Per questi motivi, la Monroe Estate ha chiesto che venissero accertate le violazioni previste dal Lanham Act, 15 U.S.C. 1051 ss, dallo Statuto di New York e dalle altre leggi applicabili di Common Law, e che venisse risarcito il danno cagionato, in termini di sfruttamento e diluizione del marchio, nonché di concorrenza sleale.

Poco importa, dunque, che il nome di Marilyn non venga effettivamente utilizzato in commercio dalla società convenuta: l’immagine della più famosa diva di tutti i tempi, quando usata come segno distintivo o marchio, rientra tra i “Monroe Rights” di proprietà dell’attore.
Più in particolare, come si evince anche da una precedente pronuncia giurisprudenziale*, è necessario distinguere la violazione dei diritti di sfruttamento del marchio dai diritti di sfruttamento dell’immagine. Solo la prima fattispecie, infatti, per essere integrata richiede che il consumatore sia indotto a credere che l’utilizzo del marchio sia stato autorizzato dal titolare. 
E proprio su questo punto, la Monroe Estate precisa che una confusione tra i consumatori e i rivenditori c’è stata: in molti avrebbero infatti contatto la società credendo che i prodotti della convenuta fossero stati approvati, autorizzati o sponsorizzati dalla società proprietaria del marchio.

Nel caso concreto, dunque, mentre potrebbe essere difficilissimo, o addirittura impossibile, provare una violazione del marchio visto che il marchio non è stato usato, l’articolo 1125 (a) 15 U.S.C dà ampio potere all’attore per intentare una richiesta legittima. 
Infatti, la legge federale americana sul marchio è rivolta alla tutela del consumatore. Se si è in presenza di una effettiva confusione all’interno del pubblico dei consumatori ci dovrebbe essere anche un rischio di confusione, che è la fattispecie riconducibile alle previsioni dell’articolo 1125(a) U.S.C. 
L’esistenza di effettiva confusione contestuale alla presenza di un marchio registrato dovrebbe assicurare l’applicazione dell’articolo sopra citato, garantendo alla Monroe Estate di vedere accolta la propria domanda.

*A.V.E.L.A., Inc v. The Estate of Mailyn Monroe

Il Tribunale di Torino si pronuncia nuovamente sul principio di esaurimento del marchio.

Il Tribunale di Torino si è nuovamente di recente pronunciato sul principio di esaurimento del marchio  in occasione delle richieste cautelari proposte da una società attiva nel mercato della cosmesi e della profumeria, rivolte ad inibire l’utilizzo del proprio marchio e la commercializzazioni dei prodotti ad esso associati da parte di alcuni cessionari.

Come è noto il codice della proprietà industriale statuisce che i diritti di esclusiva spettanti al titolare del marchio si esauriscono in sede di prima immissione sul mercato e dunque il titolare della privativa non può opporsi ad una loro successiva commercializzazione. 

La ratio di questa disposizione, ha ricordato il giudice nelle sentenza, è quella di evitare che il titolare del marchio possa, in virtù di questa qualifica, influenzare l’andamento di mercato dei prodotti che sono contraddistinti dal segno di cui è titolare. 

Unica eccezione a questa regola è costituita dal verificarsi di pratiche commerciali scorrete da parte dei distributori, i quali possono adottare modalità di vendita che ledono il prestigio del marchio e la sua affidabilità e comportino, da ultimo, uno svantaggio in termini di attrattività e di valore economico del prodotto contrassegnato.

Al di fuori di questi casi, tutti coloro i quali abbiano diritto all’utilizzo del segno distintivo e alla distribuzione sul mercato dei relativi prodotti non devono essere ostacolati nell’esercizio della loro attività né per quanto concerne il prezzo finale né per quanto concerne il sistema di vendita. 

Sarebbero dunque indebite e ingiustificate restrizioni nei confronti dei distributori riguardanti la vendita online e l’applicazione di sconti sul prezzo, non costituendo queste di per sé pratiche screditanti. 

 

I siti sono responsabili per i commenti dei lettori?

Il gestore di un sito, anche non professionale, è responsabile dei commenti dei lettori, anche di quelli non anonimi, e rischia quindi una condanna per diffamazione. È quanto stabilito, per la prima volta, da una sentenza pubblicata nei giorni scorsi dalla Corte di Cassazione. Il diffamato è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (Federazione italiana gioco calcio), per un commento pubblicato nel 2009 sul sito Agenziacalcio.it, che per questa vicenda è stato anche oscurato. L'autore del commento, inserito autonomamente, definiva Tavecchio "emerito farabutto" e "pregiudicato doc", allegando il certificato penale. In primo grado il gestore è stato assolto, in secondo grado condannato e ora la Cassazione conferma: dovrà pagare 60 mila euro a Tavecchio, per "concorso in diffamazione". Per la Cassazione c'è concorso perché il gestore doveva sapere dell'esistenza di quel commento, poiché il suo autore gli aveva mandato una mail contenente il certificato penale di Tavecchio. L'imputato invece sostiene di aver saputo del commento diffamatorio solo quando la polizia gli ha notificato il sequestro del sito.

La sentenza colpisce anche perché la giurisprudenza sembrava finora orientarsi in modo diverso: la Corte di Giustizia europea ritiene non responsabili i gestori anche per commenti anonimi. A novembre scorso è stato assolto in appello Massimiliano Tonelli, fondatore del sito Cartellopoli (sul degrado di Roma). In primo grado era stato condannato a nove mesi di carcere per istigazione a delinquere in merito ad alcuni commenti anonimi. Sembrava ormai tramontata la precedente linea interpretativa, che aveva invece portato alla condanna nel 2014 al gestore di Nuovocadore.it. Invece adesso la Cassazione entra nel merito per la prima volta e sentenzia. I gestori di siti sono avvisati. Ma non solo loro, tutti gli utenti. Considerando che chiunque sul web può gestire un sito o un altro spazio web, con i suoi (a volte pericolosi) commenti.

Apple perde la battaglia per la protezione del marchio Apple Watch in Cina.

Apple ha perso per la seconda volta il ricorso per la registrazione in Cina del marchio Apple Watch di sua proprietà. Secondo una massima del Tribunale per la Proprietà Intellettuale di Pechino, il Design in risulterebbe eccessivamente generica come schermata iniziale per godere di tutela nel territorio, in quanto comune a molti smartphone e orologi. 

Nel respingere la prima istanza di appello rivolta dalla Apple all'organo cinese per la Proprietà Intellettuale, il Tribunale di Pechino aveva dichiarato che il marchio depositato dal colosso americano della tecnologia risultava essere “troppo complesso”, e difettava delle caratteristiche fondamentali di un marchio. Come potete sapere, affinché  "una parola, un nome, un simbolo o un disegno (inclusi loghi, colori, suoni, configurazioni dei prodotti, ecc), o una combinazione di questi" possa essere registrato come marchio d’azienda è necessario che venga utilizzato in commercio per identificare e contraddistinguere i prodotti di uno specifico brand, da quelli di altri competitors. Il Tribunale ha stabilito che il marchio Apple Watch, piuttosto che ingenerare nel pubblico la credenza l’orologio in questione fosse di proprietà della Apple Inc., è più probabile che appaia al consumatore medio semplicemente come una rappresentazione della schermata iniziale di un qualsiasi smart watch.

La prima richiesta di registrazione nel territorio cinese è avvenuta nel novembre del 2014, quando Apple ha depositato quattro marchi, di cui il marchio figurativo “Apple Watch” e tre dei relativi accessori Apple. Nel marzo di quest’anno, il Comitato di Valutazione Marchi della Direzione Generale per l'Industria e il Commercio in Cina ha respinto le richieste di Apple, affermando che i design proposti sono manifestamente complessi e difettavano delle caratteristiche necessarie affinché questi venissero registrati come marchi. Apple ha impugnato la sentenza di fronte al Tribunale per la Proprietà Intellettuale di Pechino, sostenendo che i marchi Apple di cui si richiede la registrazione sono stati ampiamente utilizzati e pubblicizzati sulla schermata iniziale degli Orologi Apple Watch, tanto da ottenere una forte rinomanza nel pubblico che permette al consumatore medio di distinguere immediatamente i prodotti di proprietà della Apple Inc., da quelli di altri brand.


In breve: Apple ha proposto come difesa il fatto che, nonostante il marchio proposto non sia intrinsecamente distintivo (o in grado - al primo utilizzo - di comunicare al consumatore che il marchio identifica l'origine invece che descrivere il prodotto stesso), il marchio Apple Watch ha acquisito un significato secondario nella mente dei consumatori, e di conseguenza, dovrebbe essere oggetto di protezione.

 

Come cambierà l'industria legale con l'arrivo di Blockchain?

Blockchain è un libro mastro accessibile al pubblico che può essere utilizzato per tutto ciò che venga normalmente salvato su un database o programma di calcolo.

In sostanza, Blockchain è un programma a partire dal quale è possibile costruire un sistema di contabilità. Un network chiamato Ethereum, descritto come “una piattaforma virtuale decentralizzata che esegue contratti peer-to-peer” sta ottenendo sempre più successo con i suoi cosiddetti Smart Contracts (Contratti Intelligenti).

Contratti

Blockchain può modificare il mondo dei contratti legali. Quello che rende Blockchain così innovativo è che non solo può registrare dati lasciandoli immutati, ma può anche creare una vera e propria elaborazione sugli stessi.

Per esempio, io potrei redigere un contratto che stabilisca che quando il mio brevetto sarà approvato dall’Ufficio Marchi e Brevetti (UIBM), i miei soci riceveranno una quota del 10% nella mia azienda. Come funziona? Una volta che il contratto verrà registrato sul Blockchain, questo controllerà se il brevetto è stato registrato, ed in caso innescherà un meccanismo che distribuisca le quote ai soci.

Tutto ciò verrebbe automatizzato e accadrebbe al di fuori dell’intervento di un legale. Infatti, si arriverebbe ad un livello tale per cui, una volta vincolato ad un sistema di pagamenti, le quote percentuali da versare verrebbero automaticamente versate ai soci non appena si avrà notizia della registrazione del brevetto.

Proprietà intellettuale

Se il Blockchain è pronto per qualcosa, questa è la proprietà intellettuale. Tale tecnologia crea un infatti un vero e proprio libro mastro accessibile al pubblico e adatto per ogni tipo di file che può portare benefici a livello globale.

Tali informazioni offrono chiari diritti di utilizzo per tutti. Si potrebbe anche richiedere di registrare un marchio tramite questo sistema. Sfruttando un algoritmo che identifica qualsiasi possibile somiglianza con altri marchi, il sistema potrebbe quindi concedere o respingere tale richiesta. Tutto ciò diventerebbe a portata di tutti.

Diritti Immobiliari

La ricchezza è data dalla proprietà, e uno degli aspetti più complessi in ambito di sviluppo degli Stati è determinare i proprietari di ciascun territorio. I conflitti spesso accadono perché governi o individui corrotti si approfittano di chi è più in difficoltà.

Avere un libro mastro accessibile al pubblico permetterebbe a chiunque di sapere chi è proprietario di cosa; e questo renderebbe lo scambio di tali terreni molto più semplice ed equo.

Se una famiglia decidesse di comprare un pezzo di terra che possa essere legalmente registrato su Blockchain, il controllo sullo stesso sarebbe molto più semplice da verificare che, per esempio, su registri statali.

Alcuni paesi dell’America del Sud stanno cominciando a usare Blockchain per tenere traccia di chi possiede determinate parti di territorio.

Raccolta dati

Alcuni paesi africani stanno cominciando a usare la tecnologia Blockchain per avere informazioni sul censimento. Il censimento sulle votazioni potrebbe essere aggiunto a tale sistema per avere un registro centrale dei cittadini votanti. In queste aree, che sono per lo più sottosviluppate, Blockchain potrebbe portare un’enorme crescita.

Servizi finanziari

Anche l’industria bancaria si sta lanciando in questa nuova piattaforma. L’idea è che le nostre azioni diventino compatibili con il sistema Blockchain. Semplicemente, ogni azione comprata o venduta verrà registrata sul libro mastro. Ciascuno potrà tener traccia del proprio portafoglio di azioni e addirittura collegarlo ai propri documenti di gestione delle proprietà

Una volta estrapolati, tali documenti potranno essere salvati sul Blockchain fino a quando si vuole (eventualmente anche fino al proprio decesso). Infine, tali documenti potranno essere affidati ai propri successori.

 

 

Da Klein a Kapoor. Gli artisti ed i diritti di privati sui colori.

Anish Kapoor ha recentemente annunciato di aver acquistato il diritto di esclusiva d'uso del Vantablack, un particolare pigmento di nero così scuro da assorbire il 99,96% della luce. 

Il Vantablack è una sostanza prodotta dalla Surrey Nano Systems, sviluppata e brevettata dalla Nasa a scopi militari che facilita il travestimento dei satelliti.  La vernice si caratterizza per il fatto di essere in grado di assorbire tanto da impedire all’occhio umano di rilevare il tipo di ombre che aiutano il cervello a interpretare la forma di un oggetto: un pezzo spiegazzato di carta stagnola coperto con uno strato di vernice appare quasi completamente piatto.

Da tempo Kapoor ha cominciato a fare esperimenti con il Vantablack mettendosi in contatto con la società britannica Surrey Nano Systems, la prima a essere in grado di produrre il pigmento in serie. 

Questa però non è la prima volta che un artista rivendica un legame unico con un particolare colore. Nel 1960, l’artista francese Yves Klein brevettò International Klein Blue (IKB), una particolare tonalità di blu, che aveva sviluppato con un produttore di vernici di Parigi e utilizzato in una serie di dipinti monocromi. Klein morì nel 1962, ma IKB continua a esistere e a essere utilizzato anche oggi.

 A pensare  male il diritto di esclusiva potrebbe essere una strategia di marketing della società Surrey Nano Systems: associare il proprio materiale a uno dei più grandi artisti contemporanei. Oppure si tratta della riproposizione di un fenomeno già noto nella storia, che lega l’uso del colore quasi indissolubilmente alla capacità di spesa dell’artista. 

Mc Donald's accusata di violazione del Copyright dai Writers Americani.

Con il lancio del restyling  dei suoi ristoranti, Mc Donald’s sta cercando da un lato di avvicinarsi sempre di più ad un pubblico più giovane e dall’altro di difendersi dalla produzione indiscriminata di graffiti parodistici che diffamano l’immagine della nota azienda americana.

Con un clamoroso effetto boomerang, l’azienda americana però ha attirato soprattutto una serie di cause per violazione dei diritti da parte di graffitari che accusano la catena di fast food di averli copiati. L’ultima in ordine di tempo è quella depositata al tribunale federale di Los Angeles da Jean Berreau, ex compagna del writer Dash Snow e ora amministratrice dei suoi beni.

«Niente è più antitetico rispetto alla sua reputazione di strada da outsider del consumismo delle grandi aziende, di cui McDonald’s e il suo marketing sono la personificazione», si legge nella denuncia. Snow, che in realtà era il discendente di una famiglia di aristocratici e industriali di origine francesi.

Non è la prima volta che le nuove decorazioni vengono accusate di aver violato il copyright: lo scorso 25 marzo un altro writer, Norm, ha citato in giudizio l’azienda accusandola di aver replicato un suo celebre graffito realizzato a Brooklyn, in Bartlett Street («Norm sulla scala antincendio di Bartlett»). Norm, a differenza di Snow, non è contrario a un uso commerciale del suo lavoro, e ha lavorato spesso con grandi marchi. Nella denuncia afferma però che McDonald’s ha «deciso consapevolmente di rivestire i muri dei suoi ristoranti in giro per il mondo con il nome di Norm, la sua arte, firma, marchio commerciale» e ha «installato e continui a installare, senza permessi, copie non autorizzate, foto e / raffigurazioni del lavoro come rivestimento in decine di ristornati in Europa e Asia». Neanche un mese dopo il writer, che lavora prevalentemente a Los Angeles, ha rinunciato alla causa rifiutando ogni commento sulla vicenda: non è noto se abbia raggiunto un accordo di qualche tipo con la catena.

Il caso Elena Ferrante tra diritto all'anonimato e Privacy.

“Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona”. 

Così scrive nell'opera autobiografica intitolata La Frantumaglia, la celebre e misteriosa Elena Ferrante di cui oggi – pare - sia stata svelata l’identità. 

L’autrice dei libri divenuti best seller è, secondo la recente inchiesta del Sole 24Ore, Anita Raja, traduttrice nata a Napoli e residente a Roma, la cui madre era un’ebrea polacca sfuggita all’Olocausto. Il giallo sulla verità di Elena Ferrante sarebbe dunque stato risolto, realizzando così il (legittimo?) desiderio di milioni di lettori che da anni vogliono conoscere il nome e la persona che si cela dietro il famoso pseudonimo.

Ci si domanda in primo luogo se l’inchiesta abbia  violato il diritto allo pseudonimo. Questo infatti oltre ad essere, al pari del nome, può essere utilizzato come strumento per occultare la propria vera identità, e quindi come espressione del diritto alla riservatezza. 

Secondo il dettato del codice civile, lo pseudonimo è un nome diverso da quello attribuito per legge; può però essere tutelato alla pari del diritto al nome purché abbia acquistato l'importanza del nome stesso, od assolva alla stessa funzione di identificazione sociale Qualora vi sia un tale presupposto (si pensi agli pseudonimi degli scrittori, o degli attori che ricorrano a nomi d'arte pressoché più noti del nome proprio) il soggetto che lo usi potrà far valere l'azione inibitoria contro l'uso indebito, chiedendo al giudice la cessazione dell'utilizzo illegittimo dello pseudonimo, sempre salvo il risarcimento dei danni.

Ma questo non sembra essere il caso. Infatti l’inchiesta giornalistica de Il Sole 24 Ore, più che mettere in atto una appropriazione dello pseudonimo della famosa scrittrice, sembra aver violato il diritto della stessa all’anonimato. 

Nell'ordinamento giuridico Italiano non esiste, tuttavia, un diritto generale di anonimato.  

Potrebbe mai Elena Ferrante, la quale ha sempre detto di non voler far conoscere la sua vera identità invocare una più generica violazione della Privacy?; diritto che, come è noto, viene sempre più spesso negato ai personaggi pubblici.

Prima della  entrata in vigore della Legge sulla privacy, la fonte del c.d. right to be left alone era costituita da una sentenza della Corte di Cassazione del 1975, che identificava tale diritto nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l'onore, la reputazione o il decoro, non sono giustificati da interessi pubblici preminenti. 


Col tempo la Giurisprudenza aveva precisato che  chi sceglieva la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presumeva rinunciare a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlato alla sua dimensione pubblica.

La linea di demarcazione tra il diritto alla riservatezza e il diritto all'informazione di terzi sembrava quindi essere la popolarità del soggetto. Tuttavia, anche soggetti molto popolari conservano tale diritto, limitatamente a fatti che non hanno niente a che vedere con i motivi della propria popolarità.

Il rapporto fra diritto di cronaca e privacy è molto complesso ed è regolato da una serie di norme, stratificatesi nel tempo, che hanno cercato di stabilire un corretto compromesso fra i diversi interessi messi in campo.

Ci sono norme volte a proteggere la privacy dei cittadini alle quali i giornalisti devono attenersi durante l'adempimento del proprio lavoro.

La legge n.675 del 1996 sulla protezione dei dati personali, confluita poi nel “Codice in materia di protezione dei dati personali” (d.lgs. n.196 del 30 giugno 2003), ha dato vita ad un articolato sistema di bilanciamento dei diritti contrapposti attraverso la previsione di una pluralità di mezzi giuridici: criteri per il bilanciamento, procedure per realizzarlo, strumenti giurisdizionali.

Il quadro normativo attuale prevede un meccanismo di garanzia diversamente articolato a seconda della natura dei dati.

Ricordiamo, brevemente, che l’utilizzazione dei dati personali è possibile qualora vengano rispettate tre condizioni:

-    l’utilizzazione deve avvenire nell’esercizio di un’attività riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero;
-    i dati personali debbono essere relativi a fatti di interesse pubblico;
-    la diffusione deve avvenire “entro limiti essenziali”, cioè non deve eccedere l’intento informativo, inserendo informazioni non strettamente necessarie.

L’inchiesta sulla vera identità di Elena Ferrante non è ancora stata né confermata né smentita con chiarezza. Se sia davvero Anita Raja è quindi ancora un mistero.