Gli effetti della Brexit sul Marchio Comunitario.

Con referendum dello scorso 23 giugno, i cittadini del Regno Unito,  hanno deciso di porre fine alla loro adesione all'UE.
Ovviamente tale decisione avrà impatto anche nel mondo della proprietà intellettuale dove il Regno Unito riveste un importante ruolo centrale nella UE. 
Il processo come è noto durerà un paio d’anni e ciò signfica che i marchi dell'Unione europea avranno ancora efficacia nel Regno Unito almeno fino a giugno 2018, forse più a lungo.
I diritti dell’Unione Europea, come i design ed i  marchi, dovrebbero terminare di avere efficacia  nel Regno Unito e forse verrà creato un meccanismo per convertire la tutela di tali diritti in diritti britannici. 
Allo stato non si possono fare veramente delle previsioni sugli effetti e sulla durata del processo. Servirà comunque del tempo per verificare la portata di questo evento che, in ogni caso, è destinato a cambiare  la geografia europea della proprietà intellettuale.

 

 

Aquazzura vs. Trump. S(c)andalo nel mondo della moda.

Aquazzura è una maison fondata nel 2011 a Firenze dal designer colombiano Edgardo Osorio che produce scarpe per donne ed ha recentemente intentato una causa per contraffazione contro Ivanka Trump e il suo licenziatario, Marc Fisher, con l'accusa di copiare il design della "Wild Thing Shoe" un best seller della società fiorentina basandosi, inter alia sulla tutela prevista dall’istituto del trade dress.

Oltre alla protezione prevista dal diritto d’autore e dal marchio, la normativa americana prevede la protezione del c.d. trade dress. Il trade dress è un istituto americano di elaborazione giurisprudenziale in quanto non previsto dal Lehman Act. Le Corti lo hanno definito come un insieme di caratteristiche di una confezione o prodotto, che possono comprendere le dimensioni, la forma, il colore, il posizionamento, l’etichetta, la grafica.

La protezione di un prodotto/servizio attraverso l’istituto del trade dress presuppone due caratteristiche che possono alternativamente sussistere:

  • capacità distintiva intrinseca (piuttosto rara);
  • capacità distintiva acquisita nel tempo grazie ad un uso intenso sul mercato.
  • il marchio è intrinsecamente distintivo se per la sua natura intrinseca è idoneo ad identificare la provenienza aziendale (caso Wal-Mart, cit. Two Pesos, Inc. v. Taco Cabana, Inc., 505 Stati Uniti 763, 768 (1992).

La causa è attualmente pendente davanti alla corte federale del Southern District of New York. 

L'uso degli hashtags ed i diritti di marchio del CIO.

Il Comitato Olimpico Americano  (USCO) sta cercando di prevenire ad alcune aziende l’utilizzo degli hashtag ufficiali, come #TeamUSA e # Rio2016 su Twitter.Nelle ultime settimane, l'USOC ha inviato alcune lettere ad aziende sponsor di atleti (che non sono sponsor ufficiali dei giochi), contestando la violazione dei diritti di marchio di proprietà del USCO per il solo fatto di far riferimento a #Rio2016.
In una di queste lettere, scritte dall’USOC, si afferma: “le aziende non possono postare commenti sui  Giochi tramite i loro account social media aziendali. Questa restrizione include l'uso di marchi di proprietà dell’USOC “# Rio2016” e “#TeamUSA”.


L'approccio (alquanto rigido) mira a proteggere sponsor - come Coca Cola, McDonald, GE, P & G, Visa e Samsung - che hanno investito rilevanti somme per farsi accreditare come sponsor ufficiali della nota manifestazione sportiva. 


Negli Stati Uniti è possibile depositare un hashtag come marchio d’impresa sin dal 2013 ma l’applicazione del diritto dei marchi a tali segni distintivi può in alcuni casi rivelarsi poco efficace  per proteggere un segno distintivo contrassegnato dal segno del “cancelletto”.


Infatti violazione di un marchio si verifica quando una parte utilizza un marchio allo scopo di confondere il pubblico in relazione all’origina di un prodotto o di un servizio commercializzato.

Tuttavia, non è detto che ogni volta che si utilizza un hashtag ciò avvenga con il preciso scopo di distinguere un prodotto o un servizio da quello di un concorrente. Infatti ciò può avvenire al solo scopo di effettuare delle dichiarazioni all’interno di un forum. Del resto in quale altro modo si può indicare che si sta parlando delle Olimpiadi di Rio del 2016 senza scrivere # Rio2016?

 

Usi Instagram?

Usi Instagram?

Instagram, così come altre applicazioni di condivisione di immagini, deve ricevere il consenso dai suoi utenti di poter legittimamente mostrare le loro immagini online, altrimenti violerebbe il loro diritto d’autore. Ovvio no? Forse, ma c’è dell’altro...

1.    L’utente garantisce una Licenza

“Instagram NON rivendica alcuna titolarità su testi, file, immagini, foto, video, suoni, opere musicali, opere d’autore, applicazioni o altri materiali (collettivamente definiti come “Contenuto”) che l’utente posta su o tramite Instagram. Mostrando o pubblicando (“postando”) qualsiasi Contenuto su Instagram, l’utente garantisce a Instagram una licenza universale, non esclusiva e libera da qualsiasi onere o diritto, di utilizzare, modificare, cancellare, aggiungere, produrre e mostrare pubblicamente, riprodurre e tradurre tale Contenuto, inclusa, senza limitazione alcuna, la distribuzione di tutto o parte del Sito in qualsiasi formato digitale tramite qualsiasi canale...”

Questo vuol dire che sei ancora il titolare delle tue fotografie? In teoria sì, ma loro possono usarle quando e come vogliono. Per il momento, usano le foto degli utenti per finalità apparentemente innocue, come post di blog e simili, cosicchè sembrerebbe vero il fatto che le possibilità che Instagram utilizzi il Contenuto degli utenti per scopi di lucro non siano così alte. Quella clausola, comunque, è ancora lì. Senza contare il fatto che se sei su Instagram, tu di fatto l’hai già accettata.

2.    A meno che il tuo account non sia impostato su “Privato”

“...solo il Contenuto non condiviso pubblicamente (“privato”) non verrà distribuito al di fuori di Instagram.”

Ottimo! Ma se invece usi Instagram per avere sempre più seguaci (“followers”)?

3.    Dichiarazione e garanzie...

“L’utente dichiara e garantisce che (i) è il titolare del Contenuto da lui postato su o tramite Instagram o comunque possiede il diritto di concedere la licenza di cui alla presente sezione, (ii) la pubblicazione e l’uso del suo Contenuto non viola diritti di privacy, pubblicità, d’autore, diritti contrattuali, di proprietà intellettuale o altri diritti di qualsiasi persona, e (iii) la pubblicazione del suo Contenuto sul Sito non costituisce violazione di alcun contratto tra lui e terzi. L’utente accetta di pagare qualsiasi royalty, tassa o altra somma di denaro dovuta a qualsiasi persona in ragione del Contenuto che pubblicizza su o tramite Instagram.”

In altre parole, non prendere alcuna foto da Internet per poi pubblicizzarla (“postarla”) su Instagram.

4.    Vuoi rileggere l’ultima frase di quella clausola? Ahia.

“L’utente accetta di pagare qualsiasi royalty, tassa o altra somma di denaro dovuta a qualsiasi persona in ragione del Contenuto che pubblicizza su o tramite Instagram.”

In altre parole, i gestori di Instagram hanno le spalle coperte. Loro non pagheranno un centesimo se sei nei guai. Questo è il motivo per il quale è meglio non essere citati in giudizio (a parte questo, per altre ovvie ragioni). Se la persona fisica o giuridica che ti cita decide di chiamare in causa anche Instagram (cosa che probabilmente farà visto che è il suo servizio che hai utilizzato), sulla base di questa clausola, potresti trovarti a pagare il tuo avvocato E l’avvocato di Instagram. Tutto ciò, in aggiunta al risarcimento dei danni che hai causato per aver infranto i diritti d’autore. Ahia? AHIA.

A parte questo... Instagram è grandioso!

The Song does not Remain the Same.

I Led Zeppelin hanno vinto la causa per plagio di "Stairway To Hevean", forse la loro canzone più celebre. Una giuria del Tribunale Federale di Los Angeles ha stabilito che gli eredi di Randy California  non  sono stati in grado di provare il plagio della canzone "Taurus" composta nel 1968 dagli Spirit. 
L'azione legale era iniziata nel 2014 e secondo gli attori, i Led Zeppelin erano a conoscenza della canzone "Taurus" che avrebbero successivamente copiato e pubblicato nel loro celebre album IV. Il brano Taurus è invece precedentemente apparso sull'album di debutto omonimo del 1968 degli Spirit.
La giuria della corte federale, pur confermando che il fatto che Jimmy Page e Robert Plant erano a conoscenza del riff del brano "Taurus" già nel 1967, ha convenuto sull'insussistenza di un plagio totale o parziale da parte della rock band britannica.

Continua la battiglia tra Soundreef e la SIAE

Con un provvedimento dello scorso 27 maggio il Tribunale di Milano ha sospeso l’esecuzione promossa dalla SIAE contro una società cliente della Soundreef rea, a dire della stessa SIAE, di aver corrisposto le royalties per la diffusione da musica d’ambiente alla collecting society inglese.  

Nel procedimento Soundreef è intervenuta per sostenere le ragioni del proprio cliente argomentando la piena legittimità dell’attività di intermediazione svolta in Italia per i diritti sulla musica diffusa all’interno di un esercizio commerciale, mentre al contrario, secondo SIAE la collecting society inglese non disponesse di alcun mandato per l’intermediazione di tali diritti.

Con il provvedimento reso il Giudice – sulla base degli atti di causa – ha ritenuto, per il momento, fondata la tesi di Soundreef ed ha pertanto respinto il ricorso della SIAE in attesa della definizione del giudizio di merito.

SIAE, secondo il Tribunale di Milano, non avrebbe, infatti, sin qui provato di disporre di alcun mandato ad intermediare i diritti d’autore sulle opere utilizzate dall’esercizio commerciale in questione e, in ogni caso, non sembrerebbe avere alcun diritto ad addebitare le penali pure richieste all’utilizzatore.

Resta da comprendere il futuro di Soundreef alla luce del recente esito del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Una volta completato il processo di uscita dall’Unione Europea, Soundreef che ha sede a Londra, non potrebbe in linea di principio più invocare la diretta applicazione della direttivaBarnier (EU 2014/26).

 

 

Come riviltalizzare un marchio decaduto.

Ultimamente è possibile notare la tendenza di alcune cui start-up che provvedono a ridepositare  marchi caduti in disuso per cercare di dare loro nuova vita. Proprio di recente il marchio della celebre  maison “Paul Poiret” è stato recentemente messo in vendita dai suoi proprietari dopo essere stato dormiente per circa 80 anni.

Nei campi della moda, dell’orologeria, dei dolciumi e del tabacco, alcune aziende hanno recentemente provato a rivitalizzare marchi caduti in disuso ma ancora presenti nell’immaginario collettivo.
Rilanciare un marchio può far risparmiare milioni di dollari in costi di marketing che possono essere utilizzati per altri investimenti. 

In realtà, esiste un vero e proprio market place per l’acquisto di vecchi marchi, ma non è sempre necessario acquistare un marchio per ottenere i diritti di privativa. 

Il primo passo per far rivivere un vecchio marchio è quello di indagare la titolarità dei diritti ed il suo uso effettivo conducendo una ricerca di anteriorità. Infatti è bene sapere che i diritti concessi da un marchio decadono se il segno distintivo  non viene utilizzato entro cinque anni dalla sua registrazione. 

Se il marchio è stato utilizzato di recente o il marchio non è ancora decaduto, si può considerare di contattare il titolare del marchio per informarsi sulla eventuale disponibilità e offerta di acquistarlo insieme con qualsiasi altra proprietà intellettuale potrebbe essere necessario portare il prodotto torna alla vita.

Se il marchio invece è decaduto, allora si potrà procedere, con le opportune cautele, al nuovo deposito.

L'uso del patronimico dopo la cessione del marchio. Il caso Fiorucci

Recentemente la Corte di Cassazione ha emesso un interessante sentenza sull’uso del patronimico come marchio, che può avere rilevanti conseguenze nel modo del design e della moda. Come è noto molti marchi in questo settore industriale s’identificano con il nome del fondatore ed al riguardo basti ricordare brand come Calvin Klein, Giorgio Armani, Valentino che in questo ultimo caso ha visto il fondatore della maison uscire dal capitale alla fine degli anni 90.

Orbene è spesso accaduto che l’uso del patronimico da parte del fondatore successivamente dalla cessione dell’azienda fosse dalla giurisprudenza considerato lecito in quanto usato in maniera puramente descrittiva del nome dello stilista e non in maniera distintiva.

Pertanto, dopo la cessione del marchio Fiorucci avvenuta nel 1990 da parte di Elio Fiorucci al gruppo giapponese Edwin International pareva pacifico che la creazione di un nuovo marchio denominato Love Therapy by Elio Fiorucci fosse assolutamente lecito in quanto riferibile ad una mera paternità stilistica.

Con la recentissima sentenza la Corte di Cassazione ha stabilito che l’uso dell’uso del patronimico, nel caso di cessione di marchio crea un agganciamento che interferisce con l’uso del segno ceduto assurgendo, il patronimico ad un marchio di fatto.

Resta da comprendere come si possa parlare di agganciamento quando tra la cessione del marchio Fiorucci avvenuta nel 1990 e il lancio del progetto Love Therapy by Elio Fiorucci sono passati oltre 13 anni ed il celebre negozio di San Babila aveva chiuso i battenti proprio nel 2003. 

International Legal Challenges facing the fashion industry. Milano, 8 giugno 2016.

Abbiamo il piacere di informarvi che Tsclex e lo studio legale statunitense Kramer Levin & Naftalis (www.kramerlevin.com), insieme con il patrocinio della Camera Italiana Buyer Moda, terranno un seminario sugli aspetti legali e alle sfide che la moda Industria sta attualmente affrontando, in particolare per quanto riguarda i diritti di proprietà intellettuale.

Il seminario sarà composto da due pannelli. Il primo dedicato alla gestione e la protezione dei marchi, mentre il secondo è dedicato alle operazioni straordinarie nel settore della moda.

L'incontro avrà luogo nel pomeriggio dell'8 giugno ai Chiostri dell'Umanitaria, che si trova alle spalle del Tribunale, in un convento del XV secolo, e non lontano da Piazza Duomo.

Il Bolero di Ravel diventa di pubblico dominio.

Il 1 maggio 2016 una delle opere musicali più rappresentate al mondo, il Bolero di Maurice Ravel, è caduta il in pubblico dominio quasi cento anni dopo la sua prima rappresentazione a Parigi. 

Composta nel 1928 ed eseguita per la prima volta il 22 novembre dello stesso anno all’Opera Garnier, l’opera fu commissionata dalla ballerina russa Ida Rubinstein, amica e mecenate di Ravel. In quasi 90 anni l’opera è stata eseguita dalle orchestre più prestigiose del mondo, sotto la direzione dei più grandi direttori: da Toscanini, ad Abbado, da Muti a Boulez. Ha anche ispirato moltissime coreografie, la più famosa delle quali è probabilmente quella di Maurice Béjart rappresentata nel 1961.

Fino al 1994 il Bolero è rimasto al primo posto della classifica mondiale del diritto d'autore e si stima che la sola opera tra il 1960 ed oggi abbia generato oltre 50 milioni di euro di diritti d’autore. 

La notorietà dell’opera ed i lauti incassi dei relativi diritti d’autore hanno causato, alla morte del fratello di Ravel Edouard nel 1960, una lunga contesa successoria tra la massaggiatrice Edouard Ravel, Jeanne Taverne, il suo autista marito e factotum, Alexander, i pronipoti del compositore ed un direttore legale della Sacem, la collecting society francese. 

Patent Box. Quali opportunità per le imprese?

Con la Legge di Stabilità 2015, nei commi da 37 a 45 si è introdotto anche in Italia il regime opzionale del c.d. “Patent Box” che consiste nella tassazione agevolata per i redditi derivanti dall'utilizzo e/o dalla cessione di “opere dell’ingegno, da brevetti industriali, da marchi, nonché da processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili”.

Rispetto al Patent Box adottato negli altri paesi Europei,  il Legislatore italiano ha di fatto esteso l’applicazione del regime opzionale a tutti gli intangibles e quindi anche al know how e al software.

A chi è rivolto

Il Patent Box è rivolto a tutti i titolari di reddito d’impresa, a prescindere da forma giuridica, dimensioni e regime contabile. Possono inoltre usufruirne le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trusts, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato, a condizione di essere residenti in Paesi con i quali è in vigore un accordo per evitare la doppia imposizione e con i quali lo scambio di informazioni sia effettivo.

Potranno dunque fruire dell’agevolazione:

  • società di capitali;
  • società  di persone;
  • imprenditori individuali;
  • stabili organizzazioni italiane di soggetti residenti in Paesi white list.

Sono escluse le società semplici, associazioni professionali ed imprese assoggettate a procedure concorsuali

Cosa riguarda

L’agevolazione riguarda i redditi derivanti dall'utilizzo e/o dalla cessione di “opere dell’ingegno, da brevetti industriali, da marchi, disegni e modelli nonché da processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili”. Il Patent Box si applica dunque a:

  • Software;
  • Brevetti concessi o in corso di concessione;
  • Marchi registrati o in corso di domanda;
  • Disegni e Modelli;
  • Know How.

Da quando decorre

Il nuovo regime opzionale si applica dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014. Per usufruire dell’agevolazione, efficace dal 2015, sarà necessario esercitare apposita opzione. L’opzione, esercitabile dal 2015, è irrevocabile ed è valida per 5 anni. È valevole anche ai fini IRAP.

A quanto ammonta la detassazione.

La quota di reddito e del valore della produzione (l’opzione per il regime di tassazione agevolata dei redditi derivanti dall'utilizzo dei beni immateriali rileva, oltre che per la determinazione del reddito ai fini delle imposte sui redditi, anche ai fini IRAP) che può essere oggetto di agevolazione, è definita in base al rapporto tra i costi di attività di ricerca e sviluppo sostenuti per il mantenimento, l’accrescimento e lo sviluppo del bene immateriale eleggibile (c.d. costi qualificati) e i costi complessivi sostenuti per produrre tale bene.

Nel D.L. approvato nel CDM del 20.01.2015 si prevede la possibilità di comprendete nei costi di attività di ricerca e sviluppo i costi di acquisto del bene immateriale agevolabile, nonché eventuali costi di ricerca relativi a contratti stipulati con società facenti parte del gruppo con un tetto massimo del 30% delle stesse.

Cosa offriamo

Il nostro studio è in grado di affiancare il fiscalista dell’azienda per le svolgere le seguenti attività allo scopo di ottenere i benefici futuri del Patent Box:

  • Redazione di pareri legali sulla valenza degli assets di IP soggetti a Patent Box;
  • Pianificazione ed impostazione del portafoglio dei propri assests di IP;
  • Registrazione di Marchi, Software ed individuazione del Know How aziendale allo scopo di rafforzare il portafoglio degli intangibiles;
  • Collaborazione con il fiscalista nel processo di Ruling. 

 

Adidas, il marchio con (due) o tre strisce.

Di recente la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha deciso in favore di Adidas a seguito della sua opposizione alla domanda di registrazione di un marchio comunitario presentata dalla Shoe Branding Euorpe.

Shoe Branding Europe ha richiesto la registrazione di un marchio raffigurante due strisce, alla quale si è opposta la famosa azienda tedesca produttrice di scarpe.

Inizialmente l’opposizione fu rigettata sia dalla Divisione Opposizione dell’UAMI che dalla Commissione di ricorso, entrambe sostenendo che il marchio a tre strisce dell’Adidas potesse godere di tutela soltanto contro imitazioni identiche o affini e che, nel caso in esame, vi fossero differenze sufficienti per escludere un rischio di confusione per il pubblico (in particolare il numero delle strisce, l’inclinazione e la posizione). Adidas presentò con successo ricorso alla Corte Generale, la quale ritenne che la Commissione avesse sbagliato ad affermare che i marchi erano tra loro diversi e che, essendo Adidas rinomata per il marchio a tre strisce parallele, questo fosse sufficiente a determinare un rischio di confusione per il pubblico e un’ipotesi di contraffazione del marchio.

Shoe Branding ha proposto ricorso alla CGUE, la quale ha confermato per intero la decisione della Corte Generale, affermando che le differenze tra i due marchi erano di scarsa rilevanza e che “la differenza tra due e tre strisce raffigurate su una scarpa non è sufficiente ad intaccare le somiglianze derivanti dalla rappresentazione dei segni in questione e dalla loro posizione sul lato della scarpa”. La CGUE ha ritenuto che le lievi differenze tra i marchi in questione non fossero tali da attrarre l’attenzione di un consumatore medio e da influenzare l’impressione generale prodotta dai marchi, considerando la presenza sul mercato di numerose strisce inclinate sul lato della scarpa. 

Design non registrato. Un'interessante pronuncia del Tribunale di Milano.

Alla fine di febbraio, la sezione specializzata del tribunale di Milano ha reso una interessante pronuncia sulla protezione design non registrato nel campo del tessile.
La causa è stata avviata da un noto cotonificio italiano storica specializzato nella produzione di tessuti per camicie di alta gamma contro un concorrente italiano accusato di aver copiato ben 54 prototipi di tessuti originali creati dall'attore.
Il Tribunale di Milano ha rilevato che ai tessuti non registrati deve essere effettivamente concessa protezione ai sensi del regolamento CE n. 6/2002, anche considerando che il convenuto non ha nel caso di specie mai fornito prove sufficienti della mancanza di novità e del carattere individuale del design in questione.
E' utile ricordare che ad un design non registrato è concessa protezione se nuovo e se possiede un carattere individuale. Per essere nuovo, il design deve differire dai design precedenti per dettagli “irrilevanti”. 
Si considera che un disegno o modello presenti un carattere individuale se l'impressione generale che suscita nell'utilizzatore informato differisce in modo significativo dall'impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno o modello che sia stato divulgato al pubblico.
Da ultimo si segnala che il Tribunale ha anche rilevato che la condotta del convenuto ha violato le regole di concorrenza ex art 2598 c.c. in quanto la contraffazione dei modelli, sottraendo ingenti investimenti di ricerca e sviluppo dell’attore, aveva di fatto permesso al convenuto di entrare nel mercato ad un costo ridotto.

 

Il tribunale di Napoli si pronuncia s'un marchio di hamburger.

Napoli sarà anche la capitale della pizza, ma di recente la sezione specializzata del tribunale capoluogo campano è stata chiamata ad esprimersi su un marchio di hamburgers e sul carattere distintivo della parola "Ham" che identifica una catena in franchising di panini. Il ricorrente, titolare del marchio "Ham Holy Burger" e del nome a dominio corrispondente ha contestato l’utilizzo da parte di un concorrente del marchio “Ham” per la vendita di carni attraverso il sito web "ham-burger.it ".

La resistente ha argomentato che il segno era comunque oggetto di una sua domanda di marchio e che comunque il marchio "Ham Holy Burger" era descrittivo e quindi debole e, in ogni caso, che non vi era alcun rischio di confusione tra i segni.  Il Tribunale ha stabilito che la parola "Ham" è largamente conosciuta dal grande pubblico italiano - anche da quella parte della popolazione la parte che non ha familiarità con la lingua inglese - in quanto costituisce la prima parte della parola "hamburger", termine comunemente usato nella lingua italiana per indicare una polpetta di manzo pressata. Il termine "ham", in altre parole, per la maggior parte dei consumatori non indicherebbe tanto un taglio di carne di maiale (per chi conosce inglese), ma piuttosto, l’hamburger. Pertanto, al marchio "Ham Holy Burger", non può non essere concessa alcuna protezione.

La nuova bottiglia della coca cola non può essere protetta come marchio comunitario.

I giudici della Corte di Giustizia Europea hanno recentemente messo la parola fine alla registrazione della nuova versione della bottiglia della Coca-Cola come marchio tridimensionale comunitario in quanto la stesa sarebbe priva di carattere distintivo. 
Il caso era iniziato nel 2014 con una prima bocciatura dagli esaminatori. 
I legali della nota società di Atlanta hanno invano cercato di convincere i giudici della Corte a Lussemburgo che i consumatori avrebbero percepito la nuova bottiglia  come la "naturale evoluzione" della prima forma della confezione della bibita già apprezzata da designer e artisti come Andy Warhol a Salvador Dalì.
In vero la Corte ha stabilito che la forma è in sostanza una bottiglia simile alla maggior parte delle bottiglie presenti sul mercato." E 'una mera variante della forma e la confezione di tali prodotti, che non consente al consumatore medio di distinguere questa forma da altre bottiglie. È noto che i marchi tridimensionali non sono facili da ottenere ed i giudici della Unione Europea in passato hanno stabilito che i marchi tridimensionali devono avere una forma dotata di carattere distintivo per se sufficiente affinché il consumatore possa distinguere o percepire in essi l’indizio di una indicazione d’origine  piuttosto che la rappresentazione o essenza stessa del prodotto.  

 

Il pagamento del compenso a SCF per la musica diffusa negli studi professionali

La Cassazione con ordinanza 8 febbraio 2016, n. 2468, ha stabilito che gli studi professionali, non sono obbligati a corrispondere ai titolari dei diritti, il compenso ex artt. 73 e 73-bis della legge sul diritto d’autore. La Corte ha affrontato il caso in cui la Scf – Società Consortile Fonografi (di seguito, solo SCF), che svolge attività di collecting, in Italia e all’estero, quale mandataria per la gestione, l’incasso e la ripartizione dei diritti dei produttori fonografi consorziati, aveva citato in giudizio uno Studio medico odontoiatrico sostenendo che la diffusione, in sottofondo, di fonogrammi oggetto di privativa, costituisce comunicazione al pubblico ai sensi della legge italiana sul diritto d’autore, nonché del diritto internazionale uniforme a quello comunitario, ed era soggetta alla corresponsione di un equo compenso, da liquidarsi in separato giudizio. In pratica secondo la SCF, gli Studi professionali dovevano pagare il diritto d’autore. 
La Cassazione ha invece stabilito l’opposto. Si tratta di un ordinanza particolarmente importante per il concetto di diritto di comunicazione al pubblico che fa scattare l’obbligo di pagare il diritto d’autore, considerando anche il fatto che la SCF era stata vittoriosa sia in primo che in secondo grado di fronte al Tribunale di Milano. La Corte  ha dunque stabilito che la nozione di pubblico cui fa riferimento l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 sul diritto d’autore, riguarda un numero indeterminato di destinatari potenziali e comprende, peraltro, un numero di persone piuttosto considerevole (sentenza della Corte di Giustizia ITV Broadcasting).
Tale concetto non può appunto applicarsi ad uno Studio professionale come quello odontoiatrico. Il Supremo Collegio ha anche precisato il ruolo delle sentenze della Corte di Giustizia nel nostro ordinamento  sostenendo che tali sentenze hanno il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso  che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità. 
Da questo punto di vista la Corte ha anche rigettato, in modo estremamente netto, le istanze di violazioni costituzionali articolate dalla SCF e la possibilità di rivolgersi alla Corte di Giustizia, ritenendole manifestamente infondate, condannando anche la società consortile al pagamento delle spese legali.

Il Ritorno del Co.coco nel Job's Act

Con il Jobs Act, nell’ambito dell’ampia riforma del mercato del lavoro, il legislatore ha espressamente abrogato la disciplina del contratto di collaborazione a progetto; di contro, può farsi ricorso, come nell’epoca che ha preceduto la legge Biagi, alle collaborazioni coordinate e continuative.
Ampia autonomia formale e sostanziale riservata alle parti nel determinare l’oggetto, i termini e le condizioni contrattuali: l’assenza di vincoli formali consente di stipulare il contratto anche senza la forma scritta (sebbene raro e poco preferibile) o di stipulare contratti di collaborazione a tempo determinato così come a tempo indeterminato; la libertà negoziale permette di avvalersi delle collaborazioni anche per attività relative al core business dell’azienda.
L’insidia si concentra nelle modalità di esecuzione della prestazione: è il collaboratore che decide dove, come e quando svolgere il proprio lavoro; solo garantendo tale libertà organizzativa il rapporto può dirsi genuinamente di collaborazione.
In mancanza di questa autonomia, salvo i casi tassativamente previsti, si applicherà la disciplina del lavoro subordinato.
E’ possibile rivolgersi ad apposite commissioni appositamente istituite affinché venga certificata ex ante, sulla base del testo contrattuale, la natura del rapporto; ciò non esclude, in ogni caso, che in altra sede possa accertarsi che, di fatto, il rapporto abbia assunto vesti diverse da quanto negoziato e certificato.
E’ inoltre possibile, dal 01 gennaio 2016, ricorrere ad una particolare forma di “sanatoria”: le aziende -attraverso la “stabilizzazione” dei lavoratorio dei soggetti titolari di partita i.v.a., già parti di contratti di collaborazione o di rapporti di lavoro autonomo- possono godere della “estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro”.
Per usufruirne, occorre preliminarmente sottoscrivere un verbale di conciliazione in una delle sedi “protette” e,  nei dodici mesi successivi all’assunzione, i datori di lavoro non potranno recedere dal rapporto, se non per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. 

Roberta Rispoli - roberta.rispoli@tsclex.com