Supreme citata in giudizio per violazione di copyright.

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Pochi giorni fa ASAT Outdoors LLC, azienda di abbigliamento e moda con sede a Stevensville in Montana, ha citato in giudizio, difronte al tribunale federale di New York, la Supreme Chapter 4 Corp.  con l’accusa di aver violato il copyright della propria stampa mimetica. A tal riguardo, infatti, ASAT ha rimproverato Supreme di aver “riprodotto ed esposto al pubblico senza alcuna autorizzazione” il proprio disegno mimetico, protetto da copyright, utilizzandolo come stampa su una serie di giacche, maglioni, pantaloni cargo e cappellini messi in vendita su siti internet e presso negozi.

La società di abbigliamento con sede nel Montana, infatti, ha sostenuto di non aver mai concesso in licenza il disegno a Supreme né tantomeno di averle dato il permesso o consenso di usare o vendere il “camo” sui propri capi di abbigliamento, quali, ad esempio, giacche “da lavoro” da 218 dollari e pantaloni cargo da 145 dollari.

ASAT, inoltre, ha accusato Supreme di aver intenzionalmente e deliberatamente “violato il suo diritto esclusivo, come titolare del copyright, di riprodurre, copiare, mostrare e fare opere derivate - cioè, opere basate su o derivate da un'opera esistente protetta da copyright - della stampa mimetica protetta” in totale violazione delle leggi federali sul copyright.

A tal proposito, infatti, ASAT ha chiesto all’organo giudicante di condannare Supreme al risarcimento di tutti i danni, inclusi ma non limitati a qualsiasi profitto che Supreme stessa ha ottenuto dall'illecito uso della grafica camo o, in alternativa, a seconda di quale sia l’importo maggiore, “al risarcimento dei danni legali fino a $150.000 per ogni opera violata nel caso di violazione intenzionale del design”.

Dall’analisi del summenzionato caso, ciò che appare particolarmente interessante è che ASAT, nel tutelare il proprio diritto di proprietà intellettuale, abbia agito per rivendicare la propria titolarità sul design e non sul marchio.

Tale strategia appare curiosa in quanto la società del Montana avrebbe avuto tutti i poteri per dimostrare che i consumatori collegano la sua specifica stampa mimetica - una stampa che appare come se potesse essere in qualche modo distintiva rispetto ad altri tipi di mimetismo presenti sul mercato - con la ASAT Outdoors LLC.

Si aggiunga, inoltre, che quello tra ASAT e Supreme non è stato il primo caso che portato all’attenzione il settore delle stampe mimetiche.

Nel marzo 2018, infatti, la Jordan Outdoor Enterprises ("JOE") ha citato in giudizio difronte al tribunale federale della Georgia la Kanye West's Yeezy LLC con l’accusa di aver utilizzato, su una pluralità di capi ed accessori della Yeezy Season 5, alcune delle sue stampe mimetiche protette da copyright. Ad ogni modo, in questo caso la controversia è stata risolta nel settembre 2018 dopo che Yeezy e JOE sono giunti ad "un accordo separato per risolvere i reclami e le relative spese legali".

Come il turchese di Tiffany è diventato un marchio di colore.

Gianpaolo Todisco - Partner

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Nel corso degli anni, i tribunali di tutto il mondo hanno assistito a controversie aventi ad oggetto le più svariate rivendicazioni in materia di proprietà intellettuale. Tra le stesse rivestono e hanno rivestito particolare importanza quelle riguardanti le diverse tonalità di “colore”.

Diversi brand, come ad esempio T-Mobile (magenta) e UPS (marrone scuro), hanno registrato i propri colori a riprova della loro potenza nel fidelizzare i clienti e nel comunicare l'ethos di un'azienda.

Ad ogni modo, di tutte queste rivendicazioni cromaticamente orientate, è il gioielliere e rivenditore Tiffany & Co. che ha reso un'unica tonalità di blu sinonimo di lusso.

Nel 1837, Charles Lewis Tiffany e John B. Young aprirono il primo negozio Tiffany & Young a Lower Manhattan, proprio di fronte al City Hall Park.

Prima ancora che il marchio diventasse un importante fornitore di argento, il negozio si occupava della vendita di articoli di cancelleria ed altri prodotti di alta gamma e l'ormai iconico Blue Book, pubblicato per la prima volta nel 1845, presentava già una copertina blu che aveva una tonalità più verde rispetto a quella dell'uovo del pettirosso che oggi associamo al brand. Nel corso degli anni, fino a giungere al secolo successivo, il Blue Book variò di tonalità fino al 1966 circa, quando l'azienda adottò un colore vicino al Tiffany Blue.

E’ difficile individuare il momento esatto in cui il turchese sia iniziato ad essere associato all'azienda. Non si conosce nemmeno l’esatta ragione per cui i fondatori si siano accordati su quella particolare tonalità.

Tuttavia, si ha evidenza del fatto che già nel 1889, l'azienda avesse utilizzato il colore nell'Esposizione Universale di Parigi a dimostrazione del fatto che già a quell'epoca, anche in America, il turchese era una pietra preziosa.

Questa non è un’azione banale, anzi, la scatola blu "è molto probabilmente il contenitore di vendita al dettaglio più riconoscibile e più desiderato della storia". Charles Lewis, infatti, si è sempre rifiutato di vendere le scatole da sole sostenendo che quest’ultime fossero un vero e proprio simbolo - “non si può ricevere uno dei simboli più significativi dell'amore e dell'impegno senza la scatola di Tiffany”.

D’altronde, è con l’avvento del 1998 che Tiffany & Co. ha finalmente registrato il suo colore e il suo packaging e tre anni dopo, inoltre, il brand ha collaborato con Pantone per dare vita alla sua personale tonalità, la "1837 Blue", in memoria del suo anno di fondazione.

Uno dei punti forti di Tiffany è quello di non dover aggiornare le sue strategie di branding per mantenere il suo fascino. Come ha sottolineato Davey “Tiffany si trova in una posizione rara e invidiabile, in quanto i consumatori riconoscono il marchio semplicemente vedendo il colore, senza bisogno che vi sia un’altra brand identity”.

Nessun altro colore registrato è diventato così strettamente associato al suo marchio. Tiffany & Co. può dipingere qualsiasi cosa con il colore del suo marchio, dai sassi ai taxi alle vetrine, il suo significato risuonerà sempre!

Il Milan vince la sua partita contro il Gruppo Marriott Hotels

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Nel 2013 l’AC Milan ha depositato nell'Unione Europea per diversi prodotti e servizi, tra cui la classe 43. Tuttavia, l'applicazione in classe 43 è stata opposta da parte di AC Hotels, un avversario anomalo per il Milan.

L'elemento AC è l'elemento più dominante di AC Hotels e frequentemente il gruppo si oppone a depositi di marchi confondibili con il segno “AC Hotels”.

Tuttavia l'opposizione del gruppo alberghiero è stata respinta in quanto i marchi sono stati ritenuti sufficientemente diversi. L'unico elemento corrispondente è AC. Secondo l'EUIPO, "le lettere AC sono elementi trascurabili a causa della loro dimensione minuscolare e della loro posizione al centro delle altre lettere del segno contestato, e non sono visibili a prima vista, considerando anche che questo segno complesso ha altri elementi visivamente eccezionali e, pertanto, è molto probabile che le lettere AC vengano ignorate dal pubblico di riferimento".

Il 19 giugno 2019 il Tribunale dell'Unione Europea ha stabilito che l'EUIPO ha correttamente concesso la registrazione del segno figurativo richiesto dall'Associazione Calcio Milan SpA (AC Milan). (Causa T-28/18).

Le sorti del marchio RF di Roger Federer

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Nel luglio 2018, Federer ha sorpreso molti suoi fans passando da Nike a Uniqlo in un affare del valore di quasi 300 milioni di dollari in 10 anni.

Molti si sono interrogati sulla sorte del marchio di Federer "RF" logo "RF" che per anni è apparso sull’abbigliamento prodotto da Nike. L'atleta 37enne ha più volte affermato che il logo era suo, e ci si aspettava che Uniqlo avrebbe adottato il marchio "RF" sui propri prodotti.

In realtà il titolare del marchio è la Nike che ha registrato il logo "RF" come marchio d’impresa e non appena l’accordo con Federer era scaduto, aveva immediatamente smesso di vendere l'abbigliamento a nome di Federer nei negozi in tutto il mondo.

In questi giorni il portavoce Uniqlo ha rivelato che l'azienda di abbigliamento non ha "nessun piano" per acquisire il logo RF da Nike di fatto rinunciando al marchio logo "RF" da parte dell'otto volte campione di Wimbledon.

Cosa avrebbe potuto fare Federer per evitare il problema e quale lezione ne possono trarre gli atleti?

  1. Registrare il marchio a proprio nome - La soluzione più ovvia sarebbe stata quella di garantire che il marchio fosse registrato a suo nome (o a nome della società che gestisce i suoi diritti d’immagine). Federer avrebbe quindi potuto, come parte del suo accordo di sponsorizzazione con Nike, concedere a Nike una licenza d'uso del logo RF per la durata del contratto di sponsorizzazione. In effetti, sorprende un po' che Federer non abbia registrato il logo RF a proprio nome, dato che è il titolare registrato di diversi marchi, tra cui il marchio comunitario "Roger Federer".

  2. Utilizzare una clausola di cessione - In alternativa, se la Nike avesse insistito per il possesso del marchio RF Logo, il contratto di sponsorizzazione avrebbe potuto includere una clausola di cessione automatica in modo che, una volta risolto l'accordo di sponsorizzazione i diritti sul marchio fossero immediatamente trasferiti a Federer in quanto titolare del patronimico coincidente con le iniziali RF.

 

La Ferrari GTO è un'opera tutelata dal diritto d'autore.

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Il Tribunale di Bologna, Sezione specializzata in materia di impresa ha recentemente accodato la tutela del diritto d’autore al modello di Ferrari forse più conosciuto ed apprezzato di sempre: la 250 GTO.

Il numero, 250, sta per la cilindrata di ciascun cilindro in centimetri cubi del motore V12 3000 cc di cilindrata. GTO sta per "Gran Turismo Omologata". Tale sigla non verrà poi utilizzata per parecchi anni fino alla presentazione nel 1984 della Ferrari 288 GTO.

Per il Collegio, interpellato dalla Ferrari per difendere il modello da un tentativo di riproduzione da parte di una società di Modena, «la personalizzazione delle linee e degli elementi estetici, hanno fatto della Ferrari 250GTO un unicum nel suo genere, una vera e propria icona automobilistica». «Il suo valore artistico – prosegue l’ordinanza - ha trovato oggettivo e generalizzato riconoscimento in numerosi premi e attestazioni ufficiali», in «copiose pubblicazioni» e nella riproduzione «artistica» su monete e sotto forma di «sculture», periodicamente esposte nei musei.

Il Tribunale ha così emesso un’ordinanza che inibisce alla società specializzata in tuning di riprodurre la forma della 250GTO in rendering e in modelli di autovetture.

L’azienda resistente era infatti pronta a lanciare sul mercato una decina di repliche della 250 GTO, al prezzo circa di 1 milione di euro l’una, che riproducevano (aggiornandolo) il leggendario modello anni ’60.

Apple e Pear non sono due marchi confondibili.

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Il Tribunale UE si è recentemente pronunciato in tema di somiglianza visiva e concettuale tra marchi e, ribaltando la decisione dell’EUIPO sul punto, ha accertato che il noto marchio Apple ed il marchio Pear (raffigurati di seguito) non sono confondibili tra loro.

La vicenda prende spunto dall’opposizione presentata dalla Apple alla domanda di registrazione del marchio figurativo europeo ‘Pear’, depositata dalla Pear Technologies Ltd. In seguito all’accoglimento dell’opposizione, quest’ultima proponeva ricorso di fronte all’EUIPO, che confermava però la prima decisione. Di conseguenza, la Pear Technologies impugnava il provvedimento di fronte al Tribunale UE il quale ha negato l’esistenza di una somiglianza tra i due segni, confrontandoli sia dal punto di vista visivo che dal punto di vista concettuale.

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La commissione di ricorso EUIPO aveva ravvisato in un  primo  momento ravvisato un remoto grado di somiglianza tra i due segni, in quanto entrambi rappresentavano sagome arrotondate di un frutto con i relativi gambo/foglia in identica posizione ma il Tribunale è poi giunto ad una diversa conclusione.

Il giudice ha infatti osservato che i due segni sono visivamente molto diversi tra loro: rappresentano, infatti, due frutti distinti e l’uno (il marchio Apple) costituisce una forma solida, mentre l’altro (Pear) è un insieme di oggetti separati tra loro; inoltre, l’elemento in alto a destra rappresenta in un caso una foglia (Apple) e nell’altro un gambo (Pear); infine, non può essere sottovalutato l’elemento denominativo del marchio Pear, che ha dimensioni rilevanti rispetto alla sagoma, un colore diverso, un font particolare ed è a lettere maiuscole. In conclusione il Giudice ha stabilito che la notorietà del segno anteriore non rileva in un giudizio di somiglianza, e che i marchi in questione sono visivamente diversi.

Dal punto di vista concettuale il Tribunale ha ribaltato le conclusioni della commissione di ricorso EUIPO, sottolineando che sussiste somiglianza concettuale solo quando due segni evocano immagini aventi un contenuto semantico simile o identico.

Nel caso di specie, l’EUIPO aveva in un primo momento ritenuto che i due marchi raffigurassero due frutti distinti ma che però gli stessi erano affini per caratteristiche biologiche ma il tribunale ha ritenuto che i segni in questione evocano l’idea di un frutto determinato, mentre richiamano il concetto generale di “frutto” solo in modo indiretto.

In secondo luogo, ha ribadito che, in numerosi Stati, membri mele e pere sono utilizzate nei proverbi come esempi di cose diverse e non paragonabili, e l’eventuale somiglianza nelle dimensioni, colori o consistenza (caratteristiche che, peraltro, condividono con molti altri frutti) è comunque un elemento che può essere percepito dal pubblico solo nell’ambito di un’analisi molto dettagliata, senza considerare che non è verosimile presumere che il consumatore sia a conoscenza della loro provenienza dalla medesima famiglia di piante.

In base a queste considerazioni, dunque, il Tribunale UE ha annullato la decisione della commissione di ricorso EUIPO, riconoscendo la possibile influenza esercitata dalla notorietà del marchio anteriore.

GLI ACQUISTI SU EBAY E LA TUTELA DEI CONSUMATORI

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Per la prima volta, una sentenza del giudice di Pace di Milano stabilisce che eBay deve rimborsare gli utenti per le truffe subite quando utilizzano i servizi del negozio di e-commerce.

Circa 150 persone avevano comprato a prezzi stracciati, da un utente su eBay, cellulari che non sono mai stati consegnati.

Alcuni di loro avevano sottoscritto l’acquisto dopo che – a loro insaputa – il venditore era già stato segnalato a eBay da altri utenti.

Il giudice è stato il primo ad applicare correttamente la legge 70 del 2003, secondo cui il provider assume la responsabilità civile del danno se non interviene subito dopo esserne stato messo al corrente. eBay, in questo caso, ci ha messo tre mesi per chiudere l’account del truffatore.

In decine di casi precedenti, l’azienda è sempre stata considerata non responsabile perché si stabiliva che gli utenti avrebbero dovuto provvedere con una segnalazione formale, con raccomandata. Ma il giudice di Milano ha valutato che è sufficiente il normale strumento di segnalazione fornito sul web dalla stessa eBay.

Da parte sua, eBay ha fatto sapere che farà ricorso e sottolinea come il giudice si sia limitato a riconoscere il rimborso ma non i danni richiesti e come abbia chiarito che eBay non possa essere considerata responsabile per le attività degli utenti.

IL CASO DELLA BIRRA BREXIT

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Lo scorso 30 gennaio 2019, l’EUIPO si è recentemente confrontato con il caso della domanda del marchio "Brexit". Il caso riguarda l'ammissibilità per la registrazione del segno figurativo "BREXIT" per "bevande energetiche contenenti caffeina; birra” nella classe 32.

La domanda è stata rifiutata ufficio per mancanza di carattere distintivo e contrarietà all'ordine pubblico, in quanto è stato rilevato che il pubblico pertinente include tutti i consumatori nell'UE in quanto spesso incontrano il termine attraverso i mass media e Internet.

Riguardo alla violazione dell’ordine pubblico o al buon costume, il Grand Board ha trovato che la parola "Brexit" denota una decisione politica sovrana, che è stata presa legalmente e non ha alcuna connotazione morale negativa; non è né un incitamento al crimine, né un emblema per il terrorismo o un sinonimo di sessismo o razzismo. La sola parola non esprime un'opinione. Il fatto che parte del pubblico del Regno Unito possa essere stato turbato da una controversa decisione presa democraticamente non costituisce un reato. Il GB ha quindi concluso che il segno non può essere considerato contrario ai principi di moralità accettati, in sé e per sé, né se utilizzato come marchio per i prodotti richiesti.

 Tuttavia, il termine era, già alla sua data di deposito, così ben noto ai consumatori come il nome di un evento di natura storica e politica che non sarebbe associato, prima facie, a prodotti specifici provenienti da un commercianti specifici. Può acquisire un carattere distintivo solo se i consumatori ne sono sufficientemente esposti in un contesto commerciale. Inoltre, i colori e il carattere non sono in grado di distogliere l'attenzione del pubblico dal messaggio non distintivo trasmesso dalla parola. Lo sfondo che evoca il jack Union accentua questo messaggio. Per i motivi sopra esposti, il Grand Board ha respinto la domanda e l'appello.

IL TENTATIVO DI NIKE DI REGISTRARE IL MARCHIO “FOOTWARE”

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 Alla fine del mese scorso, la Nike ha presentato una domanda di marchio per la registrazione presso l'US Patent and Trademark Office ("USPTO") per la parola "FOOTWARE" - da utilizzare in connessione con i moduli hardware del computer specifici della sneaker per la ricezione, elaborazione e trasmissione di dati in Internet di dispositivi elettronici di cose; dispositivi elettronici e software per computer che consentono agli utenti di interagire da remoto con altri dispositivi intelligenti per il monitoraggio e il controllo di sistemi automatici ", tra gli altri prodotti e servizi hardware e software.

Sembra che Nike abbia provato ad estendere la registrazione alla classe 25 (ad esempio, la classe di marchio che copre le scarpe). Questa è una registrazione che nemmeno la Nike probabilmente otterrebbe, perché il marchio sarebbe considerato descrittivo dei prodotti che si riferiscono alle scarpe, e quindi non registrabile.

Probabilmente Nike inizierà a “brandizzare” qualsiasi tipo di scarpe intelligenti come FOOTWARE invece che FOOTWEAR. A giudicare da quanto famoso e potente siano i be noti segni"Just Do It" e la “swoosh”, il nuovo marchio potrebbe prendere piede e, in definitiva, servire a identificare le scarpe intelligenti di Nike nel loro complesso (e non solo i loro componenti tecnologici). Per quanto riguarda la domanda, essa stessa è attualmente in attesa di revisione da parte dell'USPTO.

Se Nike riuscisse nel proprio intento, sarebbe l’inizio di una nuova forma di strategia di branding piuttosto sorprendente.

HARD BREXIT E MARCHI COMUNITARI

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L'Ufficio Marchi e Brevetti del Regno Unito ha pubblicato alcuni chiarimenti su eventuali ripercussioni che si porrebbero verificare sui marchi comunitari registrati in caso di hard Brexit (uscita in assenza un accordo con l'UE).

L’ufficio ha precisato che il Regno Unito riconoscerà tutti i marchi comunitari registrati e li trasformerà automaticamente in marchi nazionali, previa indicazione del simbolo UK009 di fronte al numero di registrazione UE.

Se da un lato non vi sarà alcun costo per i titolari interessati, dall’altro l'ufficio brevetti non rilascerà ulteriori certificazioni di validità. Eventuali informazioni sui marchi di provenienza comunitaria saranno disponibili nel database dei marchi del Regno Unito.

In relazione alle domande pendenti dei marchi comunitari, i richiedenti avranno fino a 9 mesi per presentare domande identiche per il Regno Unito. In tal caso il richiedente godrà della priorità assicurata dalla domanda di marchio comunitario.

BANSKY (LO SCONOSCIUTO) E' UN MARCHIO REGISTRATO

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Il Tribunale di Milano si è recentemente espresso sulla tutela delle opere dell’artista di street art conosciuto con lo pseudonimo di Banksy, la cui identità è, come molti forse sapranno, ignota.

 Il procedimento è stato avviato dalla Pest Control Office Ltd che ha affermato di essere il soggetto che tutela dei diritti dell’artista, per il quale cura la vendita delle opere e la realizzazione delle mostre. Pest Control Office è inoltre titolare di alcuni marchi (“Banksy”) ma anche dei segni distintivi che rappresentano alcune delle sue opere più famose, come la bambina con il palloncino rosso e il lanciatore di fiori. Pest Control ha quindi agito in giudizio contro la 24 Ore Cultura s.r.l. lamentando la violazione dei propri diritti di marchio da parte del Sole 24 Ore che ha organizzato la mostra “The art of Banksy. A visual protest”.

 In primo luogo, il titolo della mostra, avrebbe violato i diritti di Basnky sul medesimo marchio registrato. Ugualmente la violazione sarebbe stata perpetrata tramite l’utilizzo delle immagini della bambina col palloncino rosso e del lanciatore di fiori nel materiale promozionale della mostra.

 Il Tribunale da un lato ha considerato come illecito l’utilizzo dei segni in questione sul merchandising della mostra, in quanto mero uso commerciale per la promozione di generici prodotti di consumo privi di attinenza con la mostra, e quindi non considerabile come uso descrittivo lecito del marchio altrui.

 Dall’altro, invece, ha considerato che l’utilizzo del segno Banksy e di quelli corrispondenti alle opere summenzionate nel materiale promozionale della mostra costituisce un uso lecito del marchio altrui, avendo fine meramente descrittivo della mostra stessa.

 Il Tribunale ha altresì rigettato la difesa della resistente basata sul fatto che i proprietari delle opere di Banksy esposte (alias dei multipli delle sue opere di street art da lui commercializzati) avevano espressamente concesso alla resistente anche il diritto di riprodurre tali opere.

Infatti in base alla legge sul diritto d’autore infatti, “la cessione di uno o più esemplari dell’opera non importa, salvo patto contrario, la trasmissione dei diritti di utilizzazione, regolati da questa legge”. In tale contesto, precisa il Giudice, “la giurisprudenza ha già da tempo chiarito che anche la riproduzione fotografica di un’opera d’arte figurativa nel catalogo di una mostra rappresenta una forma di utilizzazione economica dell’opera pittorica e rientra nel diritto esclusivo di riproduzione riservato all’autore”.

 Nonostante quanto precede, il Tribunale ha escluso che la riproduzione non autorizzata delle opere nel catalogo costituisse anche concorrenza sleale ai danni della resistente. Tale fattispecie, infatti, richiede non solo il comportamento illecito, ma anche che questo possa effettivamente causare un danno a carico del concorrente che lamenta l’illecito.

 Accertato quindi che l’unico illecito ascrivibile alla resistente è l’uso dei marchi della ricorrente su prodotti di merchandising, il Tribunale ha inibito l’ulteriore commercializzazione degli articoli di merchandising in questione, con fissazione di penale e condanna della resistente al pagamento di parte delle spese legali sostenute dalla ricorrente.

IL FENOMENO DELLA VOLGARIZZAZIONE DEL MARCHIO OSCAR.

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Con l’avvicinarsi della cerimonia che attribuisce l’Academy Award meglio noto come “l’Oscar” può sembrare utile ricordare le vicende legate al marchio che porta il nome del noto premio cinematografico.

L’Oscar è stato assegnato per la prima volta il 16 maggio 1929 ed i suo nomignolo sarebbe stato attribuito da Margaret Herrick, impiegata all’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che vedendo la statuetta disse: “Assomiglia proprio a mio zio Oscar!”

L’Oscar è un marchio registrato di titolarità della Academy of Motion Picture Arts and Sciences ed alcuni anni orsono ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma l’Associazione italiana dei Sommelier colpevole di aver istituito “l’Oscar del Vino”.

Orbene nel 2016 la corte di Cassazione ha da un lato confermato la validità del marchio Oscar con riferimento al settore dell’industria cinematografica, attribuendo di conseguenza al titolare, l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences (AMPAS), pieni diritti al suo utilizzo esclusivo.

Dall’altro, ha dichiarato il marchio Oscar decaduto per volgarizzazione in relazione a servizi di diversa natura, nella fattispecie i servizi relativi all’istruzione ed allo spettacolo nella classe 41 della Classificazione di Nizza.

Il fenomeno della volgarizzazione si verifica quando un marchio non è più utilizzato per individuare i prodotti di un imprenditore da quelli di un altro imprenditore ma, semplicemente, per individuare il prodotto (indipendentemente da chi lo produce).

La Cassazione ha stabilito che il discrimine per determinare la volgarizzazione del marchio Oscar è il contesto in cui viene usato.

Se usato per identificare la cerimonia di premiazione il marchio Oscar è pienamente valido. Ma, usato in altri contesti, il termine assurge a parola comune che identifica un premio o un evento legato all’eccellenza. 

 

LA TUTELA DELLE FOTOGRAFIE TRA OPERE ARTISTICHE E SEMPLICI.

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Recentemente il Tribunale di Milano si è nuovamente espresso sul concetto di opera fotografica artistica e fotografia semplice.

 La vicenda trae spunto dalla presunta violazione del diritto d’autore di una fotografia denominata “Human Feelings as Drugs”, consistente nella realizzazione di fotografie, stampe e poster riproducenti fialette di medicinali di svariati colori, recanti la scritta “empathy”, “hope”, “love”, “peace” e “joy” con riportate le frasi espressive del relativo sentimento o dell’emozione. Nel

progetto, l’artista intendeva realizzare l’idea di assumere “sentimenti come medicine”, in modo da “permettere al paziente un istantaneo risveglio della percezione e un reintegro all’interno del flusso vitale delle emozioni”.

 L’attore lamentava l’illecita riproduzione da parte della convenuta di una serie di ciondoli -abbinati a collane e braccialetti – che avrebbero riprodotto le proprie fialette, con identiche denominazioni dei sentimenti, accompagnate dalle stesse frasi illustrative. Ha dunque invocato l’inibitoria, il risarcimento del danno e la pubblicazione.

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 Il Tribunale ha ribadito che In materia di opere fotografiche, il carattere artistico presuppone l’esistenza di un atto creativo in quanto espressione di un’attività intellettuale preminente rispetto alla mera tecnica materiale. La modalità di riproduzione del fotografo deve trasmettere cioè un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla rappresentazione oggettiva cristallizzata, rendendo cioè una soggettiva interpretazione idonea a distinguere un’opera tra altre analoghe aventi il medesimo oggetto. Il requisito della creatività dell’opera fotografica sussiste ogniqualvolta l’autore non si sia limitato ad una riproduzione della realtà, ma abbia inserito nello scatto la propria fantasia, il proprio gusto, la propria sensibilità, così da trasmettere le proprie emozioni.

 In materia di opere fotografiche, la natura artistica della riproduzione non può desumersi dalla notorietà del soggetto o dell’oggetto che è ritratto, giacché il valore dell’opera artistica si apprezza in virtù di canoni di natura formale – che esprimano in modo assolutamente caratteristico ed individualizzante la personalità dell’autore – dovendo invece il relativo giudizio prescindere dall’oggetto o dal soggetto in sé riprodotto.

 Nel caso in esame il Tribunale ha escluso la natura artistica delle immagini litigiose essendo impossibile ravvisarne proprio quegli aspetti di originalità e creatività che risultano indispensabili per riconoscere la piena protezione ex art. 2 l. aut. A dire del tribunale l’attore non ha indicato precise inquadrature ovvero un'attenta selezione delle luci o ancora particolari dosaggi di toni chiari e scuri che il Collegio possa apprezzare. Non sembrano neppure qui rivenirsi quei peculiari indici che identifichino quell’impronta personale e peculiare del fotografo ovvero quella capacità di intervenire sul soggetto in modo tale da evocare suggestioni, che appunto, valgono a distinguere un’opera fotografica da una fotografia semplice.

 Il Tribunale si è inoltre soffermato sulla ulteriore violazione del diritto d’autore inteso come complessiva opera artistica escludendo il plagio della convenuta.

 A dire del collegio, la comparazione tra le due opere evidenzia decisive differenze, idonee a conferire un diverso pregio estetico, non sovrapponibile.

IL NUOVO REGOLAMENTO EU SUL GEOBLOCKING

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Il 3 dicembre 2018 è entrato in vigore il Regolamento (EU) 2018/302 recante misure volte a impedire i blocchi geografici e altre forme di discriminazione dei clienti basate sulla nazionalità, il luogo di residenza o il luogo di stabilimento nell’ambito del mercato interno.

Si tratta di un importante provvedimento che contribuisce alla realizzazione del Mercato Unico Digitale e che permetterà di supportare lo sviluppo del commercio elettronico transfrontaliero abbattendo blocchi geografici ingiustificati, posti in essere da alcuni fornitori di beni e servizi, che possono dare luogo a pratiche commerciali discriminatorie.

In particolare, i titolari di siti di e-commerce dovranno rimuovere eventuali blocchi, ingiustificati, fondati sulla nazionalità al fine di consentire agli utenti l'accesso al Sito; il reindirizzamento ad altro Sito dovrà essere autorizzato dall'Utente mediante il suo espresso consenso al reindirizzamento; i  form di acquisto (moduli d'ordine telematici) dovranno dare la possibilità di inoltro dell'ordine a tutti gli Utenti di un altro Stato Membro.

Inoltre, i commercianti non potranno applicare prezzi discriminatori ai consumatori:

  • nella vendita di beni che dovranno essere consegnati in uno Stato Membro in cui il commerciante offre la spedizione o che vengono ritirati in un luogo specifico concordato con il cliente;

  • nella vendita di servizi forniti elettronicamente, come il cloud computing;

  • nella vendita di servizi che i consumatori ricevono nel luogo in cui opera il commerciante, tra cui il pernottamento in un hotel, il noleggio di un’auto o la partecipazione ad un evento sportivo.

Il Regolamento non prevede un obbligo di armonizzazione i prezzi a livello comunitario e di conseguenza, i commercianti resteranno liberi di fissare i prezzi, purché in maniera non discriminatoria.

E' importante che i Consumatori e le Aziende siano consapevoli dei loro diritti, dei loro doveri e dei limiti del Regolamento, il quale intende infatti contribuire al miglioramento del mercato senza impattare o gravare sugli operatori creando condizioni di accesso eque.

IL CASO DEL MARCHIO DELLA PIZZERIA DA MICHELE

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Recentemente la sezione specializzata delle imprese del Tribunale di Napoli si è dovuta occupare del caso degli eredi di Michele Condurro fondatore della Pizzeria da Michele e che vantavano diritti sul omonimo marchio d’impresa.

 Michele Condurro ha fondato la pizzeria che porta il suo nome ubicata nel popolare quartiere di Forcella nel lontano 1870 e negli anni la sua pizza è diventata tanto famosa tanto da essere citata anche da Julia Roberts nel film Eat Pray love.

 Recentemente gli eredi di Michele Condurro si sono confrontati sul diritto all’uso del marchio “Da Michele” che è diventato oggetto di contesa da parte di un ramo della famiglia che rivendicava il diritto di usarlo per l’apertura di diverse filiali in Italia e all’estero.

 Casi simili si sono verificati con il pizzaiolo Gino Sorbillo e sta accadendo anche con il marchio SaldeRiso, che vede il pluripremiato pasticcere Salvatore de Riso in causa con il fratello.

 Così dopo la registrazione della società e dei domini internet, è partita nel 2016 la causa per il riconoscimento e l’uso esclusivo del nome “Da Michele”.

 Il Tribunale ha infine sancito che il diritto esclusivo all’uso del nome su tutto il territorio nazionale e internazionale spetta agli eredi Condurro che gestiscono la pizzera Da Michele con sede a Forcella e ha imposto la rimozione di insegne, domini e attività social. La sentenza ha da ultimo riconosciuto che il nome svolge una specifica funzione individualizzante, che si è rafforzata nel tempo attraverso il mantenimento di un elevato standard qualitativo, dando luogo a un marchio forte e i diritti a usare tale marchio, ricadono su chi per primo lo ha adottato e usato.

Bitcoin: Consob blocca per la prima volta una Ico.

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Arriva il primo stop della Consob ad un ICO, l’offerta iniziale di valuta. La Ico stata lanciata dalla società di diritto inglese, Togacoin Ltd, con l'obiettivo di finanziare la realizzazione di un data center multiattività, focalizzato soprattutto sul mining di criptovalute, affiancato da "attività secondarie di hosting, sviluppo applicazioni web e rivendita di energia elettrica, che permetteranno di differenziare gli investimenti".

L'Authority ha il fondato sospetto circa la promozione di un'offerta al pubblico di prodotti finanziari in violazione delle disposizioni normative e regolamentari in materia", si legge nel Bollettino, in cui si delibera la sospensione, ai sensi del Tuf, "dell'offerta al pubblico residente in italia avente ad oggetto 'token Tga', effettuata da TogacoinLtd anche tramite il sito internet" . A finire nel mirino della Commissione è un'offerta dai rendimenti alle stelle: secondo la sezione "Revenue calculator" del sito, un investimento di 100 dollari può raggiungere i 213 dollari il primo anno, 434 dollari il secondo, per lievitare a 654 il terzo anno. Inoltre, considerato che il sito web della società e il whitepaper della Ico sono in lingua italiana, la Consob scrive che l'offerta "è rivolta al pubblico italiano" e "presenta le caratteristiche di un'offerta al pubblico di prodotti finanziari". Questa, però, secondo il Testo unico della finanza, richiede la pubblicazione del prospetto, previa comunicazione e approvazione da parte dell'Authority. Ma "in relazione all'attività posta in essere da Togacoin Ltd- si legge nel Bollettino - non risulta essere stata effettuata la preventiva comunicazione alla Consob né risulta essere stato trasmesso il prospetto informativo destinato alla pubblicazione.

IL MARCHIO DI COLORE PURPLE (RAIN).

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Pantone è una nota un'azienda statunitense che si occupa principalmente di tecnologie per la grafica, della catalogazione dei colori e della produzione del sistema di identificazione di questi ultimi.

Nell’agosto 2017 Pantone ha depositato un nuovo colore denominato “Purple One, Love Symbol #2” in omaggio allo scomparso Prince Rogers Nelson noto ai più come semplicemente “Prince” o il folletto di Minneapolis scomparso nel 2016 a soli 59 anni.

L’operazione di Pantone segue la riedizione restaurata del film Purple Rain la cui colonna sonora venne appunto composta da Prince nel 1984.

Dopo questi recenti avvenimenti, la Paisley Park Enterprises società che detiene i diritti di immagine di Prince ha depositato presso l’USPTO (l’ufficio brevetti e marchi statunitense) un marchio di colore consistente in una particolare tonalità di viola.

Forse non tutti sanno che tra i segni che possono costituire oggetto di registrazione come marchio, il Codice della Proprietà Industriale comprende anche le combinazioni o le tonalità cromatiche, ovviamente sull’imprescindibile presupposto che esse siano atte a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese.

Del resto, i colori e le combinazioni cromatiche sono, oramai, sempre più utilizzati dalle imprese per identificare i propri prodotti nel mercato; non è un caso che spesso si faccia riferimento al “blu” Tiffany o al “rosso” brillante delle suole delle calzature Louboutin.

Giurisprudenza e dottrina maggioritarie tendono ad escludere la registrabilità dei colori c.d. puri o tonalità di colori in sé; principio affermato, peraltro, già nel 2003 dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, nel caso “Libertel” relativo all’utilizzo del colore arancione per servizi di telecomunicazioni.

Più recentemente il Tribunale di Milano ha sancito che la registrazione di un marchio di colore specifico può essere ammessa solo ove la stessa non restringa indebitamente la disponibilità di colori per gli altri soggetti che offrano prodotti o servizi del medesimo genere di quelli oggetto della domanda di registrazione.

Per quanto riguarda domanda di Prince, questa verrà esaminata dall’USPTO e poi pubblicato nella nel bollettino, dando così la possibilità ad altre parti che ritengono che saranno danneggiati dalla registrazione del marchio l'opportunità di opporvisi.

 

 

 

ARBRE MAGIQUE CITA BALENCIAGA IN GIUDIZIO.

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Nuovi problemi legali per Balenciaga. La maison del gruppo Kering continua a far discutere per la scelta di ispirarsi a prodotti di consumo ‘pop’ per le sue creazioni. Dopo le versioni luxury della borsa Ikea, Balenciaga, che ha a capo la stilista Demna Gvasalia, ha proposto stavolta un portachiavi a forma di pino che sembra ispirato ai celebri diffusori di profumo per automobili Arbre Magique. Il portachiavi Balenciaga è in vendita a 195 euro nei colori azzurro, rosa, verde e nero ed è realizzato in morbida pelle di vitello, mentre il diffusore di profumo costa 1,66 euro.

L’azienda Car-Freshner Corporation and Julius Sämann Ltd, detentrice dei prodotti Arbre magique, ha così deciso di fare causa alla maison del gruppo Kiering per non aver chiesto il permesso di usare il celebre pino colorato, come invece hanno fatto altri marchi avviando una collaborazione.

Il famoso abete stilizzato è stato già adottato da altre aziende produttrici di merci differenti dai diffusori di profumo, tra cui la griffe Anya Hindmarch ma sempre in accordo con Car-Freshner Corporation and Julius Sämann Ltd.

Vogue cita in giudizia Black Vogue

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Vogue Magazine (Advance Publications Parent company di Condé Nast USA) ha recentemente citato in tribunale il brand Black Vogue per contraffazione di marchio. Advance Publications, si è rivolta al tribunale federale di New York per dare il via a una causa contro la stilista Nareasha Willis di aver riportato su alcuni dei capi da lei messi in vendita il marchio “Black Vogue” senza autorizzazione. Secondo Advance Publications, infatti, la Willis starebbe utilizzando un marchio (Black Vogue) facilmente confondibile, per nome e per grafica, con il più celebre “Vogue” di Condé Nast, rischiando così di creare un collegamento, nella realtà inesistente, tra le due realtà.

Negli scorsi mesi, la Willis avrebbe già provato a registrare il marchio, ricevendo però un rifiuto da parte dell’Us Patent and Trademark Office, in quanto confondibile con i marchi Vogue già registrati da Advance Publications.

Il Decreto di Adeguamento al GDPR

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È stato finalmente pubblicato l'atteso decreto legislativo per l'adeguamento della normativa nazionale al Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).

Il Decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101 - emanato in attuazione dell'articolo 13 della Legge di delegazione europea 2016-2017 (Legge 25 ottobre 2017, 163) - è volto ad armonizzare il Codice della Privacy alla normativa europea, che è divenuta pienamente operativa a partire dal 25 maggio scorso.

Il Codice della Privacy non viene completamente abrogato (come ipotizzato in una prima formulazione del decreto) ma rimane in vigore, con le modifiche volte ad armonizzarlo ai principi fissati nel Regolamento Generale sulla protezione dei dati, primo fra tutti a quello di accountability.

Il provvedimento prevede che il Garante della privacy definisca modalità semplificate di adempimento degli obblighi del titolare del trattamento per quanto riguarda le micro, piccole e medie imprese.

I provvedimenti del Garante della privacy continuano ad applicarsi, in quanto compatibili con il GDPR e con lo stesso decreto.

Per i primi otto mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, il Garante della privacy dovrà tener conto, ai fini dell'applicazione delle sanzioni amministrative e nei limiti in cui risulti compatibile con le disposizioni del GDPR, della fase di prima applicazione delle disposizioni sanzionatorie.