IL TRIBUNALE DI TORINO SULLA TUTELA DELLE BANDE COLORATE K-WAY.

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Il Tribunale di Torino si è recentemente espresso nella causa promossa da Basic Net titolare del noto brand K-Way, contro Giorgio Armani per via della commercializzazione, ad opera di quest’ultima, di prodotti recanti le note bande colorate di K-Way. 

Basic Net è titolare di un marchio comunitario registrato a colori che riproduce la famosa striscia colorata che caratterizza i capi di abbigliamento di Basic Net.  
Nella propria decisione, il Tribunale di Torino ha preliminarmente condiviso le argomentazioni svolte dal Tribunale dell’Unione Europea (“TUE”) riguardante la domanda di registrazione del marchio figurativo comunitario a strisce. In tale sede, il TUE aveva confermato il rigetto della domanda di registrazione del segno per carenza di distintività. Tuttavia, il TUE aveva verificato l’acquisizione di un carattere distintivo in seguito all’uso (c.d. “secondary meaning”) in quattro Stati dell’Unione Europea, tra cui l’Italia. 

Il Tribunale di Torino ha quindi concluso che le famose strisce colorate della K-Way costituiscono “un valido marchio di fatto, dotato di autonoma capacità distintiva anche se usato in combinazione con il marchio KWAY”.

 

Il Tribunale italiano ha poi stabilito che i prodotti da essi contraddistinti sono “quanto meno molto simili (nel senso che appartengono alla medesima linea di abbigliamento sportivo/casual) e venduti a prezzi del tutto comparabili”. Da ciò ne deriva un rischio di confusione tra il marchio dell’attrice Basic Net e la banda colorata che appare sul capo Armani.  Il rischio di confusione, secondo il Tribunale, deriva dall’uso della banda colorata, dall’impatto visivo complessivo da essa generato e dal suo posizionamento ai lati delle cerniere, nonché dal fatto che entrambi i prodotti recanti la striscia in questione siano commercializzati presso i medesimi negozi e che il loro costo sia pressoché analogo. Tali circostanze “possono infatti concretamente indurre il consumatore a ritenere che tra le due aziende siano in corso operazioni di co-branding invece insussistenti”. Infine, il Tribunale di Torino ha escluso il principio l’applicazione del c.d. imperativo di disponibilità opposto dalla convenuta Infatti tale principio “seppure opera nel senso che non può essere impedito l’uso (nel caso) di strisce su capi di abbigliamento – non copre e non consente abusi da parte dei terzi, i quali ultimi, pertanto, devono pur sempre differenziarsi attraverso distinguishing additions o altre variazioni arbitrarie, sufficienti ad elidere il rischio di confusione”.

Nel caso di specie, invece, le addizioni apposte da Armani (alias le famose aquile stilizzate e il marchio “AJ ARMANI JEANS”) non sono considerate sufficienti a differenziare il prodotto. Infatti, secondo il Tribunale, l’apposizione di un marchio notorio sul prodotto non esclude la contraffazione del marchio figurativo altrui; se così non fosse “si arriverebbe alla paradossale conseguenza di consentire ai titolari del primo di appropriarsi liberamente del secondo, con il solo accorgimento di impiegarlo in associazione con il proprio segno distintivo, molto affermato sul mercato e fortemente distintivo e riconoscibile”.  Per tutto quanto sopra, la Corte ha concluso dichiarando che il comportamento posto in essere dalla Giorgio Armani s.p.a. “costituisce atto di contraffazione ex artt. 20, c.1, lett. b) c.p.i. e 9 r.m.c., nonché atto di concorrenza sleale confusoria”. Ha dunque emesso nei confronti della società convenuta un ordine di inibitoria dall’importazione, esportazione, vendita, commercializzazione e pubblicizzazione di prodotti della classe 25 (in particolare giubbini) recanti il marchio oggetto di causa o altro marchio contenente il segno in questione esteso al territorio dell’Unione Europea e un ordine di distruzione in Italia dei prodotti contraffatti.

IL PREZZO DEL CONSENSO.

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Recentemente il Tribunale di Torino si è espresso sul tema della pubblicazione di fotografie in un sito internet senza la preventiva autorizzazione dell’autore e il riconoscendo la quantificazione del risarcimento sulla base del principio del “prezzo del consenso”.

L’autore di alcune fotografie, accortosi che le stesse comparivano all’interno di una piattaforma web, ha chiesto, in primo luogo, di essere riconosciuto titolare dei diritti di sfruttamento economico sulle stesse e, in secondo luogo, che gli fossero riconosciuti e, soprattutto, che fossero quantificati i diritti di sfruttamento economico allo stesso spettanti.

Il titolare delle fotografie chiedeva altresì che fossero riconosciuti e sanzionati anche gli atti di concorrenza sleale, nella forma della concorrenza parassitaria, posti in essere per aver, l’illegittimo utilizzatore della fotografie, contrariamente alle regole di correttezza professionale, sfruttato sistematicamente il lavoro del titolare delle stesse e per aver posto in essere attività potenzialmente idonee a privare la concorrente di quote di mercato.

Il Tribunale di Torino nel dirimere la controversia ha statuito non solo che l’illegittima pubblicazione in un sito web di fotografie altrui da parte di terzi non autorizzati costituisce violazione dei diritti di sfruttamento economico, ma anche che tale violazione debba essere sanzionata applicando il principio del “prezzo del consenso”.

Più precisamente, secondo tale criterio, la sanzione da comminare per l’illegittimo sfruttamento dei diritti d’autore deve essere quantificata sulla base della somma che il titolare dei diritti avrebbe percepito quale corrispettivo a seguito del raggiungimento di un accordo con l’utilizzatore. E la quantificazione del “prezzo del consenso” deve basarsi sul corrispettivo in precedenza richiesto dal titolare per la cessione di ogni singola fotografia, a favore di terzi soggetti.

Per quanto riguarda, invece, la richiesta di risarcimento del danno in relazione ai presunti atti di concorrenza sleale nella forma della concorrenza parassitaria, i giudici torinesi hanno stabilito che, nonostante nel caso in esame possano essere riscontrate plurime condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, nonché dirette al sistematico sfruttamento del lavoro della titolare dei diritti di sfruttamento sulle fotografie, alcun danno patrimoniale ed extra-patrimoniale potrebbe essere riconosciuto in capo allo stesso poiché non adeguatamente provato.

LA TUTELA DELL'OPERA DI NATURA BIOGRAFICA

Si possono liberamente scrivere, pubblicare o raccontare le vite di personaggi famosi?

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Sul punto è recentemente intervenuto il Tribunale di Milano (Sezione Specializzata delle Imprese)  per dirimere un contenzioso tra due autori (Antonio Prestigiacomo e Marcello Sorgi) sulla vita del Principe Siciliano Raimondo Lanza di Trabia, l’uomo che inventò il calciomercato, che fu l’amante di Rita Hayworth e amico di Onassis.

In uno dei passaggi più interessanti, il Tribunale ha stabilito che nel caso di opere biografiche di personaggi noti, appartengono al patrimonio comune i fatti e le vicende che li hanno riguardati, che non sono, in sé, autonomamente monopolizzabili. La tutela autoriale cade invece sulle scelte formali, sulle tecniche stilistiche e redazionali, attraverso le quali l’autore li veicola.

Nel caso in esame, il Tribunale ha stabilito che il testo dell’attore Antonio Prestigiacomo, “Il Principe irrequieto. La vita di Raimondo Lanza di Trabia” gode senz’altro della tutela autoriale. E ciò sia sotto il profilo dell’originalità sia sotto il profilo della novità. Quanto all’originalità, esso si configura infatti come il risultato personale dell’armonizzazione di fatti veri, anche storici, e fatti verosimili, organizzati e rielaborati stilisticamente con una tecnica particolare. Il testo è infatti il frutto dell’alternanza, nel tessuto narrativo, di interviste articolate in domande e risposte, chiaramente individuabili per la presenza del virgolettato, compiute dall’autore a vari personaggi che hanno avuto conoscenza diretta del Principe.

Tuttavia, il Tibunale ha stabilito che premessa l’identità del protagonista e di molti eventi narrati, si evidenzia una distanza tra i due racconti, tale da ritenere che si tratti di autonome opere creative, appartenenti a diversi generi, ciascuna singolarmente tutelabile.

L’opera di Prestigiacomo non può in conclusione ritenersi plagiata da quella di Marcello Sorgi e le opere biografiche di personaggi noti, non sono però con riferimento ai fatti e alle vicende che li hanno riguardati, di per sé non monopolizzabili.

L'embedding potrebbe risultare in una violazione di Copyright.

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Recentemente il Tribunale Federale di New York (Ninth Circuit) ha stabilito che la violazione di copyright si realizza anche con la mera  attività di embedding (ovvero incorporando un tweet in una pagina web diversa da quella del suo autore).

L’azione legale è stata intentata da Justin Goldman un fotografo che ha accusato alcune testate internet (tra cui Breitbart, Time, Yahoo, Vox Media e il Boston Globe), di violazione del copyright per aver pubblicato articoli collegati a una foto della star della NFL Tom Brady che lui aveva scattato.

La foto scattata da Goldman è stata poi twittata da un terzo e le testate giornalistiche hanno inserito un link al tweet nella fase di diffusione della notizia.  

La giurisprudenza americana è costante nel sostenere che responsabilità per la violazione del diritto d’autore  spetta alla società che ospita il contenuto illecito sui propri server, e non ricade sull’azione di mero collegamento al sito.

Questo è generalmente noto come il c.d. "server test " (causa Perfect 10 v. Amazon) ed è una regola chiara e facile da interpretare oltre ad un fondamento giuridico della moderna era “Internet” negli USA.

Se il principio contenuto nella sentenza emessa dalla Corte Federal di New York fosse seguito anche  da altri tribunali, la decisione metterebbe a serio rischio la pratica dell’embedding.

Accuse di Plagio al Film La Forma dell'Acqua.

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Con l’avvicinarsi della notte degli Oscar, crescono le polemiche intorno ai film selezionati dall’Academy Awards in concorso per la prestigiosa statuetta. 

“La forma dell'acqua”, il film di Guillermo del Toro candidato a 13 premi Oscar, è accusato di plagio: la pellicola sarebbe basata - è la denuncia - sulla commedia del 1969 'Let Me Hear You Whisper' del premio Pulitzer Paul Zindel. L'azione legale avviata contro il regista, il produttore e la casa cinematografica del film è di David Zindel, il figlio ed erede del famoso drammaturgo, che senza mezzi termini li accusa di aver «senza vergogna copiato la storia, gli elementi e i personaggi» della commedia di suo padre, utilizzando addirittura le stesse parole.

 La parola ora spetta al giudice, chiamato a stabilire se le accuse di Zindel sono fondate. Non è comunque la prima volta che a Hollywood si accendono battaglie sulle accuse di plagio, soprattutto in presenza di film di atteso successo.

Il classico Western di Sergio Leone Per un pugno di dollari è una delle vette del suo genere, grazie anche all'incredibile performance attoriale di Clint Eastwood, un pistolero vagabondo che, durante il suo girovagare, finisce nel bel mezzo di un conflitto tra due famiglie in un piccolo villaggio al confine con il Messico. Sfortunatamente, il film è anche un remake non autorizzato del film di samurai di Akira Kurosawa La sfida del samurai. Kurosawa mandò a Leone una lettera dicendo: "Bel film, ma era il mio film", e lo citò in giudizio chiedendo una percentuale dei ricavi. I due si misero d'accordo per un rimborso di 100 mila dollari e del 15% dei profitti a livello mondiale.
Altro caso eclatante fu quello di Terminator. Harlan Ellison è uno degli autori più rognosi di tutto il mondo della fantascienza americana, e ormai si contano a dozzine le cause contro persone accusate di rubargli le idee. Ad ogni modo, la causa che intentò contro James Cameron per The Terminator fu leggermente diversa. Ellison scrisse un episodio di Oltre i limiti chiamato Demon With a Glass Hand, che raccontava la storia di un soldato robot che, travestito da umano, viene spedito indietro nel tempo. La Orion Pictures decise di pagare un indennizzo prima ancora che il caso arrivasse in tribunale, e Ellison ottenne soldi e venne accreditato nel film.

Da ultimo si segnale il caso de “Il principe cerca moglie”.  Nel 1982, il noto sceneggiatore Art Buchwald scrisse un trattamento per la Paramount intitolato Re per un giorno, nel quale il protagonista era un sovrano africano ricco e arrogante che viaggiava in America. Il protagonista avrebbe dovuto essere Eddie Murphy. La Paramount comprò il trattamento e impiegò qualche anno nel vano tentativo di trovare qualcuno che scrivesse la sceneggiatura, prima di abbandonare il progetto nel 1985. I diritti tornarono così a Buchwald, che li vendette alla Warner Brothers. In seguito la Paramount girò un film con Eddie Murphy il quale interpretava la parte di un ricco e ignorante sovrano africano in viaggio per gli Stati Uniti. Il film si intitolava Il principe cerca moglie. Buchwald non fu né pagato né accreditato, così fece causa ma la Paramount si accordò privatamente con lui per una cifra sconosciuta.

 

Concessa la registrazione del marchio "Steve Jobs" per la produzione di abbigliamento.

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L'Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) ha recentemente confermato una sua precedente decisione di concedere la registrazione del marchio STEVE JOBS, a nome di due fratelli napoletani, Vincenzo e Giacomo Barbato.

La registrazione del marchio non riguardava solo la parola STEVE JOBS, ma anche una stilizzazione e una lettera molto particolare J, che probabilmente ricorda ai consumatori il logo di un'altra azienda.

Nel 2012 i due fratelli napoletani notarono che Apple aveva trascurato la registrazione del nome del suo fondatore come marchio e, pertanto depositarono domanda di registrazione di marchio come mostrato sopra prima dell'EUIPO (numero di registrazione 011041861), in International Classes 9, 18, 25 , 38 e 42.

Apple Inc. ha prontamente opposto la domanda di registrazione avanti all'EUIPO, sostenendo che la lettera J era una copia del marchio Apple di Apple Inc., con un disegno molto simile e un morso , come questo:

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Dopo anni di discussioni, l'EUIPO si è pronunciata a favore dei fratelli Barbato, sostenendo che la lettera J non è commestibile, e di conseguenza non vi è alcuna relazione tra la mela morsicata dell'azienda tecnologica e la lettera J "morsa" ideata dai fratelli italiani.

Di conseguenza, la registrazione è stata ammessa e quindi è iniziata la commercializzazione di capi di abbigliamento  con il marchio STEVE JOBS.

La domanda di marchio STEVE JOBS è stata depositata  anche negli USA davanti all'USPTO (numero di serie 79141888), ma l’ufficio ha rigettato la domanda dei due fratelli napoletani. 

L'orologio Royal Oak di Audemars Piguet non è un marchio tridimensionale.

Il Tribunale di Milano si è recentemente espresso sulla tutelabilità della forma del noto orologio “Royal Oak” creato nel 1972 dall’azienda svizzera Audermars Piguet  inizialmente protetto come marchio tridimensionale.

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L’Audemars Piguet aveva registrato come marchio internazionale figurativo la forma della relativa lunetta e lamentava la contraffazione di marchio e la concorrenza sleale per imitazione servile da parte degli orologi commercializzati dalla start-up milanese D One s.r.l.

In un primo momento il tribunale ha emesso un provvedimento inaudita altera parte inibendo la futura commercializzazione ma dopo che la D One  si è costituita in giudizio e ha esposto le proprie difese, tuttavia, il Giudice adito ha ribaltato la propria decisione iniziale e rigettato il ricorso di Audermars Piguet sulla base del fatto che “sussistono numerosi elementi di dubbio sulla validità del marchio azionato”, come testimoniato dal fatto che la sua registrazione come marchio comunitario sia stata negata dall’ufficio competente (UAMI).

In particolare, secondo il Tribunale il marchio sembra privo di capacità distintiva, ovvero della capacità di “distinguere i prodotti rispetto a quelli di un altro fabbricante e, dunque, svolgere la funzione di identificazione dell’origine imprenditoriale del prodotto”;

Sempre secondo la corte milanese il segno distintivo tridimensionale non sembra nemmeno avere acquisito capacità distintiva attraverso l’uso (c.d. “secondary meaning”), “non essendo stato documentato un utilizzo uniforme” del segno medesimo”.

Da ultimo la registrazione della forma in questione come marchio non sembra nemmeno compatibile con il dettato dell’art. 9 CPI, secondo il quale “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni costituiti esclusivamente … dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto”.

 In tema di concorrenza sleale, il Giudice ha ricordato che, per integrare l’illecito di concorrenza sleale ex art. 2598 co. 1 n. 1 c.c., l’imitazione servile del prodotto altrui deve “investire caratteristiche del tutto inessenziali rispetto alla funzione che sono destinate ad assolvere”, ovvero quelle caratteristiche “arbitrarie e capricciose” e “nuove rispetto al già noto” che conferiscono originalità al prodotto e hanno capacità distintiva, così che il pubblico è portato a ricondurle all’impresa da cui il prodotto origina: solo quando riguarda queste caratteristiche, l’imitazione servile investe “elementi idonei ad ingenerare confusione nel pubblico” e integra quindi concorrenza sleale confusoria.

Nel caso di specie, il Giudice non ha ravvisato la sussistenza di una simile imitazione, affermando sostanzialmente – sulla scorta di quanto rilevato in punto di contraffazione di marchio – che le forme imitate sarebbero “strutturali del prodotto e non distintive”, nonché in alcuni casi “ormai acquisite al gusto collettivo, avendo subito una certa standardizzazione”, e che comunque vi sarebbero “significative differenze” tra i due prodotti.

La nuova legge sullo spettacolo

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La Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge sullo spettacolo dal vivo, provvedimento a lungo atteso dagli operatori del settore che stabilisce nuove regole e accorda al comparto maggiori risorse e trattamenti fiscali agevolati: tra le novità previste dal testo sono presenti l'aumento delle risorse del Fondo Unico per lo Spettacolo (con fondi pari a +9.5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2018 e 2019 e a +22.5 milioni di euro a decorrere dal 2020), 4 milioni di euro per spettacoli da organizzare nelle zone del centro Italia colpite dai sismi del 2016 e 2017, l'estensione dell’Art Bonus a tutti i settori dello spettacolo, la stabilizzazione del tax credit musica, il beneficio riconosciuto alle imprese produttrici di fonogrammi e videogrammi musicali e produttrici di spettacoli di musica dal vivo per la promozione di artisti emergenti, con oneri pari a 4.5 milioni di euro a decorrere dal 2018, l'estensione del sostegno statale allo spettacolo dal vivo alla musica popolare contemporanea, alle espressioni artistiche della canzone popolare d’autore e alle attività artistiche di strada, e la nascita del Consiglio superiore dello Spettacolo, organismo consultivo del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo che sostituisce la Consulta per lo spettacolo.

La battaglia legale tedesca intorno al marchio Black Friday.

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Dal 1952, il Black Friday, generalmente conosciuto come il giorno successivo al Giorno del Ringraziamento, viene considerato l'inizio della stagione dello shopping natalizio negli Stati Uniti. Oggi i rivenditori di diversi paesi in tutto il mondo offrono vendite promozionali durante il fine settimana del Black Friday. In Germania, Apple è stata la prima azienda a gestire una speciale campagna per il Black Friday per il mercato tedesco fin dal 2006.

Sull’onda della accresciuta notorietà del Black Friday, nel  2013 è stata presentata in Germania una domanda per la protezione del marchio Black Friday dalla Super Union Holdings Ltd. Co. Società con sede ad Hong Kong, che ha concesso in licenza il marchio "Black Friday" alla Black Friday GmbH, una società con sede a Vienna.

Dal 2016, la Super Union Holdings Ltd. ha iniziato ad attaccare le società che utilizzano il termine Black Friday inviando avvertimenti, come ad esempio il mercato statunitense del commercio elettronico Groupon nel 2016, nonché ai titolari della piattaforma black-friday.de, che presenta offerte del Black Friday.

Nel 2017, Super Union Holdings Ltd. ha citato in giudizio Amazon per l'uso del segno "Black Friday" in Germania avanzando, tra l'altro, richieste di danni.

Certo, alcune aziende, colpite dagli attacchi di Super Union Holdings Ltd., hanno iniziato a reagire e ad oggi sono pendenti più di dodici azioni di cancellazione pendenti contro il marchio tedesco Black Friday.

Di recente il tribunale di Dusseldorf ha emesso un’ordinanza in cui negato il diritto di privativa al titolare del marchio Black Friday.

In Germania vige, come in tanti altri paesi, il principio secondo cui un marchio può essere cancellato se il segno è descrittivo ed il cuore della battaglia legale sembra proprio ruotare intorno a tale principio.

A breve si avranno nuovi sviluppi.

IL PUNTO SULLA LINK TAX

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Gli ultimi giorni sono stati decisamente turbolenti per le web companies con il Governo sempre alla ricerca di nuove misure per tassare la rete. Ma queste manovre rappresentano la soluzione migliore per il nostro Paese?

La proposta di riforma della Direttiva Copyright, una delle regolamentazioni della Commissione Europea più discusse non sembra trovare il consenso nel corso delle discussioni al Parlamento europeo.

In particolare l’introduzione di un nuovo diritto (art. 11) a favore degli editori (link tax) e l’obbligo (art. 13) per gli intermediari della comunicazione di predisporre dei filtri per i contenuti immessi dagli utenti, al fine di eliminare quelli in violazione del copyright.

Il meccanismo tenta di monetizzare una delle attività genetiche del web, l’ipertesto ma il timore è che possa verificarsi quanto già successo in Spagna e Germania, dove gli editori hanno il diritto di farsi pagare da Google News. Il risultato è stato un crollo di traffico sui siti degli editori.

Di recente però, le apparenti conseguenze negative derivanti dall’adozione della link tax in Spagna sembrano non avere dissuaso il Governo italiano dall’adottare un’iniziativa simile. Apparentemente il Governo sta studiando una norma che obblighi gli aggregatori di notizie come Google News a raggiungere un accordo commerciale con gli editori. Nel caso in cui questo accordo fallisca, un procedimento di mediazione potrebbe nascere davanti all’AgCom o alla sezione dedicata della Presidenza del Consiglio prima di sfociare in un procedimento giudiziario.

 

ANCHE UNA GUIDA DI VINI E' UN OPERA CREATIVA.

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Somiglianze “significative” tra la guida di Bibenda Editore - ex “Duemilavini”, oggi “Bibenda” - e “Vitae” dell’AIS. sia relative al formato fisico che nelle schede descrittive per i dati relativi alle aziende e alle loro produzioni, e “forti elementi di assonanza nella sequenza degli argomenti”: è con queste parole, presenti nel testo della sentenza emessa dai giudici della IX Sezione Civile del Tribunale di Roma, che si conclude il primo grado di giudizio relativo alla denuncia per plagio sporta da Bibenda Editore nei confronti di Ais, a valle della conclusione, nel 2015, della collaborazione tra Bibenda e l’Ais.

Subito dopo l’interruzione dei rapporti che avevano visto per anni Ais acquistare la guida Bibenda per distribuirla ai propri soci, l’Associazione diede alle stampe una sua guida, battezzata “Vitae”, che però apparve agli autori di “Bibenda” troppo simile, sotto una molteplicità di punti di vista, a quella da loro creata secondo criteri redazionali ben precisi. Criteri che, secondo la sentenza, sono sufficientemente simili a quelli adottati da Ais per “Vitae” da giustificare una sua condanna: il Tribunale ha accolto le istanze di Bibenda Editore e ha inibito la pubblicazione di future edizioni di “Vitae” a meno che queste somiglianze non vengano sostanzialmente eliminate. Ais è stata condannata, inoltre, a risarcire i danni (ancora da quantificare) in favore di Bibenda Editore.

Secondo la sentenza del Tribunale, “l’esame della guida pubblicata dalla convenuta (ais) evidenzia significative somiglianze con la guida Bibenda in relazione alle dimensioni del volume, al materiale utilizzato per la copertina, alla rilegatura e ai caratteri di stampa adoperati e al formato.

Ulteriori rilevanti somiglianze si colgono nelle schede descrittive delle aziende, in entrambe le guide si rinvengono, con la stessa sequenza e all’interno di un identico contesto strutturale e secondo una comune presentazione grafica, i dati relativi a nome azienda, indirizzo, sito internet, indirizzo mail, anno di fondazione, proprietà, bottiglie prodotte, ettari vitati, vendita diretta, visite all’azienda, pezzo introduttivo, nome vino, tipologia, uve, gradazione alcolica, prezzo, bottiglie prodotte, degustazione, vinificazione e abbinamento.

È comune, inoltre, la valutazione dei prodotti con simboli posizionati sul lato destro delle pagine.

Come già rilevato le due guide presentano forti elementi di assonanza nella sequenza degli argomenti (…)”.

In base a tali argomentazioni, il Tribunale ha accolto le domande proposte da Bibenda Editore e ha inibito all’Associazione Italiana Sommelier di pubblicare per le annualità future la guida Vitae, salvo adeguamenti idonei a differenziarla in maniera sostanziale dalla guida Bibenda.

Il punto sul recepimento della Direttiva Barnier.

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Sempre più discusso è il recepimento della direttiva europea 2014/26, conosciuta come direttiva Barnier, che è nata dalla necessità di creare un sistema di gestione dei diritti d’autore unico, a livello europeo. L’obiettivo delle normativa comunitaria è, difatti, quello di armonizzare il settore, ancora regolato localmente da ciascun Paese, in modo da garantire più efficienza e trasparenza da parte delle società di collecting dei diritti d’autore, nei confronti dei loro associati, introducendo anche una maggiore liberalizzazione.

Sul punto, l’articolo 5 del testo comunitario prevede, infatti, che “i titolari dei diritti hanno il diritto di autorizzare un organismo di gestione collettiva a loro scelta a gestire i diritti, le categorie di diritti o i tipi di opere e altri materiali protetti di loro scelta, per i territori di loro scelta, indipendentemente dallo Stato membro di nazionalità, di residenza e di stabilimento dell’organismo di gestione collettiva o del titolare dei diritti”. Questa disposizione non trova riscontro con l’esclusiva ancora concessa dall’Italia, con l’articolo 180 della legge sul diritto d’autore, la numero 633 del 1941, alla Siae. 

La direttiva interviene su tre fronti. 
Innanzitutto, la gestione collettiva dei diritti d’autore, ovvero il compenso che ciascun artista matura per la riproduzione delle proprie opere. Il caso più significativo ed economicamente più rilevante è quello della musica: tutte le riproduzione di una canzone, via radio o altro mezzo di diffusione, fa scattare il diritto d’autore, che in Italia viene “contabilizzato” dalla Siae, Società italiana autori ed editori, in un regime di monopolio. 
Il secondo settore d’intervento della direttiva è la gestione dei diritti connessi al diritto d’autore. A differenza di quanto ancora avviene con la Siae, il mercato dei diritti connessi è stato liberalizzato e, oggi, l’ex monopolista Imaie (Istituto mutualistico artisti interpreti esecutori) lavora insieme ad altre otto società di intermediazione
Terzo ed ultimo ambito della riforma è la concessione delle licenze multiterritoriali per i diritti su opere musicali riprodotte online: per esempio, su youtube o spotify.

L’Italia ha recepito la direttiva nel 2017  facendo però salva l’esclusiva di Siae per il mercato italiano del collecting del diritto d’autore. Il nocciolo della questione è al Comma 2 dell’Articolo 4: «I titolari dei diritti possono affidare ad un organismo di gestione collettiva o ad un’entità di gestione indipendente di loro scelta la gestione dei loro diritti, delle relative categorie o dei tipi di opere e degli altri materiali protetti per i territori da essi indicati, indipendentemente dallo Stato dell’Unione europea di nazionalità, di residenza o di stabilimento dell’organismo di gestione collettiva, dell’entità di gestione indipendente o del titolare dei diritti, fatto salvo quanto disposto dall’Articolo 180, della legge 22 aprile 1941, n. 633, in riferimento all’attività di intermediazione di diritti d’autore». Articolo 180 che afferma appunto come «l’attività di intermediario» sia «riservata in via esclusiva alla Società italiana degli autori ed editori»

Nel giugno 2016, anche l’AGCOM ha scritto al Parlamento e al Governo rilevando che “il valore e la ratio stessa dell’impianto normativo europeo risultano gravemente compromessi dalla presenza, all’interno dell’ordinamento nazionale, di una disposizione ormai isolata nel panorama degli Stati membri, che attribuisce a un solo soggetto (Siae) la riserva dell’attività di intermediazione dei diritti d’autore”. 

Qualcosa però sembra stia cambiando: recentemente, il ministro della cultura Franceschini ha dichiarato che “Il governo ha dato disponibilità a proporre al Parlamento una norma che permetta ad altri organismi di gestione collettiva di operare in Italia". In realtà, questo intervento sembrerebbe parziale e, secondo molti, soltanto atto ad evitare ulteriori procedure di infrazione per il nostro Paese, poiché non prevede una vera e propria liberalizzazione ma una minima apertura del mercato nei confronti  soltanto di altri organismi di gestione collettiva senza scopo di lucro, ovvero società straniere equivalenti di Siae, controllate da artisti ed editori. Dalla riforma della legge 633 del 1941, rimarrebbero quindi escluse le società di gestione indipendenti private come Soundreef, principale avversario di Siae in Italia, che oggi opera attraverso una società controllata inglese per aggirare il monopolio. Inoltre, Siae ha già degli accordi di rappresentanza con le omologhe europee, in virtù dei quali ciascuna società di collecting gestisce il copyright nel proprio Paese per conto delle altre. Il dibattito sembra dunque destinato a continuare.
 

Selfie Selvaggio

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I giudici statunitensi hanno recentemente messo fine alla battaglia giudiziaria sul selfie di Naruto, il macaco indonesiano che più di dieci anni fa spopolò sul web con un autoscatto. La decisione della Corte ha dato ragione a Slater, il proprietario della macchina fotografica, e ha rigettato le pretese di PETA, un’organizzazione no-profit statunitense che si occupa di diritti degli animali, che sosteneva le ragioni del macaco.

La bizzarra vicenda inizia nel 2011, quando David Slater, fotografo professionista, si trovava nelle foreste dell’Indonesia per immortalare alcune tra le più particolari specie animali. Imbattutosi in un branco di scimmie, lasciò per qualche momento incustodita la sua macchina fotografica. Fu così che un fotogenico macaco, Naruto, l’afferrò e iniziò a scattarsi centinaia di selfies. Alcuni, come capita anche alle migliori instagrammer, mossi e sfuocati, altri invece quasi perfetti. Il fotografo pubblicò una delle foto sul proprio blog e subito l’immagine diventò virale. Sulla scorta di un’interpretazione letterale della legge statunitense in tema di diritto d’autore, Wikimedia, la società americana proprietaria del dominio Wikipedia, decise allora di inserire l’immagine nella sua collezione di contenuti Wikimedia Commons, una raccolta di oltre 20 mila immagini e video pubblici e fruibili dalla collettività in quanto privi di diritti d’autore. Secondo la normativa americana, infatti, i diritti su una foto sono di titolarità del suo autore ovvero chi l’ha scattata e, in questo caso, si trattava di una scimmia. Salter si oppose alla libera divulgazione dell’immagine che riteneva essere sua a tutti gli effetti e fece nascere una vera e propria controversia giuridica in tema di proprietà intellettuale: se una scimmia fa una foto, di chi è la foto?

Nel corso degli anni la questione si è fatta sempre più complicata e sempre più assurda: la PETA, già nota per le sue battaglie provocatorie, ha fatto causa, a nome di Naruto, a Slater e anche a Blurb, una casa editrice che ha pubblicato il libro Wildlife Personalities, contenete, tra tante foto animali, anche quella di Naruto.

Sia Slater che Blurb hanno presentato un “motion for dismissal”: un documento che nel sistema legale statunitense serve a chi è accusato per spiegare che la causa nei suoi confronti è sbagliata e  basata su motivi inesistenti. In questo documento Slater scrisse, tra le altre cose, che “l’unico fatto rilevante in questa causa è che il querelante è una scimmia che fa causa per violazioni relative al copyright”. Secondo Salter, la PETA non può provare che il famoso selfie fu scattato proprio da Naruto e non da un’altra scimmia.

E, in effetti, i giudici gli hanno dato ragione, statuendo che i diritti sulla autoscatto siano suoi e non dell’animale.

Nonostante questo, però, l’organizzazione Peta e David Slater hanno trovato un accordo: il fotografo verserà all’organizzazione non-profit il 25% degli introiti derivanti dal proprio diritto d’autore sulla foto.

Rinvenuto il contratto tra Tazio Nuvolari e la Scuderia Ferrari

È stato recentemente ritrovato l’accordo del 1935 che Tazio Nuvolari aveva chiuso con l'Alfa Romeo - attraverso la Scuderia Ferrari.

La cosa che forse più colpisce leggendo l’accordo è l’estrema concisione dell’accordo, forse uno dei più importanti accordi di diritto sportivo degli anni 30: appena una pagina perché Nuvolari metta a disposizione i suoi servizi in favore della Scuderia Ferrari (che come è noto all’epoca gestiva e preparava autovetture Alfa Romeo).

Si stima quindi che Nuvolari potesse arrivare fra ingaggi, premi e gettoni della Scuderia quasi a mezzo milione di lire l'anno. Una cifra molto alta per l’epoca, molto di più di quanto la matematica lasci intendere (se si rapportano ad esempio i 40 milioni l'anno di Alonso, il più pagato in F1, con i 13 mila euro l'anno di un operaio).

Altra curiosità è il valore della polizza infortuni e vita, pari a quasi il 10% del valore dell’ingaggio.

L’altro dato interessante rimane la ripartizione dei premi. In un’epoca in cui i diritti media non esistevano, una delle fonti principali di introiti per le scuderie automobilistiche erano appunto i premi assegnati dagli organizzatori. L’accordo fa emergere una ripartizione alquanto favorevole a Nuvolari: ben la metà dei premi andavano al corridore.

Il pericolo di usare il proprio nome come marchio.

Circa un anno dopo che Thaddeus O'Neil ha lanciato una linea di abbigliamento maschile ispirata alla cultura surf tipica della zona di Eastern Long Island in cui lui stesso è cresciuto, l’indipendente designer ha ricevuto una lettera di diffida da uno studio legale che rappresenta Sisco Textiles, titolare del famoso marchio di abbigliamento sportivo "O’Neill ".

Questo è stato l'inizio della controversia legale tra il marchio d’abbigliamento per surfisti, O’Neil, fondato nel 1952, e il designer di New York che sta guadagnando sempre più popolarità dopo aver vinto diversi concorsi di moda.

Nella loro controversia con il fashion designer di New York, la società O'Neill sostiene che il suo brand stia usando questo nome fin dagli anni '50 e che i marchi di Thaddeus O'Neil sono "simili in maniera confusionaria". Secondo O'Neill questo potrebbe ingannare i consumatori e condurli a pensare che le aziende siano correlate.

Le controversie sul marchio che coinvolgono patronimici (cioè in cui il marchio sia equivalente al nome del fondatore) sono piuttosto comuni nella moda. Nel 2012, Tod's - che, a quel tempo, utilizzava il marchio “Roger Vivier” in virtù di un contratto di licenza - ha condotto in giudizio la designer di borse di Los Angeles, Clare Vivier, per violazione del marchio. Alla fine, Clare Vivier ha ribattezzato il proprio marchio in “Claire V.”. Nel 2016, in Italia, Elio Fiorucci ha perso la causa che coinvolgeva l'utilizzo del marchio "Love Therapy by Elio Fiorucci" contro i nuovi proprietari del marchio che aveva fondato.

Ma qual è la posizione dei tribunali italiani quando l'uso di patronimici potrebbe generare confusione con altri marchi? Alla fine degli anni '80 la Corte di Cassazione ha affermato che l'uso di un patronimico come marchio è legittimo, seppur in conflitto con un marchio registrato precedentemente, fintanto che il marchio precedente non diventa un marchio famoso.

Questo principio è stato ribadito dalla Corte Suprema nel 2016 nel citato caso Fiorucci vs. Elio Fiorucci.

Il nostro consiglio? Eseguire una ricerca preliminare sui marchi già registrati prima di lanciare un brand con il proprio nome.

Corte di Giustizia UE e Pirate Bay. Nuove responsabilità per le piattaforme di condivisione in Internet.

Con la recente sentenza C-527/15 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sancisce la violazione del copyright dei gestori di “The Private Bay”, portale per la condivisione di file in rete. I diritti d’autore sarebbero infranti anche se a caricare i file sono persone terze, gli utenti, poiché “gli amministratori di Pirate Bay non possono ignorare il fatto che tale piattaforma dà accesso ad opere pubblicate senza l'autorizzazione dei titolari di diritti”. 
Le argomentazioni utilizzate dai giudici della Corte per condannare Pirate Bay sono rivoluzionarie rispetto alle logiche che finora hanno consentito lo sviluppo del business di questi operatori.
 
In particolare, la Corte di Giustizia ha stabilito per prima cosa che i gestori delle piattaforme di condivisione pongono in essere, attraverso la loro attività, una forma di comunicazione al pubblico che, ai sensi dell’articolo 3 della Direttiva 2001/29/CE, deve essere autorizzata dal titolare dell’opera oggetto della comunicazione. Infatti, gli amministratori, pubblicando i contenuti caricati dagli utenti, svolgono “un ruolo imprescindibile” nella loro messa a disposizione, ad esempio indicizzando e gestendo i vari file e suddividendo in categorie le opere disponibili ed eliminando i file vecchi ed obsoleti. Infine, ha sottolineato la Corte UE nelle sue osservazioni, i siti di condivisione rispondono anche perché dalla pubblicazione di questi file si generano introiti pubblicitari considerevoli.
È evidente che questa sentenza chiama in causa tutti i gestori di piattaforme di condivisione online e fa sorgere in capo a questi una maggiore responsabilità in caso di contenuti illegali caricati dagli utenti. 

Secondo alcuni esperti, però, la sentenza avrà ripercussioni non tanto nel mondo della pirateria, quanto nel settore della condivisione di video legale e in quello dei social network. Infatti, l’aver affermato che la messa a disposizione di opere in una piattaforma di condivisione costituisce una  comunicazione al pubblico ha più effetti nei confronti delle piattaforme di condivisione gratuita, come ad esempio Youtube, che fanno parte dei cosiddetti User Generated Content (UGC) e che il più delle volte utilizzano lo strumento dello streaming, piuttosto che nei confronti della pirateria vera e propria. Il rischio è dunque quello di procedere ad una troppo semplice assimilazione dei siti UGC alla categoria degli antiquati siti di downloading di torrent come, appunto, Pirate Bay.

L’affermazione in base alla quale infatti  il gestore è responsabile qualora intervenga gestendo e filtrando attivamente determinati contenuti, sembra prefigurare una diretta e generale  responsabilità per l’immissione in rete di contenuti ad opera di terzi.
Il dibattito europeo sarà fortemente influenzato da questa decisione, anche perché proprio in questi giorni il Parlamento Europeo sta lavorando alla riforma sui copyright e la relativa responsabilità delle piattaforme online. 
 

Pubblicità occulta e Social Media

Il mercato pubblicitario sta cambiando e sempre più comuni sono diventate le pubblicità indirette o, peggio, occulte in internet e sui social network più popolari.

La pubblicità indiretta è un tipo di pubblicità che compare in maniera chiara ed esplicita in spazi non tipicamente pubblicitari, senza però essere segnalata come tale. È invece pubblicità occulta la pubblicità che avviene in modo non palese. Questa pratica è vietata dalla legge italiana ma limitatamente alla televisione. E, sebbene film e telefilm siano un terreno fertile per il proliferare di questo tipo di sponsorizzazione, nuove sfide si sono aperte soprattutto sui social network. Infatti, dato che questi spazi rappresentano una nuova opportunità di manifestazione del proprio pensiero e dei propri interessi e gusti e un nuovo mezzo per apprendere e condividere informazioni e contenuti, anche le aziende hanno cominciato ad utilizzarli, in maniera esplicita o poco manifesta.

Da una parte troviamo veri e propri spot pubblicitari, come le sponsorizzazioni dichiarate, anche se non del tutto controllate: Facebook e Instagram, ad esempio, verificano che le inserzioni non contengano contenuti illeciti o proibiti dal regolamento interno, ma non controllano la veridicità delle informazioni comunicate, né la loro congruità a delle norme, visto che non esiste alcun codice di disciplina da rispettare.

Dall’altra c’è l’advertising che non si dichiara ma si fa, il cosiddetto product placement all’interno dei profili più cliccati.

A questo proposito, lo scorso gennaio la Competition and Markets Authority, agenzia governativa inglese che tutela la concorrenza sui mercati, si è pronunciata contro la pubblicità occulta, ovvero quella forma di pubblicità che non è indistinguibile da contenuti comuni nelle foto o nei video pubblicati. Chi si era spinta molto oltre era stata, tempo prima, la Federal Trade Commission americana che, per la prima volta, ha affrontato la questione, chiedendo alle celebrità della moda, dello sport e in generale agli influencer di rendere riconoscibili le loro redditizie collaborazioni commerciali attraverso hashtag o commenti.

Una normativa di riferimento però non c’è ancora e nemmeno le condizioni di utilizzo di siti come Instagram prevedono qualche tipo di regola. Ci si domanda quindi se si tratti di attività conformi alle norme del nostro ordinamento, in relazione soprattutto alla tutela il consumatore che, oltre a non dover essere soggetto a spot non veritieri e ingannevoli, ha diritto di poter distinguere i contenuti a scopo pubblicitario da quelli di puramente “di tenedenza”.

Recentemente, l’Unione Nazionale Consumatori ha interrogato l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per chiedere che si verificasse la legittimità dell’attività pubblicitaria occulta sui social network. La base giuridica di tale contestazione è l’articolo. 22 del Codice del Consumo secondo il quale l’intento commerciale dev’essere esplicitamente indicato qualora non sia reso evidente dal contesto o, comunque, se è idoneo a indurre in errore il consumatore.

L’AGCM dovrebbe dunque fare chiarezza e fornire informazioni adeguate sia sul rapporto interno tra produttore e influencer, sia sulla necessità di indicare in maniera esplicita e senza alcuna possibilità di fraintendimento il fine pubblicitario dell’attività.

Nel frattempo, Instagram ha lanciato un nuovo tag,Paid Partnership with”, in modo che gli utenti possano inserirlo sia nelle storie che nei post pubblicati per denunciare la presenza di una pubblciità. In alternativa, molte blogger, tra cui la più celebre è Chiara Ferragni, hanno iniziato ad utilizzare alcuni “claim-hashtag”, come #ad, #advertisement o #pubblicità, per evidenziare lo scopo commerciale della loro foto, in modo da contribuire, seppur in modo non sufficiente, ad una tutela del consumatore.

 

Emoticons e responsabilità precontrattuale.

Gli emoticon o emoji, anche conosciuti come faccine o smiley, sono riproduzioni stilizzate delle principali espressioni facciali. Il termine “emoticon” è un neologismo sincretico delle parole inglesi “emotion” e “icon”, utilizzato per indicare una piccola immagine che riproduce le nostre più comuni emozioni. Ormai però il gruppo originario di emoticon, composto dai tipici sorriso, risata, broncio, pianto, sbuffo e chi più ne ha più ne metta, si è allargato e comprende anche simboli e immagini di più vario genere. 
Questi disegnini, utilizzati prevalentemente su internet e nei messaggi per aggiungere componenti extra-verbali alla comunicazione scritta, sono diventati tanto comuni da costituire, secondo alcuni, un vero e proprio nuovo linguaggio di natura digitale.

Interessante, a questo proposito, è quel che è successo recentemente in Israele, dove un padrone di casa ha denunciato, con successo, una coppia che lo aveva fuorviato scrivendo un messaggio ricco di emoji. 
Più precisamente, il locatore, Yaniv Dahan, ha pubblicato un annuncio per l’affitto della propria casa su un sito dedicato al mercato immobiliare, dove la sfortunata coppia ha risposto, secondo il giudice, manifestando una dichiarazione di intenti. In effetti, dopo che i due giovani hanno risposto all’inserzione, il sig. Dahan ha eliminato il proprio annuncio ma la coppia non si è più fatta viva. La vicenda è stata allora portata all’attenzione dei giudici i quali, tra le prove utilizzate nei confronti degli imputati hanno preso in considerazione parte del testo scritto in risposta all’inserzione, contente immagini raffiguranti varie espressioni e oggetti, dal gesto “v” delle dita della mano ad una ballerina o una bottiglia stappata di champagne.
Il giudice ha deciso in favore di Dahan, ordinando alla coppia di pagare circa duemila dollari a titolo di risarcimento di danno per responsabilità precontrattuale. In particolare, il giudice ha motivato la sua decisione spiegando come le emoji utilizzate dalla coppia, tra cui la bottiglia e la ballerina, indicassero ottimismo e positività e, dunque, l’intenzione di concludere il contratto di locazione. Sebbene questo messaggio non costituisse un contratto vincolante tra le parti, secondo il giudice era sufficiente a far nascere un legittimo affidamento rispetto alla volontà di concluderne uno in futuro.

Sicuramente, e questa è esperienza quotidiana oramai comune ai più, gli emoticon sono simboli intuitivi e immediati, in quanto racchiudono un sentimento o un riferimento che sarebbe difficile da tradurre in parole, e che, soprattutto, richiederebbe più tempo per essere scritto per esteso con le lettere. 
Bisognerebbe però chiedersi se le simpatiche faccine oltre a semplificare la vita e a cancellare le ambiguità chiarendo un concetto, non abbiano sostituito una buona parte dei sentimenti, o meglio della volontà di manifestarli, rendendo la comunicazione virtuale più leggera e più incosciente e per questo meno rappresentativa della volontà del singolo.

Per ora questa sentenza israeliana è un caso isolato, ma sicuramente ci chiama a riflettere su questo tema e a fare attenzione a quel che scriviamo ;-)

Edera Blu.

In queste settimane è in corso una curiosa battaglia legale tra due star della musica internazionale e una compagnia californiana, la  per la registrazione di un marchio: “Blue Ivy” ovvero il nome della figlia di cinque anni di Beyonce e Jay-z. I due cantanti avevano già provato, ai tempi della nascita della bambina, a registrare il suo nome come marchio ma la società di Los Angeles si era opposta, facendo valere i propri diritti sul medesimo nome, già operativo da molti anni. Oggi, Beyoncè e Jay-z hanno inoltrato una nuova richiesta di registrazione aggiungendo al nome della piccola anche il cognome del papà rapper, Mr. Carter. Questa volta, il marchio, disponibile per la visualizzazione sul database statunitense per i marchi e i brevetti, copre moltissime categorie di prodotti, dal mercato del beauty a quello dei prodotti per bambini, ma anche DVD, CD, borse, libri e anche carte da gioco e "performance musicali dal vivo". Secondo il database, la richiesta di registrazione è stata originariamente presentata nel gennaio 2016, ma è stata disponibile per l'opposizione solo il 10 gennaio di quest'anno. E infatti, la società della California si è nuovamente opposta a questo secondo tentativo di registrazione, statuendo che i due celebri genitori vorrebbero procedere con la registrazione del marchio unicamente per impedire a qualcun altro di utilizzare il nome della bambina, senza poter provare l’utilizzo che ne verrà poi effettivamente fatto sul mercato. In effetti, a differenza di quanto è previsto nel nostro ordinamento, secondo la legge sul marchio degli Stati uniti, requisito essenziale per la registrazione di un marchio è la presentazione, al momento della domanda, di un cosiddetto “statement of use” cioè di una dichiarazione che dimostri l’utilizzo del marchio sul mercato statunitense. Qualora si tratti di una società da poco aperta che non ha ancora cominciato ad operare e vendere negli Stati Uniti, la domanda di registrazione del marchio viene accolta in via temporanea. Entro sei mesi la registrazione viene eventualmente confermata a seguito della prova d'uso in commercio negli Stati Uniti.

La prova d'uso si concretizza con la prova della vendita di un prodotto, oppure con la stampa di cataloghi per il mercato americano, con annunci pubblicitari, ecc. In italia, invece, l’utilizzo del marchio non è requisito essenziale per la sua registrazione, ma condizione per il mantenimento della sua validità. Il legislatore, all’articolo 24 del Codice della Proprietà Industriale, ha espressamente disciplinato il caso della decadenza del marchio per “non uso” se il titolare di un marchio registrato in una determinata classe, non lo utilizza per 5 anni di seguito sui prodotti e i servizi previsti per quella classe. In entrambi i casi, la ratio della norma è quella di impedire ad un soggetto di far proprio un segno distintivo senza utilizzarlo in maniera effettiva, sottraendolo al mercato ed impedendo ad altri di farne uso.

Siete pronti per l'entrata in vigore del nuovo regolamento Privacy?

Il Garante della Privacy ha elaborato una Guida per l’applicazione del Regolamento Europeo 2016/679 sulla protezione dei dati personali, adottato dal Parlamento Europeo lo scorso aprile 2016, per permettere alle persone, alle imprese e ai soggetti pubblici di conoscere e correttamente applicare le nuove disposizioni in materia.

Il Regolamento, che diventerà pienamente efficace dal 25 maggio 2018, sarà operativo in tutti i Paesi UE, senza bisogno di alcuna procedura di recepimento e sostituirà l’attuale Codice della Privacy, adottato invece con il decreto legislativo 196 del 2003 in sede di attuazione di una precedente direttiva comunitaria.
Entro un anno, dunque, le normative nazionali in tema di privacy e protezione dei dati di tutti i Paesi membri dell’Unione Europea saranno uniformate in un’unica disciplina.

Il sistema predisposto dall’Unione Europea è costituito da due parti: un regolamento che riguarda le persone fisiche, le imprese e le amministrazioni e una direttiva più specifica relativa all’utilizzo dei dati personali nell’ambito della sicurezza e dell’attività di polizia e giustizia. Questa seconda parte, dovrà essere recepita dai singoli ordinamenti nazionali con una normativa di attuazione. 

La Guida del Garante affronta i temi della prima parte della normativa, dividendoli in sei gruppi (fondamenti di liceità del trattamento; informativa; diritti degli interessati; titolare, responsabile, incaricato del trattamento; approccio basato sul rischio del trattamento e misure di accountability di titolari e responsabili; trasferimenti internazionali di dati) e affrontando per ognuno le relative novità e le eventuali problematiche.

In particolare, tra le novità introdotte dal regolamento ve ne sono alcune a vantaggio del titolare di dati. Innanzitutto, l’informativa eventualmente sottoscritta dal soggetto interessato, dovrà essere chiara, concisa, trasparente, intellegibile e facilmente accessibile. Inoltre, il titolare di dati potrà, all’occorrenza, decidere di trasferirli da un soggetto ad un altro, con la possibilità, quindi di cambiare gestore senza perdere i dati forniti. Soltanto per i paesi extraeuropei o per organizzazioni internazionali che non abbiano un’adeguata politica sulla privacy, sarà necessario un esplicito consenso al trasferimento dei dati personali. 
D’altro canto, il regolamento promuove la responsabilizzazione dei titolari del trattamento e l’adozione di approcci e politiche che tengano conto costantemente del rischio che un determinato trattamento di dati personali può comportare per i diritti e le libertà degli interessati. 
Infine, un’altra importante novità riguarda l’introduzione della figura del Data Protection Officer, un professionista addetto alla gestione e al controllo delle politiche di privacy di società ed enti. 

Entro un anno, dunque, scopriremo gli effetti apportati da questa riforma e vedremo come cambierà la gestione dei dati personali in tutta l’Unione Europea.