Experience Hendrix, società controllata da Janie Handrix, la quale detiene i diritti sull’intero patrimonio del più famoso fratello chitarrista Jimi, ha citato in giudizio Leon Hendrix e il suo socio Pitsicalis per violazione del diritto d’autore e del marchio. Leon e Pitsicalis avrebbero, infatti, utilizzato illecitamente alcuni dei tanti marchi di proprietà di Experience (la firma e le immagini del volto e del busto di Jimi) per commerciare sigarette e bevande alcoliche. Ma le battaglie per l’utilizzo commerciale del nome di Jimi sono risalenti nel tempo. Già nel 2015 la Corte distrettuale di Washington si era pronunciata sulla questione, proibendo a Leon e Pitsicalis di utilizzare le immagini del musicista. Inoltre, lo scorso gennaio 2017 la Corte distrettuale della Georgia ha dichiarato illegittimo da parte di Leon e Pitsicalis l’utilizzo delle parole “Jimi” e “Hendrix” sui loro siti web, social media e piattaforme online. Con la causa intentata il 16 marzo 2017 di fronte al tribunale di New York, la Experience Hendrix ha chiesto che venga dichiarato illegittimo anche l’utilizzo del nome “Purple Haze” nella vendita di prodotti a base di marijuna e di magliette. Purple Haze, infatti, è una canzone scritta nel 1967 da Jimi Handrix. Experience Hendrix ha chiesto un provvedimento ingiuntivo, l’eliminazione dal mercato dei beni in violazione dei diritti sul marchio registrato e un risarcimento dei danni. D’altra parte, Thomas Osinski, avvocato di Pitsicalis e Leon Hendrix, ha dichiarato che “Experience Hendrix conosce da tempo i prodotti dei miei clienti e conduce questa causa solo per offuscare e interferire con gli affari leciti e corretti di Leon che rispetta l’'eredità di Jimi Hendrix.” Osinski, in merito al contenuto della citazione, ha dichiarato che, sebbene le sentenze precedenti hanno escluso Leon Hendrix e la sua famiglia dal catalogo musicale di Jimi Hendrix, e hanno negato la possibilità di utilizzare i marchi creati da Experience Hendrix, niente impedisce a Leon e ai suoi soci di vendere altra merce legata a Hendrix. Chissà come il Tribunale risolverà questa lite familiare questa volta.
Una Mostra può essere tutelata come opera dell'ingegno?
Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha statuito che un’esposizione può essere considerata un’opera dell’ingegno e come tale può essere tutelata dal diritto d’autore. Ai curatori di una mostra, dunque, possono essere riconosciuti diritti morali e patrimoniali. La realizzazione di una mostra può costituire espressione di un’idea creativa: da una parte si tutela il concept, cioè l’originalità del tema, dall’altra il project, cioè l’operazione di carattere creativo che precede l’allestimento vero e proprio. In questo senso, le esposizioni sono il frutto di un complesso e costoso processo di pianificazione e organizzazione, che merita di essere tutelato.
Il caso sottoposto alla Corte, riguardava un servizio televisivo messo in onda da RAI SAT, il quale, riproponendo una mostra, non ne rispettava i contenuti, violando così i diritti di sfruttamento economico riconosciuti dalla legge agli autori dell’opera. Fu dunque accertata la creatività della mostra, elemento necessario per la configurazione di un diritto d’autore. In altri casi, infatti, i giudici italiani avevano rigettato le richieste di accertamento e tutela di un diritto d’autore poiché non era stato provato in che modo originale fossero stati organizzati ed esposti gli oggetti di cui la mostra si componeva. In alcuni casi, inoltre, i giudici si sono spinti oltre e hanno allargato la tutela ad interi musei. È quello che è successo a Parigi, quando nel 2006 i giudici hanno riconosciuto la qualità di “opera d’ingegno” al museo del cinema Henri Langlois.
Sebbene la giurisprudenza, nazionale e non, sembri essere d’accordo nel concedere una tutela a mostre ed esposizioni, più difficile appare ricondurre questa fattispecie ad un istituto giuridico previsto dal legislatore. Nel nostro ordinamento, la tutela del diritto d’autore è garantita dalle previsioni della legge n. 633 del 1941, il quale comprende tutte le opere appartenenti “alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro, alla cinematografia,…,nonché le banche di dati che per la scelta o la disposizione del materiale costituiscono una creazione intellettuale dell’autore”. Con uno sforzo interpretativo, la mostra potrebbe essere considerata una banca dati, intesa quale “raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti..” (articolo 2, comma 9 l.633/41). O ancora, si potrebbe far rientrare l’esposizione artistica nella previsione dell’articolo 4 della legge 633 del 1941, il quale riconosce quali opere dell’ingegno anche le opere derivate, cioè “le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria o artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell'opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale”.
In entrambi i casi, condizione essenziale per il riconoscimento del diritto d’autore anche a mostre ed esposizioni è la realizzazione di un’opera intellettuale originale e creativa.
Cavalli vs Cavalli
Il Tribunale di Catania, sezione delle imprese, ha condannato Roberto Cavalli al pagamento delle spese processuali, nel procedimento contro la Signora Luciana Cavalli, artigiana siciliana, produttrice di scarpe.
Il noto stilista fiorentino, ormai sei anni fa, aveva convenuto in giudizio l’omonima signora per uso improprio del marchio “Cavalli”. Non importa, infatti, che l’artigiana siciliana si chiami davvero Cavalli e che il suo brand sia addirittura antecedente quello del signor Roberto, per lo stilista il cognome è usato a sproposito e si è in presenza di un caso di concorrenza sleale.
Infatti, Roberto Cavalli ha chiesto al giudice di accertare un danno economico a suo danno e di risarcirlo con una somma di 10mila euro per ogni giorno di uso improprio del marchio, ex articolo 2600 del Codice Civile.
Il tribunale però ha rigettato le domande attoree e, come spiega l’avvocatessa della Signora Cavalli, ha premiato la buona fede e la continuità nell’utilizzo del marchio Cavalli da parte della produttrice di scarpe e accessori.
Quest’ultima, quindi, non dovrà ritirare il suo nome dal mercato e potrà continuare a produrre pelletteria made in Italy.
La sentenza siciliana si pone in netto contrasto con quanto stabilito nel maggio 2016 dalla Corte di Cassazione suFiorucci. In quel caso, i giudici giudicarono illecito l’utilizzo da parte dello stilista del marchio Love Therapy by Elio Fiorucci, in quanto il marchio Fiorucci era stato dallo stesso precedentemente venduto ad un gruppo giapponese. In quel caso, dunque, si giudicò che l’utilizzo del nome, anche se il proprio, non è lecito se questo costituisce un marchio patronimico di proprietà di terzi. Può infatti accadere, ha spiegato la Corte, che si generi un effetto agganciamento e che questo, generando confusione, interferisca con il marchio più celebre.
Il Made in Italy come marchio unico nazionale.
Ormai da qualche tempo, tra i produttori italiani, si parla della possibilità di creare un brand nazionale, il “Made in Italy”, attraverso il quale garantire l’italianità del processo produttivo, a partire dalle materie prime.
Il progetto di “Certificazione volontaria di conformità d’Origine e tipicità italiana” è ambizioso e mira ad accrescere il potere attrattivo dell’offerta nazionale, come brand di sistema che valorizzi i prodotti, le produzioni e l’offerta nazionale di beni e servizi.
L’iniziativa è di Conflavoro, che ha stipulato un accordo con l’ente di certificazione mondiale Lluyd’s Register, il quale dovrà rilasciare la certificazione. Il meccanismo di tutela e certificazione è sottoposta ad un doppio controllo: quello di un Organo Interno di Vigilanza, costituito ad hoc da Conflavoro e quella del Comitato Tecnico Scientifico di Indirizzo e Sviluppo del Marchio Unico Nazionale, costituito da personalità esterne all’organizzazione, provenienti dal mondo dell’imprenditoria, dell’università e delle associazioni di rappresentanza dei consumatori.
In particolare, il mercato che più sembra interessato al progetto, è quello alimentare. Il brand unico sarebbe infatti apposto alle confezioni di prodotti alimentari e garantirebbe non solo una tutela nei confronti del sistema di contraffazione, ma anche una risposta alle sempre più stringenti richieste dei consumatori in tema di qualità e salubrità del food and beverage.
Il “Made in Italy” diventerebbe così segno di autenticità e tracciabilità di prodotti italiani e, se possibile, anche simbolo di un’innovazione che coniuga gusto e genuinità.
L'immagine di Marylin Monroe come marchio registrato.
Lo scorso 9 novembre 2016, la Marilyn Monroe Estate ha citato in giudizio un’azienda di abbigliamento newyorkese per essersi illegittimamente servita del marchio “Marilyn Monroe”, di cui la prima è titolare, attraverso l’utilizzo dell’immagine della celebre attrice.
La Marilyn Monroe Estate ha registrato presso il PTO (The United States Patent & Trademark Office) l’esclusiva proprietà dell’immagine, del nome, dell’identità e delle rappresentazioni di Marilyn, nonché il diritto di concedere la licenza di questi diritti a terze parti.
The Estate of Marilyn Monroe è, dunque, detentrice e licenziataria del marchio Marilyn Monroe, che continuativamente e da oltre trent’anni utilizza sui mercati. Questa circostanza rende il marchio incontestabile, conferendogli una maggiore garanzia di tutela.
Per questi motivi, la Monroe Estate ha chiesto che venissero accertate le violazioni previste dal Lanham Act, 15 U.S.C. 1051 ss, dallo Statuto di New York e dalle altre leggi applicabili di Common Law, e che venisse risarcito il danno cagionato, in termini di sfruttamento e diluizione del marchio, nonché di concorrenza sleale.
Poco importa, dunque, che il nome di Marilyn non venga effettivamente utilizzato in commercio dalla società convenuta: l’immagine della più famosa diva di tutti i tempi, quando usata come segno distintivo o marchio, rientra tra i “Monroe Rights” di proprietà dell’attore.
Più in particolare, come si evince anche da una precedente pronuncia giurisprudenziale*, è necessario distinguere la violazione dei diritti di sfruttamento del marchio dai diritti di sfruttamento dell’immagine. Solo la prima fattispecie, infatti, per essere integrata richiede che il consumatore sia indotto a credere che l’utilizzo del marchio sia stato autorizzato dal titolare.
E proprio su questo punto, la Monroe Estate precisa che una confusione tra i consumatori e i rivenditori c’è stata: in molti avrebbero infatti contatto la società credendo che i prodotti della convenuta fossero stati approvati, autorizzati o sponsorizzati dalla società proprietaria del marchio.
Nel caso concreto, dunque, mentre potrebbe essere difficilissimo, o addirittura impossibile, provare una violazione del marchio visto che il marchio non è stato usato, l’articolo 1125 (a) 15 U.S.C dà ampio potere all’attore per intentare una richiesta legittima.
Infatti, la legge federale americana sul marchio è rivolta alla tutela del consumatore. Se si è in presenza di una effettiva confusione all’interno del pubblico dei consumatori ci dovrebbe essere anche un rischio di confusione, che è la fattispecie riconducibile alle previsioni dell’articolo 1125(a) U.S.C.
L’esistenza di effettiva confusione contestuale alla presenza di un marchio registrato dovrebbe assicurare l’applicazione dell’articolo sopra citato, garantendo alla Monroe Estate di vedere accolta la propria domanda.
*A.V.E.L.A., Inc v. The Estate of Mailyn Monroe
Il Tribunale di Torino si pronuncia nuovamente sul principio di esaurimento del marchio.
Il Tribunale di Torino si è nuovamente di recente pronunciato sul principio di esaurimento del marchio in occasione delle richieste cautelari proposte da una società attiva nel mercato della cosmesi e della profumeria, rivolte ad inibire l’utilizzo del proprio marchio e la commercializzazioni dei prodotti ad esso associati da parte di alcuni cessionari.
Come è noto il codice della proprietà industriale statuisce che i diritti di esclusiva spettanti al titolare del marchio si esauriscono in sede di prima immissione sul mercato e dunque il titolare della privativa non può opporsi ad una loro successiva commercializzazione.
La ratio di questa disposizione, ha ricordato il giudice nelle sentenza, è quella di evitare che il titolare del marchio possa, in virtù di questa qualifica, influenzare l’andamento di mercato dei prodotti che sono contraddistinti dal segno di cui è titolare.
Unica eccezione a questa regola è costituita dal verificarsi di pratiche commerciali scorrete da parte dei distributori, i quali possono adottare modalità di vendita che ledono il prestigio del marchio e la sua affidabilità e comportino, da ultimo, uno svantaggio in termini di attrattività e di valore economico del prodotto contrassegnato.
Al di fuori di questi casi, tutti coloro i quali abbiano diritto all’utilizzo del segno distintivo e alla distribuzione sul mercato dei relativi prodotti non devono essere ostacolati nell’esercizio della loro attività né per quanto concerne il prezzo finale né per quanto concerne il sistema di vendita.
Sarebbero dunque indebite e ingiustificate restrizioni nei confronti dei distributori riguardanti la vendita online e l’applicazione di sconti sul prezzo, non costituendo queste di per sé pratiche screditanti.
I siti sono responsabili per i commenti dei lettori?
Il gestore di un sito, anche non professionale, è responsabile dei commenti dei lettori, anche di quelli non anonimi, e rischia quindi una condanna per diffamazione. È quanto stabilito, per la prima volta, da una sentenza pubblicata nei giorni scorsi dalla Corte di Cassazione. Il diffamato è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (Federazione italiana gioco calcio), per un commento pubblicato nel 2009 sul sito Agenziacalcio.it, che per questa vicenda è stato anche oscurato. L'autore del commento, inserito autonomamente, definiva Tavecchio "emerito farabutto" e "pregiudicato doc", allegando il certificato penale. In primo grado il gestore è stato assolto, in secondo grado condannato e ora la Cassazione conferma: dovrà pagare 60 mila euro a Tavecchio, per "concorso in diffamazione". Per la Cassazione c'è concorso perché il gestore doveva sapere dell'esistenza di quel commento, poiché il suo autore gli aveva mandato una mail contenente il certificato penale di Tavecchio. L'imputato invece sostiene di aver saputo del commento diffamatorio solo quando la polizia gli ha notificato il sequestro del sito.
La sentenza colpisce anche perché la giurisprudenza sembrava finora orientarsi in modo diverso: la Corte di Giustizia europea ritiene non responsabili i gestori anche per commenti anonimi. A novembre scorso è stato assolto in appello Massimiliano Tonelli, fondatore del sito Cartellopoli (sul degrado di Roma). In primo grado era stato condannato a nove mesi di carcere per istigazione a delinquere in merito ad alcuni commenti anonimi. Sembrava ormai tramontata la precedente linea interpretativa, che aveva invece portato alla condanna nel 2014 al gestore di Nuovocadore.it. Invece adesso la Cassazione entra nel merito per la prima volta e sentenzia. I gestori di siti sono avvisati. Ma non solo loro, tutti gli utenti. Considerando che chiunque sul web può gestire un sito o un altro spazio web, con i suoi (a volte pericolosi) commenti.
Apple perde la battaglia per la protezione del marchio Apple Watch in Cina.
Apple ha perso per la seconda volta il ricorso per la registrazione in Cina del marchio Apple Watch di sua proprietà. Secondo una massima del Tribunale per la Proprietà Intellettuale di Pechino, il Design in risulterebbe eccessivamente generica come schermata iniziale per godere di tutela nel territorio, in quanto comune a molti smartphone e orologi.
Nel respingere la prima istanza di appello rivolta dalla Apple all'organo cinese per la Proprietà Intellettuale, il Tribunale di Pechino aveva dichiarato che il marchio depositato dal colosso americano della tecnologia risultava essere “troppo complesso”, e difettava delle caratteristiche fondamentali di un marchio. Come potete sapere, affinché "una parola, un nome, un simbolo o un disegno (inclusi loghi, colori, suoni, configurazioni dei prodotti, ecc), o una combinazione di questi" possa essere registrato come marchio d’azienda è necessario che venga utilizzato in commercio per identificare e contraddistinguere i prodotti di uno specifico brand, da quelli di altri competitors. Il Tribunale ha stabilito che il marchio Apple Watch, piuttosto che ingenerare nel pubblico la credenza l’orologio in questione fosse di proprietà della Apple Inc., è più probabile che appaia al consumatore medio semplicemente come una rappresentazione della schermata iniziale di un qualsiasi smart watch.
La prima richiesta di registrazione nel territorio cinese è avvenuta nel novembre del 2014, quando Apple ha depositato quattro marchi, di cui il marchio figurativo “Apple Watch” e tre dei relativi accessori Apple. Nel marzo di quest’anno, il Comitato di Valutazione Marchi della Direzione Generale per l'Industria e il Commercio in Cina ha respinto le richieste di Apple, affermando che i design proposti sono manifestamente complessi e difettavano delle caratteristiche necessarie affinché questi venissero registrati come marchi. Apple ha impugnato la sentenza di fronte al Tribunale per la Proprietà Intellettuale di Pechino, sostenendo che i marchi Apple di cui si richiede la registrazione sono stati ampiamente utilizzati e pubblicizzati sulla schermata iniziale degli Orologi Apple Watch, tanto da ottenere una forte rinomanza nel pubblico che permette al consumatore medio di distinguere immediatamente i prodotti di proprietà della Apple Inc., da quelli di altri brand.
In breve: Apple ha proposto come difesa il fatto che, nonostante il marchio proposto non sia intrinsecamente distintivo (o in grado - al primo utilizzo - di comunicare al consumatore che il marchio identifica l'origine invece che descrivere il prodotto stesso), il marchio Apple Watch ha acquisito un significato secondario nella mente dei consumatori, e di conseguenza, dovrebbe essere oggetto di protezione.
Come cambierà l'industria legale con l'arrivo di Blockchain?
Blockchain è un libro mastro accessibile al pubblico che può essere utilizzato per tutto ciò che venga normalmente salvato su un database o programma di calcolo.
In sostanza, Blockchain è un programma a partire dal quale è possibile costruire un sistema di contabilità. Un network chiamato Ethereum, descritto come “una piattaforma virtuale decentralizzata che esegue contratti peer-to-peer” sta ottenendo sempre più successo con i suoi cosiddetti Smart Contracts (Contratti Intelligenti).
Contratti
Blockchain può modificare il mondo dei contratti legali. Quello che rende Blockchain così innovativo è che non solo può registrare dati lasciandoli immutati, ma può anche creare una vera e propria elaborazione sugli stessi.
Per esempio, io potrei redigere un contratto che stabilisca che quando il mio brevetto sarà approvato dall’Ufficio Marchi e Brevetti (UIBM), i miei soci riceveranno una quota del 10% nella mia azienda. Come funziona? Una volta che il contratto verrà registrato sul Blockchain, questo controllerà se il brevetto è stato registrato, ed in caso innescherà un meccanismo che distribuisca le quote ai soci.
Tutto ciò verrebbe automatizzato e accadrebbe al di fuori dell’intervento di un legale. Infatti, si arriverebbe ad un livello tale per cui, una volta vincolato ad un sistema di pagamenti, le quote percentuali da versare verrebbero automaticamente versate ai soci non appena si avrà notizia della registrazione del brevetto.
Proprietà intellettuale
Se il Blockchain è pronto per qualcosa, questa è la proprietà intellettuale. Tale tecnologia crea un infatti un vero e proprio libro mastro accessibile al pubblico e adatto per ogni tipo di file che può portare benefici a livello globale.
Tali informazioni offrono chiari diritti di utilizzo per tutti. Si potrebbe anche richiedere di registrare un marchio tramite questo sistema. Sfruttando un algoritmo che identifica qualsiasi possibile somiglianza con altri marchi, il sistema potrebbe quindi concedere o respingere tale richiesta. Tutto ciò diventerebbe a portata di tutti.
Diritti Immobiliari
La ricchezza è data dalla proprietà, e uno degli aspetti più complessi in ambito di sviluppo degli Stati è determinare i proprietari di ciascun territorio. I conflitti spesso accadono perché governi o individui corrotti si approfittano di chi è più in difficoltà.
Avere un libro mastro accessibile al pubblico permetterebbe a chiunque di sapere chi è proprietario di cosa; e questo renderebbe lo scambio di tali terreni molto più semplice ed equo.
Se una famiglia decidesse di comprare un pezzo di terra che possa essere legalmente registrato su Blockchain, il controllo sullo stesso sarebbe molto più semplice da verificare che, per esempio, su registri statali.
Alcuni paesi dell’America del Sud stanno cominciando a usare Blockchain per tenere traccia di chi possiede determinate parti di territorio.
Raccolta dati
Alcuni paesi africani stanno cominciando a usare la tecnologia Blockchain per avere informazioni sul censimento. Il censimento sulle votazioni potrebbe essere aggiunto a tale sistema per avere un registro centrale dei cittadini votanti. In queste aree, che sono per lo più sottosviluppate, Blockchain potrebbe portare un’enorme crescita.
Servizi finanziari
Anche l’industria bancaria si sta lanciando in questa nuova piattaforma. L’idea è che le nostre azioni diventino compatibili con il sistema Blockchain. Semplicemente, ogni azione comprata o venduta verrà registrata sul libro mastro. Ciascuno potrà tener traccia del proprio portafoglio di azioni e addirittura collegarlo ai propri documenti di gestione delle proprietà
Una volta estrapolati, tali documenti potranno essere salvati sul Blockchain fino a quando si vuole (eventualmente anche fino al proprio decesso). Infine, tali documenti potranno essere affidati ai propri successori.
Da Klein a Kapoor. Gli artisti ed i diritti di privati sui colori.
Anish Kapoor ha recentemente annunciato di aver acquistato il diritto di esclusiva d'uso del Vantablack, un particolare pigmento di nero così scuro da assorbire il 99,96% della luce.
Il Vantablack è una sostanza prodotta dalla Surrey Nano Systems, sviluppata e brevettata dalla Nasa a scopi militari che facilita il travestimento dei satelliti. La vernice si caratterizza per il fatto di essere in grado di assorbire tanto da impedire all’occhio umano di rilevare il tipo di ombre che aiutano il cervello a interpretare la forma di un oggetto: un pezzo spiegazzato di carta stagnola coperto con uno strato di vernice appare quasi completamente piatto.
Da tempo Kapoor ha cominciato a fare esperimenti con il Vantablack mettendosi in contatto con la società britannica Surrey Nano Systems, la prima a essere in grado di produrre il pigmento in serie.
Questa però non è la prima volta che un artista rivendica un legame unico con un particolare colore. Nel 1960, l’artista francese Yves Klein brevettò International Klein Blue (IKB), una particolare tonalità di blu, che aveva sviluppato con un produttore di vernici di Parigi e utilizzato in una serie di dipinti monocromi. Klein morì nel 1962, ma IKB continua a esistere e a essere utilizzato anche oggi.
A pensare male il diritto di esclusiva potrebbe essere una strategia di marketing della società Surrey Nano Systems: associare il proprio materiale a uno dei più grandi artisti contemporanei. Oppure si tratta della riproposizione di un fenomeno già noto nella storia, che lega l’uso del colore quasi indissolubilmente alla capacità di spesa dell’artista.
Mc Donald's accusata di violazione del Copyright dai Writers Americani.
Con il lancio del restyling dei suoi ristoranti, Mc Donald’s sta cercando da un lato di avvicinarsi sempre di più ad un pubblico più giovane e dall’altro di difendersi dalla produzione indiscriminata di graffiti parodistici che diffamano l’immagine della nota azienda americana.
Con un clamoroso effetto boomerang, l’azienda americana però ha attirato soprattutto una serie di cause per violazione dei diritti da parte di graffitari che accusano la catena di fast food di averli copiati. L’ultima in ordine di tempo è quella depositata al tribunale federale di Los Angeles da Jean Berreau, ex compagna del writer Dash Snow e ora amministratrice dei suoi beni.
«Niente è più antitetico rispetto alla sua reputazione di strada da outsider del consumismo delle grandi aziende, di cui McDonald’s e il suo marketing sono la personificazione», si legge nella denuncia. Snow, che in realtà era il discendente di una famiglia di aristocratici e industriali di origine francesi.
Non è la prima volta che le nuove decorazioni vengono accusate di aver violato il copyright: lo scorso 25 marzo un altro writer, Norm, ha citato in giudizio l’azienda accusandola di aver replicato un suo celebre graffito realizzato a Brooklyn, in Bartlett Street («Norm sulla scala antincendio di Bartlett»). Norm, a differenza di Snow, non è contrario a un uso commerciale del suo lavoro, e ha lavorato spesso con grandi marchi. Nella denuncia afferma però che McDonald’s ha «deciso consapevolmente di rivestire i muri dei suoi ristoranti in giro per il mondo con il nome di Norm, la sua arte, firma, marchio commerciale» e ha «installato e continui a installare, senza permessi, copie non autorizzate, foto e / raffigurazioni del lavoro come rivestimento in decine di ristornati in Europa e Asia». Neanche un mese dopo il writer, che lavora prevalentemente a Los Angeles, ha rinunciato alla causa rifiutando ogni commento sulla vicenda: non è noto se abbia raggiunto un accordo di qualche tipo con la catena.
Il caso Elena Ferrante tra diritto all'anonimato e Privacy.
“Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona”.
Così scrive nell'opera autobiografica intitolata La Frantumaglia, la celebre e misteriosa Elena Ferrante di cui oggi – pare - sia stata svelata l’identità.
L’autrice dei libri divenuti best seller è, secondo la recente inchiesta del Sole 24Ore, Anita Raja, traduttrice nata a Napoli e residente a Roma, la cui madre era un’ebrea polacca sfuggita all’Olocausto. Il giallo sulla verità di Elena Ferrante sarebbe dunque stato risolto, realizzando così il (legittimo?) desiderio di milioni di lettori che da anni vogliono conoscere il nome e la persona che si cela dietro il famoso pseudonimo.
Ci si domanda in primo luogo se l’inchiesta abbia violato il diritto allo pseudonimo. Questo infatti oltre ad essere, al pari del nome, può essere utilizzato come strumento per occultare la propria vera identità, e quindi come espressione del diritto alla riservatezza.
Secondo il dettato del codice civile, lo pseudonimo è un nome diverso da quello attribuito per legge; può però essere tutelato alla pari del diritto al nome purché abbia acquistato l'importanza del nome stesso, od assolva alla stessa funzione di identificazione sociale Qualora vi sia un tale presupposto (si pensi agli pseudonimi degli scrittori, o degli attori che ricorrano a nomi d'arte pressoché più noti del nome proprio) il soggetto che lo usi potrà far valere l'azione inibitoria contro l'uso indebito, chiedendo al giudice la cessazione dell'utilizzo illegittimo dello pseudonimo, sempre salvo il risarcimento dei danni.
Ma questo non sembra essere il caso. Infatti l’inchiesta giornalistica de Il Sole 24 Ore, più che mettere in atto una appropriazione dello pseudonimo della famosa scrittrice, sembra aver violato il diritto della stessa all’anonimato.
Nell'ordinamento giuridico Italiano non esiste, tuttavia, un diritto generale di anonimato.
Potrebbe mai Elena Ferrante, la quale ha sempre detto di non voler far conoscere la sua vera identità invocare una più generica violazione della Privacy?; diritto che, come è noto, viene sempre più spesso negato ai personaggi pubblici.
Prima della entrata in vigore della Legge sulla privacy, la fonte del c.d. right to be left alone era costituita da una sentenza della Corte di Cassazione del 1975, che identificava tale diritto nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l'onore, la reputazione o il decoro, non sono giustificati da interessi pubblici preminenti.
Col tempo la Giurisprudenza aveva precisato che chi sceglieva la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presumeva rinunciare a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlato alla sua dimensione pubblica.
La linea di demarcazione tra il diritto alla riservatezza e il diritto all'informazione di terzi sembrava quindi essere la popolarità del soggetto. Tuttavia, anche soggetti molto popolari conservano tale diritto, limitatamente a fatti che non hanno niente a che vedere con i motivi della propria popolarità.
Il rapporto fra diritto di cronaca e privacy è molto complesso ed è regolato da una serie di norme, stratificatesi nel tempo, che hanno cercato di stabilire un corretto compromesso fra i diversi interessi messi in campo.
Ci sono norme volte a proteggere la privacy dei cittadini alle quali i giornalisti devono attenersi durante l'adempimento del proprio lavoro.
La legge n.675 del 1996 sulla protezione dei dati personali, confluita poi nel “Codice in materia di protezione dei dati personali” (d.lgs. n.196 del 30 giugno 2003), ha dato vita ad un articolato sistema di bilanciamento dei diritti contrapposti attraverso la previsione di una pluralità di mezzi giuridici: criteri per il bilanciamento, procedure per realizzarlo, strumenti giurisdizionali.
Il quadro normativo attuale prevede un meccanismo di garanzia diversamente articolato a seconda della natura dei dati.
Ricordiamo, brevemente, che l’utilizzazione dei dati personali è possibile qualora vengano rispettate tre condizioni:
- l’utilizzazione deve avvenire nell’esercizio di un’attività riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero;
- i dati personali debbono essere relativi a fatti di interesse pubblico;
- la diffusione deve avvenire “entro limiti essenziali”, cioè non deve eccedere l’intento informativo, inserendo informazioni non strettamente necessarie.
L’inchiesta sulla vera identità di Elena Ferrante non è ancora stata né confermata né smentita con chiarezza. Se sia davvero Anita Raja è quindi ancora un mistero.
Gli effetti della Brexit sul Marchio Comunitario.
Con referendum dello scorso 23 giugno, i cittadini del Regno Unito, hanno deciso di porre fine alla loro adesione all'UE.
Ovviamente tale decisione avrà impatto anche nel mondo della proprietà intellettuale dove il Regno Unito riveste un importante ruolo centrale nella UE.
Il processo come è noto durerà un paio d’anni e ciò signfica che i marchi dell'Unione europea avranno ancora efficacia nel Regno Unito almeno fino a giugno 2018, forse più a lungo.
I diritti dell’Unione Europea, come i design ed i marchi, dovrebbero terminare di avere efficacia nel Regno Unito e forse verrà creato un meccanismo per convertire la tutela di tali diritti in diritti britannici.
Allo stato non si possono fare veramente delle previsioni sugli effetti e sulla durata del processo. Servirà comunque del tempo per verificare la portata di questo evento che, in ogni caso, è destinato a cambiare la geografia europea della proprietà intellettuale.
Aquazzura vs. Trump. S(c)andalo nel mondo della moda.
Aquazzura è una maison fondata nel 2011 a Firenze dal designer colombiano Edgardo Osorio che produce scarpe per donne ed ha recentemente intentato una causa per contraffazione contro Ivanka Trump e il suo licenziatario, Marc Fisher, con l'accusa di copiare il design della "Wild Thing Shoe" un best seller della società fiorentina basandosi, inter alia sulla tutela prevista dall’istituto del trade dress.
Oltre alla protezione prevista dal diritto d’autore e dal marchio, la normativa americana prevede la protezione del c.d. trade dress. Il trade dress è un istituto americano di elaborazione giurisprudenziale in quanto non previsto dal Lehman Act. Le Corti lo hanno definito come un insieme di caratteristiche di una confezione o prodotto, che possono comprendere le dimensioni, la forma, il colore, il posizionamento, l’etichetta, la grafica.
La protezione di un prodotto/servizio attraverso l’istituto del trade dress presuppone due caratteristiche che possono alternativamente sussistere:
- capacità distintiva intrinseca (piuttosto rara);
- capacità distintiva acquisita nel tempo grazie ad un uso intenso sul mercato.
- il marchio è intrinsecamente distintivo se per la sua natura intrinseca è idoneo ad identificare la provenienza aziendale (caso Wal-Mart, cit. Two Pesos, Inc. v. Taco Cabana, Inc., 505 Stati Uniti 763, 768 (1992).
La causa è attualmente pendente davanti alla corte federale del Southern District of New York.
L'uso degli hashtags ed i diritti di marchio del CIO.
Il Comitato Olimpico Americano (USCO) sta cercando di prevenire ad alcune aziende l’utilizzo degli hashtag ufficiali, come #TeamUSA e # Rio2016 su Twitter.Nelle ultime settimane, l'USOC ha inviato alcune lettere ad aziende sponsor di atleti (che non sono sponsor ufficiali dei giochi), contestando la violazione dei diritti di marchio di proprietà del USCO per il solo fatto di far riferimento a #Rio2016.
In una di queste lettere, scritte dall’USOC, si afferma: “le aziende non possono postare commenti sui Giochi tramite i loro account social media aziendali. Questa restrizione include l'uso di marchi di proprietà dell’USOC “# Rio2016” e “#TeamUSA”.
L'approccio (alquanto rigido) mira a proteggere sponsor - come Coca Cola, McDonald, GE, P & G, Visa e Samsung - che hanno investito rilevanti somme per farsi accreditare come sponsor ufficiali della nota manifestazione sportiva.
Negli Stati Uniti è possibile depositare un hashtag come marchio d’impresa sin dal 2013 ma l’applicazione del diritto dei marchi a tali segni distintivi può in alcuni casi rivelarsi poco efficace per proteggere un segno distintivo contrassegnato dal segno del “cancelletto”.
Infatti violazione di un marchio si verifica quando una parte utilizza un marchio allo scopo di confondere il pubblico in relazione all’origina di un prodotto o di un servizio commercializzato.
Tuttavia, non è detto che ogni volta che si utilizza un hashtag ciò avvenga con il preciso scopo di distinguere un prodotto o un servizio da quello di un concorrente. Infatti ciò può avvenire al solo scopo di effettuare delle dichiarazioni all’interno di un forum. Del resto in quale altro modo si può indicare che si sta parlando delle Olimpiadi di Rio del 2016 senza scrivere # Rio2016?
Aippi Milano 2016
Usi Instagram?
Usi Instagram?
Instagram, così come altre applicazioni di condivisione di immagini, deve ricevere il consenso dai suoi utenti di poter legittimamente mostrare le loro immagini online, altrimenti violerebbe il loro diritto d’autore. Ovvio no? Forse, ma c’è dell’altro...
1. L’utente garantisce una Licenza
“Instagram NON rivendica alcuna titolarità su testi, file, immagini, foto, video, suoni, opere musicali, opere d’autore, applicazioni o altri materiali (collettivamente definiti come “Contenuto”) che l’utente posta su o tramite Instagram. Mostrando o pubblicando (“postando”) qualsiasi Contenuto su Instagram, l’utente garantisce a Instagram una licenza universale, non esclusiva e libera da qualsiasi onere o diritto, di utilizzare, modificare, cancellare, aggiungere, produrre e mostrare pubblicamente, riprodurre e tradurre tale Contenuto, inclusa, senza limitazione alcuna, la distribuzione di tutto o parte del Sito in qualsiasi formato digitale tramite qualsiasi canale...”
Questo vuol dire che sei ancora il titolare delle tue fotografie? In teoria sì, ma loro possono usarle quando e come vogliono. Per il momento, usano le foto degli utenti per finalità apparentemente innocue, come post di blog e simili, cosicchè sembrerebbe vero il fatto che le possibilità che Instagram utilizzi il Contenuto degli utenti per scopi di lucro non siano così alte. Quella clausola, comunque, è ancora lì. Senza contare il fatto che se sei su Instagram, tu di fatto l’hai già accettata.
2. A meno che il tuo account non sia impostato su “Privato”
“...solo il Contenuto non condiviso pubblicamente (“privato”) non verrà distribuito al di fuori di Instagram.”
Ottimo! Ma se invece usi Instagram per avere sempre più seguaci (“followers”)?
3. Dichiarazione e garanzie...
“L’utente dichiara e garantisce che (i) è il titolare del Contenuto da lui postato su o tramite Instagram o comunque possiede il diritto di concedere la licenza di cui alla presente sezione, (ii) la pubblicazione e l’uso del suo Contenuto non viola diritti di privacy, pubblicità, d’autore, diritti contrattuali, di proprietà intellettuale o altri diritti di qualsiasi persona, e (iii) la pubblicazione del suo Contenuto sul Sito non costituisce violazione di alcun contratto tra lui e terzi. L’utente accetta di pagare qualsiasi royalty, tassa o altra somma di denaro dovuta a qualsiasi persona in ragione del Contenuto che pubblicizza su o tramite Instagram.”
In altre parole, non prendere alcuna foto da Internet per poi pubblicizzarla (“postarla”) su Instagram.
4. Vuoi rileggere l’ultima frase di quella clausola? Ahia.
“L’utente accetta di pagare qualsiasi royalty, tassa o altra somma di denaro dovuta a qualsiasi persona in ragione del Contenuto che pubblicizza su o tramite Instagram.”
In altre parole, i gestori di Instagram hanno le spalle coperte. Loro non pagheranno un centesimo se sei nei guai. Questo è il motivo per il quale è meglio non essere citati in giudizio (a parte questo, per altre ovvie ragioni). Se la persona fisica o giuridica che ti cita decide di chiamare in causa anche Instagram (cosa che probabilmente farà visto che è il suo servizio che hai utilizzato), sulla base di questa clausola, potresti trovarti a pagare il tuo avvocato E l’avvocato di Instagram. Tutto ciò, in aggiunta al risarcimento dei danni che hai causato per aver infranto i diritti d’autore. Ahia? AHIA.
A parte questo... Instagram è grandioso!
The Song does not Remain the Same.
I Led Zeppelin hanno vinto la causa per plagio di "Stairway To Hevean", forse la loro canzone più celebre. Una giuria del Tribunale Federale di Los Angeles ha stabilito che gli eredi di Randy California non sono stati in grado di provare il plagio della canzone "Taurus" composta nel 1968 dagli Spirit.
L'azione legale era iniziata nel 2014 e secondo gli attori, i Led Zeppelin erano a conoscenza della canzone "Taurus" che avrebbero successivamente copiato e pubblicato nel loro celebre album IV. Il brano Taurus è invece precedentemente apparso sull'album di debutto omonimo del 1968 degli Spirit.
La giuria della corte federale, pur confermando che il fatto che Jimmy Page e Robert Plant erano a conoscenza del riff del brano "Taurus" già nel 1967, ha convenuto sull'insussistenza di un plagio totale o parziale da parte della rock band britannica.
Continua la battiglia tra Soundreef e la SIAE
Con un provvedimento dello scorso 27 maggio il Tribunale di Milano ha sospeso l’esecuzione promossa dalla SIAE contro una società cliente della Soundreef rea, a dire della stessa SIAE, di aver corrisposto le royalties per la diffusione da musica d’ambiente alla collecting society inglese.
Nel procedimento Soundreef è intervenuta per sostenere le ragioni del proprio cliente argomentando la piena legittimità dell’attività di intermediazione svolta in Italia per i diritti sulla musica diffusa all’interno di un esercizio commerciale, mentre al contrario, secondo SIAE la collecting society inglese non disponesse di alcun mandato per l’intermediazione di tali diritti.
Con il provvedimento reso il Giudice – sulla base degli atti di causa – ha ritenuto, per il momento, fondata la tesi di Soundreef ed ha pertanto respinto il ricorso della SIAE in attesa della definizione del giudizio di merito.
SIAE, secondo il Tribunale di Milano, non avrebbe, infatti, sin qui provato di disporre di alcun mandato ad intermediare i diritti d’autore sulle opere utilizzate dall’esercizio commerciale in questione e, in ogni caso, non sembrerebbe avere alcun diritto ad addebitare le penali pure richieste all’utilizzatore.
Resta da comprendere il futuro di Soundreef alla luce del recente esito del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Una volta completato il processo di uscita dall’Unione Europea, Soundreef che ha sede a Londra, non potrebbe in linea di principio più invocare la diretta applicazione della direttivaBarnier (EU 2014/26).
Come riviltalizzare un marchio decaduto.
Ultimamente è possibile notare la tendenza di alcune cui start-up che provvedono a ridepositare marchi caduti in disuso per cercare di dare loro nuova vita. Proprio di recente il marchio della celebre maison “Paul Poiret” è stato recentemente messo in vendita dai suoi proprietari dopo essere stato dormiente per circa 80 anni.
Nei campi della moda, dell’orologeria, dei dolciumi e del tabacco, alcune aziende hanno recentemente provato a rivitalizzare marchi caduti in disuso ma ancora presenti nell’immaginario collettivo.
Rilanciare un marchio può far risparmiare milioni di dollari in costi di marketing che possono essere utilizzati per altri investimenti.
In realtà, esiste un vero e proprio market place per l’acquisto di vecchi marchi, ma non è sempre necessario acquistare un marchio per ottenere i diritti di privativa.
Il primo passo per far rivivere un vecchio marchio è quello di indagare la titolarità dei diritti ed il suo uso effettivo conducendo una ricerca di anteriorità. Infatti è bene sapere che i diritti concessi da un marchio decadono se il segno distintivo non viene utilizzato entro cinque anni dalla sua registrazione.
Se il marchio è stato utilizzato di recente o il marchio non è ancora decaduto, si può considerare di contattare il titolare del marchio per informarsi sulla eventuale disponibilità e offerta di acquistarlo insieme con qualsiasi altra proprietà intellettuale potrebbe essere necessario portare il prodotto torna alla vita.
Se il marchio invece è decaduto, allora si potrà procedere, con le opportune cautele, al nuovo deposito.